RECENSIONI
Titolo:
DELLA REALTÀ. FINI DELLA FILOSOFIA
Autore: Gianni Vattimo
Editore: Garzanti
Anno: 2012
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recensione a cura di
Maurizio Canauz |
Settembre 2012
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Titolo:
LA RAZIONALITÀ NELL'ECONOMIA
Autore: Vernpn L. Smith
Editore: IBL
Anno: 2010
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recensione a cura di
Maurizio Canauz |
Luglio 2012
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Titolo:
Adriano Olivetti, un secolo troppo presto
Sceneggiatura: Marco PeroniFranco Reviglio
Disegni: Riccardo Cecchetti
Editore: BECCO GIALLO
Anno: 2011
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recensione a cura di
Maurizio Canauz |
Aprile 2012
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Titolo:
Goodbye Keynes?
Autore: Franco Reviglio
Editore: Guerini e Associati
Anno: 2010
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recensione a cura di
Maurizio Canauz |
Febbraio 2012
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Titolo: Lezioni di politica
(Volume Primo: Storia delle dottrine politiche)
(Volume secondo: Scienza della politica)
Autore: Gianfranco Miglio
Editore: il Mulino
Anno: 2011 |
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recensione a cura di
Maurizio Canauz |
Dicembre
2011 |
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Titolo: Mente Mercati
Decisioni
Autore: Matteo Motterlini - Francesco Guala
Editore: Egea – Università Bocconi
Anno: 2011 |
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recensione a cura di
Maurizio Canauz |
Novembre
2011 |
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Titolo:Tra Stato e mercato
Autore: (a cura di) Francesco Pulitini
Editore: IBL libri
Anno: 2011 |
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recensione a cura di
Maurizio Canauz |
Ottobre
2011
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Titolo:Tu non sei il tuo
lavoro
(in Working for Paradise di Latronico Vincenzo,
Postorino Rosella; Valerio Chiara)
Autore: Rosella Postorino
Editore: Bompiani
Anno: 2009 |
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recensione a cura di
Maurizio Canauz |
Settembre 2011 |
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DUE LIBRI PER L’ESTATE
2011 |
Titolo: Antologia delle prediche volgari. Economia civile e cura pastorale
dei sermoni di San Bernardino da Siena
Autore : San Bernardino da Siena - (A cura di F. Felice e M. Fochesato).
Editore: Cantagalli
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Titolo; Economia ed etica
La crisi e la sfida dell'economia civile
Autore : S. Zamagni (intervistato da N. Curci)
Editore: La Scuola
Anno: 2009 |
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Ormai le vacanze sono prossime.
E’ quindi giunto il momento di preparare le valigie
stipandovi tutto l’immaginario benché si dica che il
bagaglio del semplice e del saggio sia composto da
poco o nulla.
Io nel mio piccolo suggerisco due libri,
apparentemente molto differenti tra loro, che hanno
il pregio di riprendere alcuni argomenti che sono
stati oggetto di opere precedentemente recensite.
Economia civile, felicità, nascita del mercato,
rapporto tra religione e mercato.
Il primo libro, edito da Cantagalli, si intitola:
Antologia delle prediche volgari - Economia civile e
cura pastorale dei sermoni di San Bernardino da
Siena ed è stato curato da Flavio Felice e Mattia
Fochesato.
Si tratta di una raccolta di discorsi e prediche che
San Bernardino da Siena all’inizio del 1400 aveva
rivolto agli abitanti della città toscana.
Come è facile intuire si ritrovano qui certe
suggestioni presenti nello scritto di Le Goff o in
quello di Bruni precedentemente recensiti.
Al di là del forte afflato etico riscontrabile nelle
parole di San Bernardino ciò che è possibile arguire
da questi discorsi è la non opposizione allo spirito
del capitalismo da parte di alcuni religiosi
cattolici.
Non opposizione che non significa necessariamente
accettazione di un mercato selvaggio ma comprensione
di certe dinamiche sociali ed economiche che
venivano a realizzarsi nel medioevo avanzato.
In questo senso Bernardino appare come un
personaggio tipico della sua epoca e rappresentativo
del modo di sentire e pensare di una comunità in un
delicato momento di passaggio e trasformazione.
Questa, a mio avviso, è la chiave di lettura delle
parole di Foschesato nella Prefazione, secondo cui
il ricorrente utilizzo di metafore provenienti
dall’attività dei mercanti mostra quanto Bernardino
fosse vicino alle esperienze dei suoi contemporanei
impegnati nel commercio: non per celebrare
l’esistente (e anzi i testi contengono più di
un’invettiva contro i vizi dei senesi), ma perché
l’amore per l’altro implica in primo luogo uno
sforzo di comprensione e partecipazione.
Logicamente essendo uomo di Chiesa e di Fede San
Bernardino non può accettare l’esaltazione della
ricchezza per la ricchezza, il piegare ogni regola e
principio a quello dell’accumulo.
Al centro dell’orizzonte umano vi deve essere sempre
Dio e l’amore per il prossimo.
Ma questo non necessariamente deve portare a una
svalutazione del presente e dell’esistenza ma solo
ad un modo diverso di vivere le relazioni con gli
altri anche nelle transazioni economiche, non
perdendo mai il senso escatologico che deve permeare
la vita,
Proprio da questa diversa prospettiva deriva una
specifica etica degli affari (legata al rifiuto di
mentire all’acquirente o contraffare le merci),
insieme a un modo davvero peculiare d’intendere la
società che, vissuta dagli uomini, dipende, in
ultima istanza, da Dio alla cui volontà e alle cui
regole l’uomo non può e non deve sottrarsi.
Difficile stabilire se si possa parlare di
capitalismo, sicuramente sembra che Bernardino
riconosca l’esistenza di una forma di libero mercato
e cerchi di disciplinarlo secondo dettami religiosi
ed etici superando i costumi e le pratiche che si
stavano formando.
Come è stato sostenuto quindi recentemente da alcuni
storici e storici dell’economia, in base alle
testimonianze fornite da testi come quello qui
recensito, si dovrebbe rivedere la ricostruzione
fatta, fino ad ora, della nascita del mercato e
della matrice del capitalismo.
Nascita e matrice che, a differenza di quanto
affermato da Weber e fino ad ora comunemente
accettato, non si troverebbe solo nell’etica
protestante, ma anche in quella cattolica specie se
si considera il ruolo che negli ultimi secoli del
Medioevo giocarono i banchieri e i mercanti delle
maggiori città dell’Italia centro -settentrionale e
delle Fiandre.
Un libro curioso che sicuramente porta nuovi
elementi alle riflessioni sulla nascita del mercato
e sul rapporto fede, etica economia che tanta
influenza hanno anche nel dibattito odierno
soprattutto da parte di chi ritiene insufficiente
l’attuale sistema economico e propugna il suo
superamento, magari, ponendo al centro l’uomo come
portatore di un valore e di un significato che va
oltre ogni criterio di mera efficienza.
In questa ottica si pone anche il secondo libro qui
proposto e recensito: Economia ed Etica, di Stefano
Zamagni edito da La Scuola.
Stefano Zamagni è senza dubbio uno degli economisti
italiani che attualmente si impegna a proporre un
modello economico che trascenda quello attuale
ponendo l’uomo e il suo incommensurabile valore al
centro di ogni riflessione e valutazione.
In questo scritto 1’illustre economista si lascia
interrogare da Nicola Curci sulla crisi economica,
sulla dimensione etica dell’economia (soprattutto
alla luce della Enciclica Caritas in Veritate), sul
superamento della visione individualista ed
utilitarista dell’economia a favore di una
concezione portatrice di valori collettivi e civili.
Il libro inizia affrontando e approfondendo il
significato e l’importanza dell’enciclica di
Benedetto XVI.
Tornano così temi e concetti, in un certo senso già
noti, quali: reciprocità, dono, fraternità.
Concetti solo in apparenza anti - economici che
tuttavia impongono una diversa visione dell’economia
che, in un certo senso,si ricollega a quella di San
Tommaso, San Bonaventura da Bagnoregio, Sant’Anselmo
da Aosta, fino a San Bernardino da Siena (di cui si
è ampiamente parlato precedentemente).
Una visione dell’economia non in rapporto con
l’etica ma inserita nell’etica di cui, fin
dall’origine sarebbe “solo” una parte.
Emarginare queste considerazioni storiche,
filosofiche, teologiche porta, secondo Zamagni, ad
una errata interpretazione della realtà e degli
eventuali correttivi da applicare per combattere la
crisi.
Come è stato sostenuto da Gian Cesare Romagnoli;
“L’errore è l’esito di una falsa conoscenza della
realtà. Diversamente, l’errore, secondo Spinoza, è
una mancanza di cognizione.”
Prima, quindi, si deve comprendere il vero
significato dei fenomeni per porvi dei rimedi.
Rimedi che non possono essere trovati all’interno
del solco tradizionale del pensiero economico ma che
devono aprirsi a nuove suggestioni recuperando anche
quel pensiero cattolico in ambito economico non
sempre adeguatamente considerato.
Secondo Zamagni le stesse teorie più recenti come
quella dei giochi e le formalizzazioni matematiche
avrebbero dimostrato la validità di questa nuova
proposta economica evidenziando i limiti
dell’assunto antropologico dell’homo oeconomicus.
I giochi come il “dilemma del prigioniero” o il
“gioco dell’ultimatum” e altri similari avrebbero,
per l’autore, mostrato che quello a cui hanno
creduto gli economisti è sbagliato non essendo il
self – interest l’unico movente dell’agire
economico.
Partendo da queste considerazioni si dovrebbe
ripensare l’economia venendo così a dare nuove
risposte alle domande e ai bisogni delle persone,
sempre più impellenti, in questo periodo di
difficoltà.
Tra questi bisogni quello del lavoro.
Il periodo di crisi ha, infatti, prodotto in tutto
il mondo avanzato un drammatico aumento della
disoccupazione.
A questo problema non si deve però rispondere, per
Zamagni, secondo ricette tradizionali ma attraverso
interventi capaci di considerare e rispettare tutto
l’uomo.
Rispettare tutto l’uomo significa contemperare le
esigenze produttive con il progetto di vita che
ognuno ha.
Questo si riflette su temi quali, ad esempio,
l’orario di lavoro,la flessibilità, la tecnologia.
Aspetti questi che non sono autonomamente positivi o
negativi ma che lo diventano a seconda di come si
innestano con l’esistenza delle persone considerando
sempre e comunque la centralità dell’individuo.
L’individuo diventa così il centro del ragionamento
e il suo benessere (nonché il rispetto) diventa
l’obiettivo finale.
Una nuova società in cui tutti possono vivere meglio
basata sulla reciprocità e sulla solidarietà.
Sicuramente le considerazioni di Zamagni non possono
che suscitare interesse e una certa condivisione, ma
rimane forte il dubbio che chi governa i processi
economici e quelli legati al lavoro sia, di fatto,
lontano migliaia di miglia da esse.
Gli aspetti sociali, esistenziali psicologici del
lavoro non sono mai stati così ricusati come in
questo periodo.
Pensare che questa situazione possa cambiare è,
probabilmente, un po’ azzardato.
Ciò non significa che non si debbano percorrere,
anche solo idealmente, altre strade che possono, con
il tempo fornire alternative al cammino che
l’umanità ha intrapreso e che sta, in questi ultimi
anni, mostrando notevoli difficoltà.
Zamagni ci prova anche in questo agile volumetto che
in poco più di 140 pagine fornisce una summa
gradevole del suo pensiero nonché interessanti
spunti su cui riflettere.
Spunti di confronto spendibili anche sotto
l’ombrellone, o all’ombra di un albero secolare
magari affrontando un piacevole contraddittorio di
idee e sogni per la costruzione di un mondo migliore
con chi ci sta vicino
Maurizio Canauz
(Luglio 2011)

Titolo:Tutti gli errori di Keynes.
Autore: Hunter Lewis
Editore: IBL libri
Anno: 2010
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Parafrasando il Don Abbondio
manzoniano ci si potrebbe chiedere: “Keynes chi era
costui?”
Domanda alla quale dare una risposta non è per nulla
difficile (o perlomeno meno difficile di quanto lo
fosse per il personaggio manzoniano ricordare chi
fosse Carneade).
John Maynard Keynes è stato l’economista (o meglio
uno degli economisti) più influenti del ventesimo
secolo.
Le sue teorie hanno dominato per anni le politiche
economiche dei principali Stati e i suoi discepoli
hanno ricoperto importanti incarichi istituzionali e
universitari dominando il pensiero economico per
molti anni.
Non essere keynesiano era quasi considerato un
peccato che portava alla emarginazione dal pensiero
dominante e dai posti più significativi di
istituzioni, università, banche.
Tale era la diffusione del pensiero di Keynes che lo
stesso presidente degli Stati Uniti, Richard Nixon,
avrebbe dichiarato all’inizio degli anni settanta:
“Siamo tutti Keynesiani” (frase invero già
attribuita a Milton Fridmann circa sei anni prima).
Poi, incapace di rispondere, secondo le attese ai
problemi della società che si stava modificando,
questa teoria ha iniziato a perdere il ruolo
predominante per essere, in parte, sostituita da
altre che sostenevano un diverso paradigma teorico e
diversi valori ideali
Questo accadde all’inizio degli anni settanta quando
molti paesi attraversarono quasi un decennio di
stagnazione produttiva inaspettatamente accompagnato
da inflazione (fenomeno che prese il nome di
stagflazione).
Per quanto, in quell’epoca, non mancarono diversi
studi e tentativi interpretativi anche importanti e
dettagliati per rispondere alle sollecitazioni che
provenivano dalla società la macroeconomia
keynesiana non trovò una adeguata risposta ai nuovi
problemi.
Da qui la nascita di nuove teorizzazioni con cui il
pensiero di Keynes dovette confrontarsi.
Dapprima si contrapposero a Keynes e al suo pensiero
le teorie dei monetaristi e poi quelle dei
sostenitori della nuova macroeconomia classica che
cercarono di dare, spesso riuscendovi, una
spiegazione plausibile agli effetti degli shocks di
offerta, di domanda, e delle variazioni degli
strumenti di politica economica.
Tuttavia, come nota Von Hayeck in un saggio
contenuto in un libro curato dal compianto Mario
Talamona, (Mercato, pianificazione, sviluppo
economico, Cisalpino, Milano 1984) le teorie
economiche non subiscono una vera e propria
validazione e non sono soggette al principio di
falsificabilità popperiano.
Considerate fallaci in un periodo possono trovare
nuovi sostenitori in un momento successivo
avvicinandosi per questo più alle teorie filosofiche
che a quelle scientifiche.
Così, nell’attuale periodo di crisi, ci si ritrova a
rispolverare le teorie keynesiane anche perché,
forse un po’ a sorpresa almeno per i non addetti bai
lavori, si viene a scoprire che nei principali ruoli
economici mondiali siedono ancora economisti che si
ispirano al pensiero di Keynes.
Torna così prepotente l’annosa domanda: dalla crisi
si può uscire tornando alla ricetta keynesiana
oppure il grande economista di Cambridge è l'origine
di tutti i mali economici del presente?
Una domanda draconiana, che separa decisamente il
bene dal male, il giusto dall’ingiusto con quella
nitidezza che non riguarda sempre le cose di questo
mondo.
Una sfida per i sostenitori e gli oppositori di
Keynes che senza farsi pregare si sono gettati
nell’agone della contesa producendo una gran
quantità di scritti sull’argomento.
Tra questi ricordiamo in queste righe il libro di
Hunter Lewis :”Tutti gli errori di Keynes. Perché
gli Stati continuano a creare inflazione, bolle
speculative e crisi finanziarie” edito da IBL Libri.
Già dal titolo si comprende che Lewis può essere
ascritto, a pieno diritto, tra i detrattori del
pensiero di Keynes.
Nella sua copiosa analisi Lewis, economista e
banchiere d’affari con l’hobby per la saggistica,
dapprima espone i principali argomenti dello
studioso inglese, individuando i passaggi più
rappresentativi e collocandoli all’interno
dell’opera complessiva.
Poi passa a sottolineare quelle che ritiene siano le
incongruenze, gli errori logici e i sofismi di
Keynes.
Un Keynes, in vero, piuttosto maldestro, che non
soltanto rifiuta il buon senso del padre di famiglia
(suggerendo, ad esempio, di affrontare le difficoltà
economiche con un aumento delle spese e non
contenendole come si dovrebbe fare i qualsiasi
famiglia sana), ma soprattutto mischia tecnicismi,
cattiva matematica, un uso improprio dei termini
comuni e di altre strategie sofistiche.
In altre parole Keynes avrebbe cercato artifici
logici e linguistici dove non era in grado di
suffragare il suo pensiero economico con rigorose
dimostrazioni e con un adeguato supporto matematico.
A ciò si deve aggiungere che Keynes avrebbe adottato
solo una visione macroeconomica ignorando
completamente la microeconomia e le diverse
sollecitazioni che da essa provengono, per la
comprensione dei problemi e della loro risoluzione.
La critica di Lewis è lunga e particolarmente
approfondita e riguarda, tra l’altro, le teorie sul
risparmio, sui tassi di interesse, sulla creazione
di moneta, sui rischi di inflazione,
sull’occupazione ma, soprattutto, come sottolinea
anche Francesco Forte nella sua introduzione,
sull’utilizzo di esperti nella direzione
dell’economia suggerito da Keynes.
Esperti, che per lo studioso, devono operare in modo
discrezionale per correggere gli errori del mercato
con la sua (fallibile) mano invisibile.
La limitata fiducia nell’opera della mano invisibile
e nei riguardi dei mercati e nella loro capacità di
adattarsi alle differenti situazioni porta Keynes a
pensare a un correttivo .
Correttivo fornito da degli esperti che hanno il
compito di manovrare le leve che devono far
funzionare l’intero sistema.
Un’idea questa suggestiva, che può essere
considerata in modo virtuoso o aspramente criticata
a seconda della bontà dei prescelti e dei valori
personali che ognuno sostiene.
Una forma di meritocrazia esasperata non dissimile
da quella, per esempio, ipotizzata da Platone sul
buon governo.
Ci si avventura qui in un terreno minato dove
scienza, filosofia e ideologia tendono a
confondersi.
Ritornando all’aspetto economico dello scritto può
essere interessante mostrare, in estrema sintesi e
tenuto conto della semplificazione che una
recensione richiede, come le idee di Keynes,
sarebbero perniciose per il sistema economico.
Seguendo la ricostruzione fatta da Lewis, Keynes
insegnava che per fronteggiare un periodo di crisi
economica si dovesse sostenere la domanda a tutti i
costi.
Sostenere a tutti i costi la domanda significa però
penalizzare l'attitudine al risparmio.
Keynes proponeva di dare impulso ai consumi privati
a debito, di fare spesa pubblica, di salvare le
imprese in difficoltà per mantenere l'occupazione e
perciò la domanda (politica questa adottata
attualmente negli Staiti Uniti dove attualmente si
sta nazionalizzando l'eccessivo debito privato al
fine di riavviare i consumi.)
In caso di depressione economica inoltre per Keynes
era compito dello Stato di aumentare la quantità di
denaro e se ciò non fosse stato sufficiente a
risollevare l'economia, doveva essere lo Stato a
indebitarsi e a spendere in opere pubbliche.
Per Keynes le opere pubbliche sono da considerarsi,
a conti fatti, sempre positive. Meglio, infatti, per
il funzionamento del sistema economico, un cattivo
investimento piuttosto che nessun investimento.
Di qui, secondo la ricostruzione e l’interpretazione
fatta da Lewis, il paradosso che portò Keynes ad
approvare i salari agli operai che scavano buche per
poi riempirle in quanto comunque contribuiscono alla
formazione del Pil.
A ciò va aggiunto in tema di salari che, per lo
studioso inglese, essi non dovrebbero mai scendere,
neppure in caso di recessione.
Se, infatti, diminuissero i salari si innesterebbe
una spirale negativa per la quale vi sarebbero meno
consumi con conseguente meno produzione che, a sua
volta, genererebbe nuovamente salari più bassi e
così via ad libitum.
Ma tali interventi e tali operazioni, a lungo andare
si sono rivelate e potranno rivelarsi se fatte di
nuovo, secondo Lewis, assolutamente nocive per il
sistema economico portandolo verso un baratro dal
quale non è facile fuggire con conseguenze
devastanti.
Per quanto, invece, riguarda i tassi d’interesse,
Keynes sostiene che la povertà della società deriva
dal fatto che essi siano stati sempre troppo alti.
Conseguenza dei troppo alti tassi d’interesse è il
fatto che i risparmiatori tendenzialmente non
mettono a disposizione tutto il capitale accumulato.
Di conseguenza si ha scarsità di denaro da
investire, interessi alti e sottoutilizzazione delle
capacità produttive.
Keynes ritiene che per questo diviene importante
l’intervento dello Stato che deve stampare moneta
con il fine di abbassare i tassi di interesse fino a
portarli a un livello pari a zero.
L’immissione di una nuova quantità di moneta, in
questo caso, se ben dosata non necessariamente per
Keynes genererebbe inflazione.
Ma anche in questo caso, secondo Lewis, la ricetta
di Keynes sarebbe del tutto errata e se applicata
deleteria.
Il libro per quanto denso di suggestioni e assai
approfondito appare adatto a un lettore esperto che
sappia porre in essere una lettura critica del
testo.
Ogni intento divulgativo, che pareva essere uno
degli scopi sostenuti dall’autore come dimostra la
dedica fatta a Henry Hazlitt che fu a sua volta
critico di Keynes e gran divulgatore del pensiero
economico come ci ricorda lo stesso Lewis (pag. 60 e
ss.), non mi sembra credibile sia per la mole dello
scritto, sia per come sono affrontati gli argomenti,
sia per la mancanza di coinvolgimento del lettore
che si dovrebbe realizzare e che dovrebbe avere lo
scopo di attrarre anche quelli meno esperti.
Forse sarebbe stato meglio affrontare una critica
più mirata proponendo un libro più snello ancorché,
logicamente, meno dettagliato.
Un testo con uno sguardo anche alla situazione
attuale, meno accademico ma più ancorato alla
realtà, capace di aiutare anche la comprensione del
nostro presente travagliato.
Ma ognuno quando si appresta ad un lavoro, come
quello di Lewis, segue le proprie stelle consigliere
nella speranza che possano illuminare oltre che il
proprio camino anche quello di altri, cercatori di
verità.
Ai lettori il giudizio sul risultato ottenuto
Maurizio Canauz (Giugno
2011)

Titolo: Sei stato tu?
Autori: Gherardo Colombo – Anna Sarfatti
Editore: Salani Editore
Anno: 2009
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Sarà perché sui balconi delle case sventolano ancora i tricolori, sarà
perché l’eco delle note dell’inno nazionale, che hanno accompagnato i
festeggiamenti per i centocinquanta anni dell’Unità d’Italia. non si è
ancora del tutto persa, sarà, meno prosaicamente, perché mi è capitato
tra le mani in quanto mia figlia lo ha letto in classe, ma questa volta
vorrei soffermare la mia attenzione su
Sei Stato tu?,
il libro scritto a quattro mani da Gherardo Colombo (ex magistrato e
presidente della Garzanti) e Anna Sarfatti (insegnante di scuola
primaria e scrittrice).
Un libro agile in cui la Costituzione viene avvicinata attraverso le
domande dei bambini (esattamente degli alunni della V E della scuola
Alice Sturiale di Impruneta in provincia di Firenze).
Il libro inizia con una breve introduzione in cui; Gherado Colombo,
icona della magistratura milanese titolare di importante inchieste sul
crimine organizzato, la corruzione e il terrorismo, usa la metafora
della vita in società come gioco.
Ma prima di giocare, qualsiasi sia il tipo di gioco, si devono conoscere
le regole.
Similmente
«la
Costituzione è un po’ come un libretto di istruzioni sulle relazioni del
gioco dei rapporti con gli altri; le istruzioni della Costituzione
indicano la via dello stare insieme armoniosamente senza prevaricare e
senza essere prevaricati
Riconoscendo in ogni altro una persona e perciò rispettandolo come si
rispetta se stessi.»
E poi il gioco può iniziare.
Domanda e risposta, la più semplice ed esaustiva possibile.
Si inizia subito con il concetto di cittadinanza.
“Ma i bambini sono cittadini?”
Una domanda apparentemente innocente che porta a riflettere su come si
diviene cittadini per capire cosa sia un cittadino.
Poi dalla cittadinanza si passa a i concetti di Stato, Nazione,
Repubblica.
Si introducono così le forme di governo.
Già dopo aver letto queste prime pagine mi sovviene un dubbio.
Ma questi concetti, per quanto ci si sforzi di spiegarli con esempi
anche tratti dalla vita di tutti i giorni, vengono compresi dai bambini?
O meglio i bambini sono in grado di comprenderli nella loro, apparente
astrattezza?
Essere italiano, tedesco, o francese significa concretamente qualcosa?
Sarò pessimista ma penso che la nostra società non agevoli la
riflessione sugli argomenti “pubblici”.
Lo stesso dubbio, semmai rafforzato, mi viene quando si affrontano i
principi posti (o meglio che sarebbero posti) alla base della carta
costituzionale.
Quei valori ispiratori che gli autori richiamano a pagina ventotto,
ritengo siano per i bambini (e anche per ragazzi più grandi) totalmente
astratti e difficilmente comprensibili.
Se ad esempio è possibile, e sottolineo possibile, che a livello di
esperienza familiare e/o personale si comprenda cosa significa
“cattolico”, quanti saranno i bambini che possono capire cosa significa
“comunista” o “socialista”?
Le conoscenze storiche sono ancora troppo fragili, quelle ideali e
filosofiche inesistenti, quelle derivate dall’esperienza personale o
familiare assenti o modeste (per la maggioranza dei casi) e allora?
Non potendo dare per scontanti questi concetti bisognerebbe
approfondirli aggiungendo complicazione a complicazione e rallentando,
enormemente, i tempi necessari per l’apprendimento.
Non si può, infatti, discorrendo di questi temi soffermarsi solo a
slogan o a frasi fatte.
Ma i tempi nella scuola sono già estremamente tirati e non permettono
sempre i giusti approfondimenti necessari per la comprensione
consapevole di quanto si afferma nel libro.
Prendiamo un altro esempio.
Il lavoro
Affermare che quando la Costituzione è entrata in vigore
«in
Italia ancora tante persone vivevano senza lavorare. Sulla carta
d’identità, accanto a “professione”, non avevano scritto il tipo di
lavoro che facevano … ma possidente o benestante.»
La Costituzione avrebbe introdotto l’obbligo (almeno morale non credo
civile) di lavorare, di fare fatica (gli autori ci ricordano, tra
l’altro che labor significa fatica).
Obbligo di non oziare vivendo, comunque, bene.
Ma siamo sicuri che i bambini comprendano questo ragionamento che si
concentra sulla necessità di essere tutti uguali di fronte al lavoro che
è (sarebbe) un aspetto imprescindibile della vita e non abbiano il
dubbio sul perché spesso chi vuole lavorare per vivere non lo può fare?
Nasce spontaneo chiedersi perché la Costituzione non obblighi il governo
a trovare una occupazione per tutti,
Magari per il babbo, lo zio, il cugino che non sanno come arrivare a
fine mese.
Gli autori affrontano questa questione affermando che lavorare:
«E’
un diritto, perché a nessuno può essere proibito di lavorare e chi
vuole farlo deve essere, nei limiti del possibile, messo nelle
condizioni di farlo.»
Tuttavia mi sembra poca cosa rispetto al’entità del problema e come è
vissuto oggi dalle famiglie. Anche l’affermazione:“nei limiti del
possibile” mi pare vaga e inadatta a rispondere alle esigenze di molte
famiglie e dello stesso apprendimento dei bambini.
Tutto sembra ridursi a una questione di principio che si declina in una
(semplice) la affermazione: “anche i ricchi devono lavorare.”
Affermazione questa che mi sembra assai meno rilevante di quella per
cui: “chi cerca lavoro deve trovarlo.”
Sarebbe poco interessante probabilmente dannoso continuare con una
critica puntuale analizzando le tante risposte che vengono date seguendo
il dettato costituzionale.
Lo sforzo fatto dagli autori è encomiabile ma a che frutti può portare?
Non sarebbe stato meglio affrontare in modo più asettico gli articoli
della Costituzione magari approfondendone solo qualcuno attraverso una
pluralità di argomentazioni che mostrano la diversità dei punti di vista
e delle interpretazioni possibili?
Spesso invece, mi pare che gli autori. confondano i piani del’essere con
il dovrebbe essere o con il mi piacerebbe fosse.
I bambini hanno, spesso. la tendenza a idealizzare a sovrapporre il
tutto con il possibile.
Mi domando, perciò, perché esaltare questo aspetto e non cercare di
fornire loro strumenti per ricondurre le parole al reale?
Far credere che molti dei mali della società derivano dal non pagare le
tasse (compreso la prostituzione) è una affermazione che mi sembra
esagerata e banale.
Così come sostenere che tutti (o quasi) i rei possono essere recuperarti
è una affermazione ottimistica.
E’ vero che l'articolo 27 della Costituzione enuncia
"Le pene (...) devono tendere alla
rieducazione del condannato", così sancendo il principio del
finalismo rieducativo della pena, la cui giustificazione etica e logica,
evidentemente, non può non fare riferimento alle specifiche esigenze
specialpreventivo - risocializzative del condannato.
Tuttavia su come intendere la reclusione e come essa opera sugli uomini
esiste un ampio dibattito, che non posso qui riassumere, ma che non può
neppure essere riassunto solo nel pensiero espresso dagli autori.
Spesso nel libro non si spiegano le reali regole del gioco ma come si
vorrebbe che si giocasse.
L’interpretazione si confonde in molte pagine, con l’oggettività della
norma, dell’articolo della Costituzione.
Mi pare quasi, leggendo un certo numero di risposte, che esse siano
molto più opinioni degli autori e dei loro ideali che non la spiegazione
di una icona del nostro Stato quale è la Costituzione che appare oggi,
purtroppo, un po’ sbiadita.
Logicamente vi saranno persone che condivideranno pienamente le opinioni
espresse nel libro e altri che, al contrario, saranno più scettici sulle
stesse.
Chi lo adotta in classe o lo regalerà probabilmente si troverà in
sintonia con le affermazioni fatte, ma questo mi porta ad una ulteriore
considerazione: fino a che punto è giusto proporre libri con forti
connotazioni ideali ad alunni che non hanno ancora gli strumenti per
discernere?
Quanto l’interpretazione data alle norme, anche con il solo scopo di
spiegarle meglio, allontana la loro conoscenza dall’aspetto tecnico e
“scientifico” al quale il diritto, anche quello costituzionale, aspira?
Un libro quindi che prima di essere adottato in classe o regalato merita
una attenta riflessione sul contenuto, sui rimandi espliciti e su quelli
impliciti, sulle scelte metodologiche.
Meglio se il bambino o ragazzo che lo legge non sia lasciato solo ma sia
guidato da un adulto così come il libro suggerisce di fare quando si
naviga in internet.
«Si
possono incontrare siti che fanno paura … altri che non si capiscono.
Per questo è necessario che si navighi con i genitori o con qualche
grande di cui ci si possa fidare.»
Bene, questo
viaggio nella Costituzione è bene che i bambini e i ragazzi non lo
facciano da soli ma, se devono farlo, con qualcuno in grado di
interpretare i segni del cielo.
Maurizio Canauz (Aprile
2011)

Titolo: Storia economica
Autore: Tommaso Fanfani
Editore: McGraw - Hill
Anno: 2010
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Storia ed economia hanno sovente intersezioni e
punti di contatto.
Prima di Natale ci
eravamo lasciati occupandoci del libro di Le Goff che affrontava le tematiche
legate all’avarizia, al denaro e in senso lato all’economia nel periodo
Medievale.
Ora il libro proposto,
curato dal professore Tommaso Fanfani dell’Università di Pisa, è un
classico manuale di Storia Economica che a detta dell’autore “offre una
panoramica approfondita della materia“.
Pensato per i corsi
universitari (e per questo redatto in modo da rispondere alle esigenze
di rivisitazione dei contenuti disciplinari dovute alle recenti riforme
degli ordinamenti dei corsi di studi universitari), non manca però di
interesse per chi a vario titolo (tra cui l’insegnamento anche in
contesti non universitari) si occupa dell’economia e dello sviluppo
economico, foss’anche per una sana curiosità, cercando possibili
risposte alle crisi del passato e del presente.
Il testo nasce dalla
collaborazione di diversi autori che hanno curato, in autonomia, un
capitolo.
Tommaso Fanfani, si è
occupato del capitolo iniziale: Il Mondo cresce. Percorsi di storia
economica tra il XVIII e il XXI secolo; Franco Amatori,
dell’Università Bocconi, ha composto il capitolo sull’Industria;
Giuseppe Conti (Università di Pisa) ha realizzato il capitolo su
Banca e Finanza; Daniela Felsini (Università di Roma Tor Vergata) si
è occupata di Stato ed intervento Pubblico; Andrea Giustini
(Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia) ha composto quello su
L’energia, i trasporti, le comunicazioni; Germano Maifreda
(Università degli Studi di Milano) si è occupato del Lavoro e
Giovanni Zalin (Università di Verona) ha scritto il capitolo sull’Agricoltura.
Un’ottima squadra
chiamata a facilitare la comprensione dei complessi fenomeni economici.
Il libro, mi sembra,
rientri in quella che potrei definire l’ortodossia classica della
disciplina e per quanto il contributo di differenti autori propone
sensibilità diverse e letture storiche ed economiche leggermente
difformi, non si giunge mai ad una vera e propria originalità dei
contenuti rispetto alla vastissima letteratura disponibile.
Valga come piccolo
esempio la chiusura del capitolo di Fanfani in cui l’autore affronta,
alla fine della ricostruzione delle linee generali dello sviluppo
economico del mondo nostro fino ai giorni nostri, le tendenze e le
prospettive future.
L’autore fa un breve
accenno al problema dello sviluppo e dei suoi limiti.
Il tema è affrontato in
poche righe in cui si oscilla tra la speranza che la scienza e la
tecnica con i loro progressi possano superare il rischio di
depauperamento delle risorse naturali allontanando nel tempo il “punto
di non ritorno” evocato da Ricardo e la preoccupazione per i mali
dell’ambiente e del sistema naturale conseguenti alle scelte industriali
e produttive.
Non ci sono
approfondimenti, nulla si dice della possibilità della decrescita o di
una crescita controllata e si rimanda tutto a un comportamento morale di
chi deve prendere le scelte strategiche nel campo del’economia.
Giusto l’accenno ma si
rimane un po’ troppo a pelo d’acqua per soddisfare il lettore.
Similmente anche nel
Capitolo dedicato al lavoro il dover condensare in poche pagine diversi
modelli organizzativi e produttivi porta a volte a non approfondire le
tematiche trattate.
A conti fatti questo può
dipendere dal taglio volutamente manualistico che deve dare un quadro di
insieme senza però “intasare” il lettore di nozioni.
La chiarezza espositiva
e la necessità di contenere le pagine rendono necessarie delle scelte
(anche) dolorose con conseguente accantonamento di informazioni spesso
utili per la migliore comprensione dei tanti intrecci tra economia e
storia.
Anche per questo, o
forse soprattutto per questo, il volume è stato corredato di schede
tematiche che approfondiscono nel dettaglio temi e figure di personaggi
storici rilevanti per le tematiche affrontate.
Inoltre è stato creato,
a supporto del libro, per migliorare la didattica e facilitare
l’apprendimento, un sito web (http://www.ateneonline.it/fanfani
) in cui si possono trovare: approfondimenti testuali, schede tematiche,
una bibliografia ragionata e una interessante appendice quantitativa che
approfondiscono dettagliatamente alcuni argomenti rilevanti per
garantire (secondo la speranza dell’autore) una trattazione completa ed
esauriente.
Venendo agli aspetti
positivi dello scritto oltre ad una indubbia chiarezza espositiva
bisogna sottolineare il tentativo di arricchire la trattazione della
disciplina storico-economica, non solo con riferimenti alla contingente
attualità, ma anche nella prospettiva della evoluzione delle aree
emergenti.
Diversi sono quindi i
riferimenti fatti all’Africa e a vaste aree dell’Asia e dell’America del
Sud aprendo un orizzonte di riflessione che in altre similari
trattazioni non trova altrettanto spazio (come ampi sono i riferimenti
anche all’esperienza socialista).
Un libro, dunque,
pensato principalmente per gli studenti che tuttavia, per la bontà della
sua realizzazione, può diventare uno strumento utile per chi vuole
approfondire (senza esagerare) certe tematiche per meglio comprendere le
dinamiche della vita economica, per riflettere sullo sviluppo e per
ripercorrere il passaggio dalla società preindustriale alla società
dell’innovazione e del terziario avanzato.
Pagini utili per la
curiosità personale di chi vuole un quadro complessivo abbastanza
dettagliato e non ha tempo o voglia di perdersi nei mille meandri del
sapere specialistico.
Pagini utili per chi, a
livello di scuola secondaria, vuole approfondire certe tematiche (magari
interdisciplinari) trovando del buon materiale da cui trarre
interessanti informazioni per degli approfondimenti didattici.
Maurizio Canauz (Febbraio
2011)

Titolo: Lo sterco del diavolo
Autore: Jaques Le Goff
Editore: Laterza
Anno: 2010 |
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Si avvicina a grandi passi il Santo
Natale.
Lo si avverte, anche, dalla frenesia di questi
giorni.
Dai regali da comprare, da gli auguri da inviare,
dai preparativi per pranzi e cene.
Sembra che la giornata si comprima e che il tempo
venga come risucchiato da un folletto maligno che ci
fa essere o sentire sempre in ritardo, vivendo
nell’ansia di non riuscire a fare tutto quello che
ci siamo, a volte un po’ presuntuosamente,
prefissati.
Per questo cercherò di essere, insolitamente, breve.
Il libro che mi appresto a recensire non è
propriamente natalizio e nasce dalla commistione si
due saperi spesso collegati tra loro (e che si
contaminano positivamente): economia e storia.
Mi riferisco a “Lo sterco del Diavolo” di Jaques Le
Goff.
La scelta ricade su questo libro, di recente
pubblicazione, perché ben riprende le tematiche
legate all’avarizia, al denaro e in senso lato
all’economia nel periodo Medievale di cui, in parte,
si è già detto trattando il libro di Zamagni
sull’Avarizia e quello di Luigino Bruni sull’ethos
del mercato.
Presentare Le Goff potrebbe essere superfluo (e
perfino irriguardoso), ritengo tuttavia utile
ricordare, per favorire una migliore comprensione
del testo, che si tratta di uno degli esponenti di
punta, fin dagli Anni Sessanta, della «Scuola delle
Annales».
Scuola che nata in Francia e facente capo alla
rivista “Annales: èconomies, sociètès, civilisations,
ha profondamente modificato il modo di fare storia
della fine del XX secolo (per un approfondimento si
rimanda a P. Burke, Una rivoluzione storiografica.
La scuola delle Annales 1929-89, Laterza, Roma-Bari
1992).
Universalmente considerato un grande medievalista,
Le Goff, ha sempre, nella sua opera, cercato di
insegnare a guardare a un "lungo Medioevo", e un
"Medioevo profondo" dei sentimenti e degli
atteggiamenti mentali, costantemente riletto alla
luce del rapporto fra storia e scienze umane.
L’attenzione per le scienze umane (e quindi anche
per l’economia) risente della sua stretta
collaborazione con, tra gli altri, Fernand Braudel
storico e direttore dal 1946 al 1968, prima con
Lucien Febvre e poi da solo, della Revue des Annales
(sostituito proprio da Le Goff) e con l’antropologo
Claude Lévi-Strauss.
La tesi presentata da Le Goff nello scritto è
riassumibile nelle parole dello stesso autore:
“Secondo Karl Polanyi, nella società occidentale
l’economia non possiede una specificità autonoma
fino al XVIII secolo. A suo avviso essa è
incorporata (embedded) in quello che chiama
(labirinto delle relazioni sociali). Ritengo che la
sua tesi si applichi alla visione del mondo
medievale, che non lascia spazio al concetto di
economia, a parte l’accezione di economia domestica
ereditata da Aristotele. In questo saggio ho cercato
di dimostrare che lo stesso vale per il denaro.”
Le Goff ritiene altresì che errano gli storici che
indicano nel Medioevo il periodo della nascita del
mercato o del consolidarsi di vere e proprie teorie
economiche attraverso il pensiero di teologi
scolastici o degli ordini mendicanti, in particolare
dei francescani.
In generale, nella maggior parte dei settori della
vita individuale e collettiva, uomini e donne del
Medioevo si comportano in modi che li rendono ai
nostri occhi degli estranei e che obbligano gli
storici a chiarire il proprio lavoro di
ricostruzione alla luce dell’antropologia (si
rimanda qui a quanto scritto della contaminazione
della formazione e del pensiero di Le Goff con
personalità come quella di Lévi-Strauss).
Sembra quasi che Le Goff voglia sottolineare come il
Medioevo debba essere visto e analizzato attraverso
uno sguardo non esterno (storico) ma cercando di
comprendere dall’interno come farebbe uno studioso
che si affida all’osservazione partecipante,
cercando cioè di intuire il significato degli
avvenimenti in base alle convinzioni di chi li vive
(o nel caso specifico di chi li ha vissuti).
Uno sguardo (quasi) antropologico.
Cosi facendo si comprenderebbe, secondo Le Goff,
come nel Medioevo, a differenza per esempio di
quanto avveniva nell’Impero Romano, il denaro non
era considerato importante né dal punto di vista
economico e politico né da quello psicologico ed
etico.
In un mondo con una forte connotazione religiosa
risuonavano negli spazi ampi delle cattedrali e in
quelli più umili delle chiese di campagne le parole
dei monaci e dei frati che condannavano l'avarizia
come peccato capitale e che elogiavano la carità ed
esaltavano la povertà come ideale incarnato da
Cristo.
Per Le Goff non c’è indulgenza nel Medioevo verso
Mammona pur avendo la Chiesa, in alcuni casi,
assunto un atteggiamento più indulgente rispetto al
denaro.
Se, infatti, inizialmente gli usurai, a meno che
restituissero il maltolto, finivano dritti, dritti
all’inferno con il passare del tempo furono, in
parte scusati.
I più fortunati avrebbero (addirittura) avuto a
determinate condizioni anche la possibilità di
finire nel purgatorio come anticamera del paradiso.
Doni, offerte, costruzioni di Oratori o cappelle
(come la cappella costruita dagli Scrovegni a Padova
affrescata da Giotto) potevano essere un
lasciapassare per la vita eterna (a tal proposito è
bene ricordare che mentre Dante condanna Rainaldo
Scrovegni all’inferno assolve il figlio Enrico che
pur continuando e arricchendo l’attività del padre
legata al denaro sovvenzionò il lavoro di Giotto).
La Chiesa, in altre parole, adeguò in parte la sua
valutazione morale del denaro e del suo uso al mondo
che stava mutando anche grazie ad un incremento dei
commerci e alla necessità di prestiti e di denaro.
Tuttavia afferma Le Goff: “Se anche il denaro ha
progressivamente cessato di essere maledetto e
infernale, per tutto il Medioevo esso è rimasto
tuttavia quanto meno sospetto.”
Le Goff da bravo storico sostiene la sua tesi con
precisione e profondità e lo fa anche con uno stile
accattivante.
Il suo scritto potrebbe così scivolare veloce senza
destare particolare attenzione se non fosse messo in
relazione con altri studi sull’argomento.
Scrive a tale proposito uno storico come Roberto
Lambertini: “L’intensificarsi dell’attenzione
storiografica per le valenze etico - economiche
delle riflessioni teologiche medioevali sul tema
dello scambio, del giusto prezzo, del prestito ha
avuto un andamento che si potrebbe dire - in
metafora - esponenziale in questo ultimo decennio
…”.
Tale affermazione trova conferma sia in alcune delle
recensioni proposte in questo sito e già citate sia
in alcune pubblicazioni relativamente recenti quali:
• A. A. Chafuen, Cristiani per la libertà. Radici
cattoliche dell’economia di mercato, Macerata,
Liberilibri 1999.
• M. G. Muzzarelli, Il denaro e la salvezza.
L’invenzione del Monte di Pietà, Bologna, Il Mulino,
2001.
• G. Todeschini, I Mercanti e il tempio. La società
cristiana e il circolo virtuoso della ricchezza fra
Medioevo ed Età Moderna, Bologna, Il Mulino 2002.
• O. Nuccio, Chiesa e denaro dal XVI al XVIII
secolo, in Chiesa e denaro tra Cinquecento e
Settecento, a cura di U. Dovere, Cinisello Balsamo,
Edizioni San Paolo 1994, pp. 11-85.
• O. Bazzichi, Alle radici del capitalismo. Medioevo
e scienza economica, Cantalupa (To), Effatà Editrice
2003;
• O. Bazzichi, Dall’usura al giusto profitto.
L’etica economica della Scuola francescana,
Cantalupa (To), Effatà Editrice 2008.
• L. Bruni - A. Smerilli, Benedetto di Norcia e
Francesco d’Assisi nella storia economica europea,
Roma, Città Nuova editrice 2008 (con prefazione di
Zamagni).
• P. Prodi, Settimo non rubare. Furto e mercato
nella storia dell’Occidente, Bologna, Il Mulino
2009.
In molti di questi testi si sostiene, in contrasto
con quanto fatto da Le Goff, che non corrisponde al
vero l’immagine di una chiesa medievale in
difficoltà di fronte alle conseguenze della
cosiddetta “rivoluzione commerciale” ed ancorata a
proibizioni che le rendevano malagevole la
comprensione delle nuove dinamiche del mercato e del
credito (quali che fossero poi le prassi economiche
effettivamente adottate dalle chiese locali e dalla
Chiesa di Roma).
Anzi in molti studiosi si sta diffondendo la
persuasione che vi sia una connessione profonda tra
riflessione etico - economica della Chiesa, ed in
particolare di alcuni ordini quali i francescani, e
dinamiche economiche, anche se, ovviamente, sulla
natura della connessione esistono varie
interpretazioni (a tale proposito ricordo un
articolo dal titolo un po’ provocatorio: Chiesa e
libero mercato. Il capitalismo l’ha inventato san
Francesco . rinvenibile su web all’indirizzo:
URL: http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/6975.
)
Sembra quasi che gli storici (e in parte anche gli
economisti che si avvicinano a questi temi) invece
di cercare di documentare ciò che era modellino il
passato secondo le loro idee quasi fossero degli
artigiani che piallano e levigano il legno per
dargli la forma voluta.
Rubando il titolo ad un opera di Watzlawick e
riadattandolo alla bisogna si potrebbe parlare di
“Storia Inventata” (nel senso di costruita dalla
nostra mente).
In base alle proprie convinzioni si interpretano i
fatti e si incasellano giungendo, a volte, ad
adattare anche tessere che non combaciano
perfettamente con il mosaico proposto.
Perché avviene questo?
Personalmente non credo per malafede.
Penso più a un sano convincimento e soprattutto alla
volontà di cercare nel passato giustificazioni del
presente.
Si cerca di dimostrare che ciò che è adesso è frutto
del passato dal quale è nobilitato.
Il dibattito, compreso quello storico e anche
economico, diviene allora luogo di scontro anche
risoluto di idee avverse che si confrontano non con
lo scopo di raggiungere una possibile verità
condivisa ma per sopraffarsi anche a discapito della
bontà scientifica delle tesi proposte.
Diventa allora necessario per il lettore che si
interessa di questi temi (o che ne è solo
incuriosito) leggere più testi per cercare di
costruirsi una propria idea (una propria verità).
Lettura critica, confronto tra testi diversi,
analisi per poter formarsi una propria opinione.
Tra questi testi lo scritto di Le Goff, a parere di
chi scrive, merita di essere annoverato.
Maurizio Canauz (Dicembre
2010)

Che cos'è la globalizzazione. Rischi e prospettive
della società planetaria
• Autore: Ulrich Beck
• Editore: Carocci Editore
• Data pubblicazione: 2009
• Pagine: 197 |
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Termine sconosciuto fino a qualche
decennio fa, quello di globablizzazione, è diventato
ultimamente un vocabolo molto usato e qualche volta
abusato.
Come spesso accade più un termine viene usato più la
sua definizione perde di precisione, si confonde e i
contorni si fanno incerti.
Proprio per questo è bene non considerare come
scontato e acquisito il suo significato ma può
essere utile spesso riprenderlo in considerazione
per aggiornarne il senso cercando di giungere ad un
significato e ad una interpretazione condivisa o
almeno meno equivoca.
Si deve cioè indicare, per ottenere una miglior
comunicazione condivisa ed efficace, cosa si intende
con un vocabolo e, possibilmente in chiave sociale,
quali ambiti della vita dell’’uomo vengono
interessati dallo stesso.
In questo senso particolarmente interessante appare
la (ri)proposta della casa editrice Carrocci che (ri)pubblica
un testo sulla globalizzazione di Ulrich Beck
considerato uno dei più attenti osservatori della
società contemporanea occidentale.
Beck è attualmente professore di Sociologia presso
la Ludwig Maximilians Universität di Monaco di
Baviera e la London School of Economics e ha
pubblicato diversi studi sulla modernità, problemi
ecologici, individualizzazione e globalizzazione,
oltre ad aver introdotto nuovi concetti nella
sociologia, quali l'idea di una seconda modernità e
la teoria del rischio.
I suoi libri, dopo un vasto riconoscimento mondiale,
sono stati tradotti e pubblicati in Italia da molte
delle più prestigiose case editrici.
Ma procediamo con ordine
Qual è il significato della parola globalizzazione
per Beck?
Per lo studioso tedesco la globalizzazione è: "un
processo in seguito al quale gli Stati nazionali e
la loro sovranità vengono condizionati e connessi
trasversalmente da attori transnazionali, dalle loro
chance di potere, dai loro orientamenti, identità e
reti".
Proprio partendo da questa definizione risulta
abbastanza evidente su quale aspetto Beck concentra
la sua attenzione: Sul rapporto potere politico vs.
potere economico.
Mentre, infatti, il potere economico con la
globalizzazione è cresciuto esponenzialmente quello
politico si è fatto assai meno influente.
Gli Stati che un tempo dominavano e indirizzavano il
mondo interagendo fra loro hanno perso molto della
loro influenza riducendosi ad essere, soprattutto,
delle agenzie protettive monopolistiche (tese cioè a
tutelare l’ordine pubblico e i diritti fondamntali
dei cittadini) (1).
Tale processo si sarebbe compiuto principalmente
grazie, da un punto di vista teorico. a quanto
propugnato dai sostenitori del pensiero liberale,
mentre, da un punto di vista pratico, questo
spostamento a favore dell’economia e a discapito
della sovranità dello Stato sarebbe avvenuto,
soprattutto, attraverso l’attività delle
multinazionali che hanno operato con l’unico scopo
di massimizzare i profitti incuranti degli effetti
collaterali al loro agire.
Un esempio piuttosto evidente di questo modo di fare
delle multinazionali è rinvenibile nello spostamento
della produzione nei Paesi dove questa costa meno o
meglio, dove il costo del lavoro è più basso.
Questa possibilità di produrre dove la manodopera
costa meno, comporta necessariamente una modifica
dell’azione e del modo di governare degli Stati.
Proprio la volontà (necessità) degli Stati di
attrarre le multinazionali con l’ intento di creare
nuovi siti produttivi e posti di lavoro, comporta
l’adozione di politiche benevole nei confronti delle
aziende al costo di creare "zone franche" in cui i
diritti umani non siano garantiti o lo siano solo
parzialmente (1).
Conseguenza diretta di questo nuovo rapporto tra
Stati e imprese multinazionali è il
ridimensionamento del Welfare State .
Lo Stato sociale, frutto di un lungo periodo di
negoziazioni e di accordi tra imprenditori e
lavoratori, viene ormai ritenuto troppo costoso da
mantenere, anche perché molte imprese di dimensioni
contenute non sono in grado di internazionalizzarsi
e falliscono o sono costrette a chiudere senza poter
così più poter contribuire allo sviluppo dello
Stato.
La chiusura delle aziende medio piccole (e di un
gran numero di artigiani) porta ad un aumento della
disoccupazione,
A loro volta i disoccupati diventano un ulteriore
costo per lo Stato sociale che deve garantire loro
sussidi al reddito.
Per poter garantire questi sussidi alla fine lo
Stato non può che aumentare le tasse e i contributi.
Ma l’aumento delle tasse e dei contributi è ciò che
le multinazionali non vogliono tese come sono a
migliorare il loro profitto.
È un circolo vizioso creato
dall'individualizzazione, che ha spinto ad
abbandonare la politica per cercare la realizzazione
personale.
Individualizzazione che, in un certo senso, è già
fortemente presente nei Paesi anglosassoni e, in
particolare negli Stati Uniti, dove per molti anni
si è esaltato il singolo e si è considerato il
comunitario e lo Stato più come un male necessario
che come una risorsa.
Mentre sull’analisi sulla globalizzazione e sui suoi
processi (che non si può pensare abbia una
dimensione solamente economica, il cosiddetto
globalismo, impossibile da influenzare da parte del
potere politico nazionale) convergono diversi
studiosi, esistono molte differenze sulla sua
interpretazione e soprattutto sull’impatto che
questo fenomeno ha e ancor di più avrà, sul mondo e
sull’umanità.
Per alcuni ciò si è tradotto e ancor più si
tradurrà, in un peggioramento delle condizioni di
vita per la maggior parte degli individui.
Al contrario per altri la globalizzazione è e sarà,
invece, un cambiamento epocale ma non
necessariamente una “sciagura”.
Ci che necessariamente cambia e deve cambiare, è il
modo di osservare la società.
E’ ora necessario uno sguardo cosmopolita.
E’ necessaria, secondo Beck, una specie di
rivoluzione gnoseologica.
Rivoluzione alla quale le scienze sociali dovrebbero
sottoporsi per giungere ad abbandonare quella sorta
di “nazionalismo metodologico” che è stato, fino ad
ora, il loro riferimento spaziale.
Chi si occupa delle scienze sociali dovrebbe, in
altre parole, escludere la sola visione “nazionale”
come presupposto di ogni comprensione delle realtà
sociali. Questa posizione non implicherebbe una
diminuzione della capacità interpretativa della
realtà effettuale ma comporterebbe, al contrario, un
maggiore realismo che, pur tenendo in considerazione
l'esistenza di quei confini politici, giuridici e
sociali che caratterizzano il vivere in comune,
consentirebbe di eluderne il “carattere vincolante”.
Personalmente mi sembra che in Beck vi sia come una
forma di accettazione del processo di cambiamento in
atto che deve, però, essere vigilato con una
migliore visione da parte e degli studiosi, degli
analisti e, perché no, della gente comune che deve
imparare a vedere e valutare il mondo e le sue
dinamiche (soprattutto quelle economiche e sociali)
in modo diverso. (2)
Si potrebbe parlare di un necessario ripensamento
degli strumenti ermeneutici che
devono essere usati per comprendere e descrivere il
mondo e il suo divenire
Sarebbe probabilmente esagerato pensare che
nell’idea di Beck vi sia una realtà già conciliata o
conciliabile in senso assoluto.
La nuova realtà post- nazionale viene anzi
presentata come una “società globale del rischio”,
dove il confine tra guerra perpetua e pace perpetua
viene a rappresentare l'orizzonte stesso imposto
alla “seconda modernità”.
Ma non necessariamente ci si deve arrendere di
fronte a questi cambiamenti o ritenerli
assolutamente negativi.
Se vi sono rischi che possano minacciare la società
mondiale, e su questo Beck sembra convenire, si deve
operare per mobilitare nuovi energie sociali e
politiche, promuovendo, nel lungo periodo, uno
sviluppo razionale della condizione umana e
favorendo la nascita di una "seconda modernità”.
Sicuramente in questo processo il modo tradizionale
di fare politica appare decisamente superato e tutta
la scienza politica deve essere in grado di
rinnovarsi.
I confini nazional - statuali, che per alcuni sono
stati veri e propri limiti allo sviluppo, sono ormai
da considerarsi superati e ciò comporta
necessariamente una radicale modifica sociale .
Ma la nuova società che nasce ha caratteristiche
assai diversa da quella precedente.
Una di queste caratteristiche peculiari è la sua
im-politicità.
Im-politicità della società globale che nasce
soprattutto dal suo deficit di rappresentatività
apertosi una volta varcati i confini dello
stato-nazione.
Non vi è più vincolo tra chi detiene realmente il
potere e un qualsivoglia popolo di riferimento.
Ciò aumenta decisamente l’indeterminatezza
dell’agire politico anzi a guardar bene
l'indeterminazione diviene la condizione stessa del
fare politica. L'orizzonte del politico, svincolato
della logica dell'appartenenza nazionale, diviene
capace non soltanto di agire e determinare scelte
collettive all'interno di un sistema di coordinate
definite ma può ambire a creare le condizioni stesse
del suo agire proprio in virtù dell'assolta
impoliticità dello spazio globale.
Il libro di Beck nel suo insieme appare decisamente
interessante e offre una originale chiave di lettura
di quanto sta avvenendo e di quanto potrebbe
avvenire attraverso il processo di globalizzazione.
Processo che da un lato costringe a ripensare lo
spazio dell’azione sociale, politica ed economica e
che dall’altro chiede di riconsiderare gli strumenti
ermeneutica che devono interpretare e sovrintendere
a questo processo.
Forse, se proprio si deve cercare un appunto, in
alcuni casi la voglia di spiegare e far comprendere
al lettore, il suo approccio teorico, portano Beck a
mitigare la drammaticità di alcuni processi legati
alla globalizzazione
Ma forse il compito dello studioso è anche quello di
saper leggere gli avvenimenti senza enfatizzarne
(eccessivamente) i toni.
NOTE
(1) Si consideri, ad esempio che il potere dello Stato viene fortemente
limitato dalla possibilità di “pagare le tasse dove costa meno”,
giocando sulla sede fiscale delle aziende e dei singoli.
(2) La seconda modernità inoltre vede lo stato e le istituzioni
classiche inadeguate a contrastare la potenza degli attori
transnazionali. Spesso non è sufficiente l’intervento del pubblico per
contrastare gli interessi delle multinazionali.
Per farlo vengono utilizzato nuovi strumenti come il boicottaggio
possibile però solo in certe circostanze e con l’apporto dei Media.
Media, che in una situazione globalizzata, assumono una influenza
decisiva motivo per cui la loro regolamentazione diviene necessaria e
decisiva per la libertà dei singoli individui.
Maurizio Canauz (Novembre
2010)

Avarizia. La passione dell’avere.
Autore: Stefano Zamagni
Editore: il Mulino
Anno: 2009 |
 |
Esistono ancora
peccati e peccatori?
Nel caso la risposta fosse affermativa dove sono
finiti?
Come scrive su Repubblica Natalia Aspesi: “In
televisione, naturalmente, trasformati i primi in
nuove simpatiche virtù, i secondi in amabili maestri
del nuovo galateo, della nuova morale. Per questo
forse ci sono parole scivolate via, che non viene
più in mente di pronunciare perché obsolete,
irragionevoli: peccato e vizio, certo, poi di
riflesso anche colpa, rimorso, vergogna, penitenza,
punizione, espiazione, non hanno più senso né spazio
dove è obbligatorio il sorriso.”
Proprio per questo diventa meritevole il tentativo
compiuto dalla casa editrice il Mulino, di
realizzare una “minicollana” sui vizi capitali (in
sette agili volumi), diretta da Carlo Galli.
Per raccontare ed approfondire i sette vizi si sono
scelti sei filosofi e un economista,: Laura
Bazzicalupo e la Superbia, Francesca Rigotti e la
Gola, Sergio Benvenuto e l´Accidia, Stefano Zamagni
e l´Avarizia, Giulio Gioriello e la Lussuria, Remo
Bodei e l´Ira, Elena Pulcini e l´Invidia.
I loro scritti, agili e dotti, si prefiggono,
soprattutto, di mostrare l´universo della colpa, il
regno funesto dell’ immoralità così come lo
immaginavano il mondo greco e poi giudaico -cristiano,
raccontando come si è trasformato nei secoli,
evocando i suoi demoni e i suoi eroi, scivolando
sino alle nebbiose considerazioni dell’oggi.
Il testo qui recensito è quello di Stefano Zamagni
sull’ Avarizia,: “vizio capitale che raramente si
appalesa in quanto tale, indossando di volta in
volta i panni dell’avidità, della cupidigia, della
bramosia, dell’usura, della concupiscenza, della
fame dell’oro, della taccagneria, della grettezza”.
(pag 7.)
Come nota Zamagni l’avarizia nel corso dei secoli è
stato oggetto di molte riflessioni e considerazioni
ed è stata l’argomento di diverse opere letterarie.
Chi non ricorda, ad esempio, il ricco usuraio
Shylock nel Mercante di Venezia di Shakespeare o il
facoltoso Arpagone nell’Avaro di Molière o ancora il
freddo e vecchio Ebeneezer Scrooge nel Canto di
Natale di Dickens? (Per altre suggestioni letterarie
si rimanda a pag. 18 del libro recensito).
Soprattutto la figura di Scrooge riappare spesso nel
periodo natalizio specialmente nella versione
animata di Walt Disney.
In questa fortunata trasposizione cinematografica e
televisiva il personaggio dell’Avaro non può che
essere rappresentata, da quello che ormai
universalmente può essere indicato come il simbolo,
l’icona dell’avarizia: Paperon De’ Paperoni.
Il papero
che fa il bagno in una vasca piena di dollari d’oro, che si tuffa nelle
sue monete, che risparmia sul mangiare, che scrocca un pranzo al
poverissimo nipote Paperino sfruttandolo senza remore sotto la minaccia
di diseredarlo.
L’avaro per eccellenza.
Walt Disney, Dickens così come Shakespeare e Molière utilizzano
esprimono il concetto dell’avarizia facendo ricorso alla loro arte e
alla loro forma espressiva letteraria.
Zamagni utilizza a sua volta una forma espressiva e un linguaggio che
più gli è congeniale.
Un linguaggio colto e raffinato che impiega per realizzare un notevole
excursus storico-filosofico dell’avarizia.
Excursus che inizia con l’elencazione dei vizi capitali fatta da Evagiro
Pontico, monaco ed eremita nel deserto egiziano nel suo scritto
Pratktikos risalente alla metà del IV secolo e che giunge con diverse
tappe fino ai nostri giorni.
In questo percorso Zamagni mostra come l’avarizia si sia palesata in
diversi modi avvertendo fin da subito che: “se se ne vuole comprendere
la natura specifica, è necessario guardare in trasparenza i suoi molti
stili e prendere in considerazione le sue semantiche, così come esse si
sono andate articolando nel corso del tempo.”
Proprio questa capacità camaleontica dell’avarizia la rende un vizio
assai pericoloso e difficile da valutare.
Inizialmente, infatti, l’avarizia era considerata una dei peggiori vizi
(per alcuni addirittura il peggiore, “la radice di tutti i mali” come
sostiene, ad esempio, San Paolo) ma con il passare del tempo questo
giudizio inappellabile sembra essersi mitigato tanto è vero che non sono
mancati, nel corso dei secoli, pensatori che non hanno considerato l’
avarizia neppure come vizio.
Zamagni ricorda a tale proposito, tra gli altri, il pensiero di Poggio
Bracciolini che fu, per lunghi anni, segretario apostolico della Curia
romana (1423 – 1453).
Proprio a Poggio Bracciolini (e più in generale agli illuministi laici)
si deve, secondo l’autore, la reinterpretazione radicale del concetto di
avarizia. (p. 77)
Nel suo celebre De avaritia (1428), Poggio Bracciolini sostiene, a
chiare lettere, che “l’avarizia non è contro natura” giungendo perfino a
descrivere gli avari come uomini “forti, prudenti, industriosi, severi,
temperati, d’animo grande e di grandissima saggezza”.
Con Bracciolini e gli umanisti in genere, si assiste ad un superamento
del concetto di bene comune e ad una esaltazione dell’individualità.
L’avarizia, come ricorda Zamagni (p. 78), viene allora vista con occhi
nuovi, con occhi capaci di comprendere la necessità di favorire
investimenti produttivi, la crescita delle città, il mecenatismo per
diffondere il bello.
Scrive Bracciolini: “E’ ovvio che l’avarizia è non solo naturale ma
utile e necessaria agli esseri umani.”
Si assiste quindi ad una rivalutazione dell’avarizia, della bramosia di
denaro che, in un certo senso, viene considerata motore dello sviluppo
economico.
Come nota Zamagni questa concezione tende a mantenersi nel tempo, fino
ad essere seme che diviene frutto nel pensiero di altri studiosi,
soprattutto, nel periodo illuminista
Autori quali Bernard de Mandeville prima e Jeremy Bentham giungono così
a sostenere che l’avarizia sia, di fatto, una virtù.
Bentham, come è noto, fu uno dei massimi teorici e propugnatori
dell’utilitarismo.
Con l’utilitarismo scrive Zamagni: “C’è un nuovo modo di concepire la
motivazione umana all’azione. La spinta alla divisione del lavoro e le
caratteristiche del nuovo modo di produzione avevano portato a
considerare gli individui come parti integranti di un tutto
interdipendente, ma atomo sociali alle prese con le forze impersonali
del mercato. Per la concezione individualista, l’essere umano è
concepito già pienamente costituito come individuo prima ancora della
sua entrata in società.” (p.97)
Per Bentham qualsiasi motivazione umana in ogni tempo e luogo, può
ricondursi ad un unico principio: massimizzare l’utilità.
Bentham sostiene, inoltre, che gli esseri umani sono egoisti.
Edonismo ed egoismo sono i pilastri secondo cui per Zamagni si basa il
pensiero di Bentham e più in generale l’utilitarismo.
Non è difficile quindi per gli utilitaristi, stante le premesse del loro
pensiero, considerare l’avarizia come un aspetto connaturato con la
natura umana.
Si assiste quindi ad un radicale cambiamento della concezione dell’uomo
proietta verso un nuovo avvenire economico basato sulla produzione e sui
commerci.
Zamagni sottolinea in questo caso, come del resto fa in tutto il suo
lavoro, come vi sia una stretta interdipendenza tra la società, il suo
modello economico e il pensiero teorico di riferimento.
L’avidità diviene allora parte integrante del tutto e la sua valutazione
si relativizza rispetto ai valori e alle concezioni dominanti in un
certo momento storico.
Più l’aspetto sociale e comunitario è esaltato più l’avidità viene
considerata negativamente, più l’aspetto individuale è ritenuto
significativo più l’avidità viene considerata benignamente.
Ancora oggi esistono molte scuole di pensiero e indirizzi dottrinali che
tendono a privilegiare la concezione individualistica ed egoistica.
Non mancano, infatti, economisti, che tendono ad accreditare l’idea
della avidità come un vizio, tutto sommato, minore e comunque facilmente
correggibile con l’impiego di schemi adeguati di incentivo.
A tale proposito lo stesso Zamagni nota che in molti “testi di economia,
da quelli più raffinati a quelli di più ampia divulgazione, mai si parla
di comportamento avaro. In tali lavori neppure si considera dotata di
senso la domanda se le preferenze dell’homo oeconomicus siano avare o
meno. Questi deve solamente pensare a comportarsi in modo razionale,
massimizzando, sotto opportune condizioni, l’interesse proprio, quale
che esso sia”.
Purtroppo come nota l’autore: “A differenza di quanto accade nelle
scienze naturali, la scienza economica è fortemente sotto l’influenza
della doppia ermeneutica, tesi secondo cui le teorie economiche sul
comportamento incidono, tanto o poco, presto o tardi, sul comportamento
dell’uomo.
Quanto a dire che la teorizzazione in ambito economico mai lascia
immutato il suo campo di studio, dal momento che essa plasma non solo le
mappe cognitive degli operatori economici, ma indica anche loro la via
che deve essere seguita se si vuole conseguire in modo razionale lo
scopo.
Ora, se quest’ultimo è l’accumulazione sempre più spinta di cose o
denaro e se, come è ovvio , lo scopo di un’azione prescrive quali
debbano essere i mezzi richiesti per realizzarlo il cerchio ermeneutico
è presto chiuso”. (p.118).
In base a questa riflessione Zamagni nota come il pensiero fortemente
individualista sostenuto da Ayn Rand e Alan Greespan (p.120) e più in
generale dalla destra americana, per cui l’avidità è il meccanismo che
regola l’ordina sociale e che è un male contenerla, sia stato il motivo
primo della attuale crisi finanziaria ed economica.
Scrive Zamagni: “è un fatto che da quando ha iniziato a prendere forma
quel fenomeno di portata epocale che è la globalizzazione, la finanza
non solamente ha via, via accresciuto la sua influenza economica, ma ha
progressivamente contribuito a modificare il sistema di valori delle
persone e con esso le loro mappe cognitive. E’ a quest’ultimo aspetto
che si fa riferimento quando, nel linguaggio corrente, si parla di
finanziarizzazione dell’economia, vera e propria ideologia - travestita
da presunta scientificità - secondo cui a partire dall’assunto
antropologico dell’ homo oeconomicus, cioè dall’assunto di comportamento
avido, si arriverebbe alla conclusione che tutti i mercati (inclusi
quella finanziari) sono assetti istituzionali in grado di autoregolarsi
e ciò nel duplice senso, sia di assetti capaci di darsi da sé le regole
del proprio funzionamento, sia di farle rispettare”.
Presupposti questi errati che hanno portato a risultati assai negativi
che, ora, sono estremamente evidenti.
Proprio per questo partendo da una riconsiderazione dell’avarizia e del
comportamento del singolo nasce, secondo Zamagni, la necessità di
recuperare il legame tra democrazia e mercato e soprattutto di
ricondurre un mercato dominato dall’avidità dell’homo oeconomicus,
nell’alveo della ragionevolezza e al rispetto di regole condivise e
sociali
Zamagni richiama quindi il pensiero di Adam Smith, soprattutto
quando”insisteva che un ordine sociale autenticamente liberale ha
bisogno non di una, ma di due mani per durare nel tempo: invisibile
l’una - quella di cui tutti parlano, anche se spesso a sproposito … - e
visibile l’altra, quella dello Stato che deve intervenire in chiave
sussidiaria, come diremo oggi, tutte le volte in cui l’operare della
mano invisibile rischia di condurre verso la monopolizzazione
dell’economia e, più in generale, verso la produzione di effetti
perversi”.
Non per nulla, Zamagni, da anni, teorizza la necessità di un’economia
civile. Per un verso, ricostruendo genealogie intellettuali che
affondano le radici nell’umanesimo civile italiano e, per l’altro,
lavorando intorno a un’economia della reciprocità, capace di assegnare
alla qualità della relazione sociologica con l’altro un “valore” in
grado di influire sulla scelta economica, di regola, puramente
quantitativa. E dunque tutto il contrario di un’economia dell’avarizia,
che invece sembra assegnare un ruolo determinante alla sola ricerca
individuale del profitto per il profitto.
L’avaro, per Zamagni, non può e non deve essere, inoltre, il prototipo
dell’uomo oltre che per ragioni etiche anche perché l’avaro non è un
uomo felice né ragionevole.
“Non è felice perché l’avaro è posseduto dalle cose”, scrive Zamagni,
“non possiede, conserva ma non usa. Possiede ma non condivide. Ce lo
insegnano Dickens e Verga.”
Inoltre è un uomo fallito perché se, come sostiene l’autore, la felicità
sta nella condivisione, l’avaro è esistenzialmente sconfitto in quanto
l'economia si fonda non sulla ricchezza, ma sulle relazioni e sulla
capacità di scambio. E queste non sono possedute neppure in minima parte
dall’avaro.
Il libro di Zamagni, non è a mio avviso, un testo di facile lettura.
E’ un libro denso di citazioni, di rimandi, di richiami al pensiero di
filosofi, economisti, teologi che, a volte, invece di arricchirlo ne
spezzano il ritmo costringendo il lettore a un supplemento di fatica.
Alcune tesi sono note, altre che meriterebbero un maggiore spazio sono
condensate in poche righe.
E’ un testo “totalmente intellettuale” che si basa su una comunicazione
cervello – cervello senza nessuna concessione al cuore.
L’autore cerca di convincere solo con ragionamento che l’avarizia è
sbagliata ma non inserisce nulla nel suo scritto che possa colpire il
lettore costringendolo ad osservare ciò che è o che fa un avaro (come
del resto fa lo stesso Vangelo quando tratta questo tema, ad esempio,
nella parabola di Lazzaro e del ricco, Vangelo di Luca 16, 19 e ss. o in
quella dell’Avarizia e del ricco stolto, Vangelo di Luca, 12, 16 e ss.).
Probabilmente quello emotivo non è il registro comunicativo
priveliegiato da Zamagni che sperimenta un’altra via, sicuramente a lui
professore di economia, più consueta e abituale.
Il risultato è quello di un libro per dotti che hanno il piacere
dell’approfondimento e dell’erudizione.
Agli altri lettori il consiglio di affrontarlo solo se si è disposti ad
sfidare un percorso faticoso che potrebbe richiedere una particolare
attenzione e una cospicua dose di tempo in apparente contrasto con il
numero, relativamente esiguo, di pagine.
Maurizio Canauz (Settembre
2010)

DIARIO DI SCUOLA
Autore: Pennac Daniel
Editore: Feltrinelli
Anno: 2008 |
 |
Metà giugno.
Le meritate vacanze ormai si avvicinano.
Si prepara la valigia e nella valigia perché non
infilarci un libro
da leggere?
Un libro che si intoni sia con le oziose e pigre
ore da passare sotto l’ombrellone di una assolata spiaggia cullati dallo
sciabordio di ritmiche onde sia con la fresca quiete di un luogo di
montagna seduti ai piedi una quercia secolare dopo aver fatto, magari,
una salubre passeggiata .
Un libro che faccia riflettere senza richiedere
eccessivi sforzi intellettivi, che possa scivolare leggero ma, che non
sia, solo, frivolo.
Insomma un buon libro.
Personalmente credo che quello qui proposto lo sia
.
Inoltre ha un ulteriore pregio: parla di scuola.
Proprio la scuola rappresenta il fil rouge
che lega questo scritto agli altri precedentemente recensiti.
Ma andiamo con ordine.
Daniel Pennac è un celebre scrittore francese.
Daniele Pennacchioni è uno studente svagato.
Daniel Pennac scrive in maniera fluente.
Daniele Pennacchioni scrive lettere improbabili
alla madre farcite di errori (si veda p. 34). Così farcite da errori,
sottolineati con un posteriore “sic”, da risultare imbarazzante al
limite del patologico.
Daniel Pennac vince premi per la sua opera
letteraria.
Daniele Pennacchioni vince se un suo compito in
classe si avvicina alla sufficienza.
Sarebbe mai possibile pensare che David Pennac e
Daniele Pennacchioni siano la stessa persona?
La domanda è retorica. Daniel Pennac e Daniele
Pennacchioni sono, udite, udite, la stessa persona.
Come nella celebre favola il brutto anatroccolo si
trasforma in un bellissimo cigno.
Lo studente tardo e dai voti imbarazzanti si
tramuta prima in un professore, con buona pace del padre, e infine in
uno scrittore.
E’ bene notare, come per esempio fa Hillman nel suo
Codice dell’Anima (Adelphi, Milano 1997), che queste
trasformazioni non sono rare.
Esploratori celebri come Robert Peary o Vilhjalmur
Stefansson, erano bambini timorosi e incapaci di lasciare la gonna della
madre.
Lo stesso Ghandi, ci ricorda Hillman, era un
bambino gracile, pauroso e malaticcio, che si spaventava per un non
nulla.
Niente quindi di sorprendente che anche Pennac
subisca questo processo di trasformazione (sulle cui cause si rimanda
all’opera di Hillmann o a quelle di Freud e Adler).
Tuttavia Pennac, mentre molti giovani fragili e
manchevoli diventati uomini di (quasi) successo, una volta intrapreso il
loro cursus honorem, tendono a dimenticare le tappe precedenti della
loro vita, non si dissocia dal suo passato di “somaro” (termine usato
dall’autore che vien qui ripreso e usato in tono bonario quasi
affettuoso) ma anzi lo analizza attentamente, mischiando sapientemente
pathos e ironia.
Così ironizza sulle sue difficoltà ad imparare
l’alfabeto.
“Invece di formare le lettere dell’alfabeto,
disegnavo omini che scappavano sul margine del foglio e lì creavano
delle bande. Eppure all’inizio mi applicavo, rifinivo le lettere meglio
che potevo, ma pian piano le lettere si trasformavano in quegli esserini
allegri e saltellanti che se ne andavano a folleggiare altrove,
ideogrammi della mia voglia di vivere,” (pp.25 – 26).
Così ricorda con dolcezza le ansie della madre o
l’imperturbabilità del padre che lo accompagnarono per tutta la vita
scolastica fino al titolo di professore. (p.36)
Così ricorda i suoi pensieri, la sua profonda
frustrazione per ciò che non riusciva ad apprende e a fissare nella
memoria, il suo senso di emarginazione.
Buio, baratro, derisione, dramma.
Si sentiva come un naufrago che lentamente perde le
forze e la speranza di salvezza.
Nessuna isola all’orizzonte o terra ferma, nessun
relitto a cui aggrapparsi con le ultime forze.
Poi, inaspettatamente, alcune mani benevole che
lanciano un salvagente a cui cercare di aggrapparsi.
Nel caso di Pennac quelle mani erano quelle di
alcuni professori che, superando la sua apparente incapacità, credettero
in lui innescando così un processo virtuoso.
La fiducia dei professori e dell’ambiente in cui si
trovava aumentò la sua autostima personale e questo nuovo clima, questa
nuova visione di sé, lo condusse verso una possibile, quanto
inaspettata, resurrezione scolastica.
Troppo facile sarebbe, però, pensare che dietro ad
un “somaro” ci sia sempre uno studente pieno di potenzialità, troppo
facile, altresì, ritenere che un “somaro” sia sempre e solo un “somaro”.
Lo stesso Pennac ha
difficoltà a spiegare come in dieci anni sia passato da somaro a
professore.
Tanto da domandarsi:
”Come si compie la metamorfosi da somaro a professore? E, a latere,
quella da analfabeta a romanziere?”
Non so come ma mi torna
alla mente Kafka o a maggior ragione, anche per la somiglianza
dell’animale in cui si trasforma il personaggio principale Lucio,
Apuleio.
In questo caso però,
come in un gioco di specchi, la trasformazione avviene nel senso
inverso: da animale a uomo.
Trucco, magia, chimica,
biologia, fisiologia?
Come scrive Pennac; “la
tentazione di non rispondere è forte” (p.73)
Artificio letterario che
consente salti nello spazio e nel tempo senza spiegazioni dettagliate
degli avvenimenti
Tuttavia, come spesso
avviene nelle metamorfosi letterarie, il soggetto rimane legato ai suoi
ricordi,
Pennac ricorda così il
sentimento principale di quei tempi, che è comune ai ragazzi con scarsa
volontà e bassa resa, e cioè la paura, il terrore che lo attanagliava
quando si trovava d’avanti agli insegnanti.
Terrore della sconfitta,
terrore di quella sconfitta scolastica che può diventare definitiva
nella vita.
Proprio per questo diventa importante l’aiuto per
evitare che i perdenti, i pessimi scolari:
della scuola siano gli adulti che porteranno le cicatrici di una vita
scolastica zeppa di insuccessi.
Ma il libro non è solo
un hamarcord della giovinezza, un diario romanzato
dell’esperienza di uno scolaro poco brillante.
E’ un viaggio a tutto
tondo nella scuola.
Così dopo aver
affrontato le esperienze da studente, Pennac passa a ricordare la sua
esperienza di professore.
Come è stato Pennac come
professore e soprattutto quale è stata la sua attenzione per gli ultimi?
Daniel Pennac ha,
infatti, insegnato per venticinque anni in una scuola per studenti
"difficili".
Come risponde la scuola
alle sollecitazioni dei cosiddetti “somari”?
Come ha risposto lui
quando alcuni studenti necessitavano di un aiuto?
Il suo è stato solo un
aiuto professionale, legato solo alla materia di insegnamento, o ha
cercato di prestare attenzione anche ad altri aspetti, aspetti di
frontiera, legati alla biografia dei suoi studenti che diventavano cause
di difficoltà di apprendimento? (In questo senso si veda, ad esempio,
l’episodio di Jocelyne p.99)
Come si è comportato in
classe? Ha sempre tentato di motivare gli allievi di stimolarli o si è
lasciato assorbire dalla routine?
Pennac non si fa troppi sconti.
Come insegnate è stato capace di aiutare gli
studenti in difficoltà?
Non ha mai fallito?
Ha fallito e lo sa anche se cerca di dimenticarlo.
Non sempre si può far emergere le qualità dello
studente.
Non sempre gli insegnanti sono abbastanza motivati
per spronare gli alunni o meglio per appassionarli allo studio.
Non sempre lui è stato sufficientemente motivato
per far innamorare, appassionare gli studenti al sapere.
Ma come provare a farlo?
Pennac riflette e propone.
Di fatto questo aspetto lo aveva già affrontato,
anche se da una diversa prospettiva, nel suo scritto: Come un romanzo
(Feltrinelli, Milano 2003).
Come fare a trasmettere la passione per la lettura
ad una legione di ragazzi che non intendono appassionarsi? Pennac
risolveva il problema elaborando un decalogo che tra gli altri,
riportava in calce il “Diritto di non leggere”. In sintesi; non si può
imporre la lettura, solo mostrarne il piacere.
Similmente l’insegnante dovrebbe mostrare il
piacere del sapere che congiunto alla volontà dello studente, una volta
superata la paura del fallimento, dovrebbe portare al recupero di molti
casi difficili.
Ma i professori a volte sono lontani, distaccati, assenti.
Non trasmettono amore per il sapere, non ricevono i
segnali degli alunni in difficoltà
Il suo diventa alloro
non un elogio della scuola perfetta bensì una messa in discussione dei
sistemi di insegnamento superati del disamore che a volte avvolge la
professione dell´insegnante.
Pennac non si ascrive a nessuna scuola di pensiero
pedagogico e insegue un percorso individuale anche se, mi pare, che nel
scritto faccia capolino spesso l’idea del docente facilitatore di
apprendimento tipica di alcuni orientamenti didattici.
Secondo alcuni lettori (specie insegnanti i cui
commenti, molte volte non troppo benevoli, sono rintracciabili in rete)
e secondo alcuni critici Pennac peccherebbe di romanticismo o forse di
buonismo.
Con il passare del tempo si tende a guardare con
indulgenza aspetti del passato verso cui in precedenza si era stati
molto critici e si rimuovono quelli dolorosi, fino ad una vera e propria
dissociazione.
Nulla è esattamente ciò che era, così come con il
tempo si è modificato lo stesso soggetto che ricorda.
Ciò accadrebbe allo stesso Pennac portato
involontariamente a migliorare i suoi ricordi.
L’esperienza in collegio, drammatica per molti,
diviene così per lui sopportabile e utile per la sua formazione, la
costanza dell’applicazione se ben motivata diviene allora una delle vie
per il successo scolastico.
L’insegnante deve stimolare, aiutare, far capire a
tutti (o quasi tutti) i soggetti che impegnandosi possono farcela.
Come si dice: l’impegno non garantisce il successo
ma il non impegno garantisce il fallimento.
Comunque sia, a mio parere, il libro ha un pregio
fondamentale per un’opera letteraria: è scritto bene.
Anche l’alternarsi di due piani, uno più
contemporaneo nel quale lo scrittore, ormai affermato, si guarda
indietro con una visione prospettica e distaccata ed uno calato nella
memoria in cui Pennac si immerge come fosse allora, ricordando volti e
accadimenti del tempo passato e proponendo episodi della sua adolescenza
scolasticamente difficile, aiutano a renderlo vivo e non noioso.
Non si tratta certo di un saggio di didattica e
pedagogia, più che altro di una ricerca sul campo, di una osservazione
partecipata di derivazione sociologica, in cui il soggetto osserva
dall’interno e interagisce con l’oggetto osservato.
Proprio come in una ricerca basata
sull’osservazione partecipante Pennac cerca di dare una descrizione e
una interpretazione della realtà degli studenti difficili senza dare
risposte esaustive e definitive e soprattutto, senza cercare di
confermare una tesi preconcetta.
Probabilmente il fatto che Pennac sia stato e non
sia più, un insegnate diviene il suo punto di forza.
Uscito da un ambiente, dai suoi riti, dai suoi
piccoli compromessi, ne diviene un osservatore meno indulgente e più
attento, capace di penetrare a fondo dinamiche apparentemente ignote o
trascurate,
Fornisce così un quadro d’insieme con lo scopo di
invitare a riflettere.
Vorrei a tale proposito permettermi una
digressione.
Come ho già scritto non sono mancati al libro di
Pennac commenti e riflessioni.
Basta inserire il titolo in un motore di ricerca e
scorrere alcuni siti per constatare che nel web si possono trovare
molteplici opinioni su questo libro,
Specialmente i docenti si sono sentiti chiamati in
causa e hanno espresso, in molti casi, la loro opinione sul contenuto
del libro.
Molti gli apprezzamenti ma non sono mancate certo
le critiche.
Alcuni lettori lo hanno trovato uno scritto
sdolcinato e idealista lontano dalla trincea quotidiana.
I “somari” sono “somari” si argomenta, e per uno
che si redime novantanove rimangono tali per quanti sforzi si faccia.
Mi ricorda un po’ la dinamica del medico e
l’ammalato.
Il medico molto spesso tende con il tempo a
considerare l’ammalato uno dei tanti.
Un caso, da affrontare professionalmente senza un
(eccessivo) coinvolgimento umano.
L’ammalato invece si sente unico e considera il suo
caso come speciale.
Le prospettive sono difficilmente conciliabili.
Similmente lo scrittore focalizza la sua attenzione
su uno o pochi casi approfondendone storia e sentimenti.
La paura di uno studente per l’insuccesso diviene
così LA PAURA per antonomasia., una vicenda sfortunata diviene IL DRAMMA
attraverso il potere moltiplicatore ed esaltatore della parola.
Meccanismo questo di esaltazione del caso singolo
che riesce soprattutto se ad usare la parola è un esperto scrittore come
Pennac che la conosce approfonditamente e sa come presentarla al meglio
al lettore suscitando in lui emozioni, pathos o empatia per il “povero
somaro”.
D’altronde i docenti non devono arroccarsi in una
sorta di impermeabile autoreferenzialità in base alla quale l’unica
visuale corretta della scuola e degli studenti è la loro senza accettare
il confronto con altri portatori di esperienze differenti, ma non per
questo meno ricche e utili.
Atteggiamento questo che sancisce l’inutilità del
confronto e che limita ogni apporto proveniente dall’esterno.
Il libro di Pennac invita proprio a considerare
diverse possibili visuali per cercare di operare al meglio
nell’interesse dello studente che dovrebbe essere il vero e unico
obiettivo di tutto il sistema scuola,
In definita un libro godibile sia come scritto in
sé, da leggere velocemente senza troppi problemi e senza altra pretesa
che quella di trascorrere un po’ di tempo immersi in una lettura
piacevole, sia come insieme di spunti su cui riflettere, senza cercare
colpevoli o colpe ma utile per confrontarsi con prospettive e visuali
nella e della scuola (come quella dello studente dell’ultima fila) non
sempre considerate con attenzione nelle ambasce dell’anno scolastico.
Maurizio Canauz (Giugno
2010)

Titolo: L’Ethos del mercato
Autore: Luigino Bruni
Editore: Bruno Mondadori
Anno: 2010 |
 |
Si dice che l’assassino torni sempre
sul luogo del delitto.
Vi è come attirato, risucchiato da una forza oscura
che, come una calamita, l’attrae verso il magnete.
Questo sembra il destino di Bruni che ripercorrendo
strade a lui consuete torna, in questo libro edito
da Bruno Mondadori, ad affrontare i temi del mercato
e della comunità, dell’economia civile, del dono e
della ferita nell’incontro con l’altro.
Sembra quasi che l’autore dopo aver brillantemente
approfondito a lungo il pensiero dei grandi
economisti come storico del pensiero economico, si
sia convinto della bontà di alcune idee passando
prima alla loro teorizzazione per poi diventarne un
instancabile divulgatore.
Non più quindi il suo un approccio teorico e
dottrinale ma qualcosa di più e di diverso come se
si fosse convinto che la sua ricerca debba andare
oltre alle aule universitarie diventando materia
concreta con un forte legame con l’esistenza
quotidiana.
I problemi economici perderebbero quindi il loro
significato, per Bruni, se vengono considerati
soltanto come problemi teoretici concernenti realtà
a cui la loro impostazione o risoluzione risulti
estranea e i quali non abbiano sull’uomo che li pone
o che li risolve se non una influenza ipotetica e
indiretta.
Bruni quindi concentra sempre più la sua attenzione
sull’uomo e sulla sua esistenza.
Il suo punto di partenza non può quindi essere che
l’antropologia.
E’ l’individuo posto alla base della teoria
economica che deve essere studiato perché è dalle
fondamenta che la costruzione deve essere
modificata.
La scelta di Bruni è sicuramente interessante e
controcorrente visto che a partire dagli anni
Ottanta si e delineata, all'interno della disciplina
antropologica, una progressiva caduta d'interesse
nei confronti delle teorie “forti”. “Collasso”
teorico che si è verificato in una congiuntura
storica caratterizzata dal crollo delle ideologie
con un probabile collegamento fra i due fenomeni.
In questo panorama frammentato tuttavia Bruni cerca
e trova un riferimento per la sua riflessione nel
pensiero di Roberto Esposito.
Esposito, così come in Francia ha similmente
sostenuto Jean-Luc Nancy, basa la sua iniziale
riflessione su un pensiero espresso mirabilmente da
una citazione dai Titani di Friedrich Hölderlin: «È
bene reggersi/ ad altri. Nessuno sopporta solo la
vita».
Ogni uomo necessità quindi della Communitas in cui
domina il reciproco volgersi l'uno all'altro in un
obbligo donativo, nel munus come «ufficio» e «dono».
Essere nelle Communitas non è un avere ma, al
contrario, un debito, un dono da dare.
I soggetti che fanno parte della Communitas sono
uniti da un dovere che li rende non totalmente
padroni di loro stessi.
Entrando nella Communitas gli uomini rinunciano alla
propria proprietà iniziale (fondamentale) e cioè
alla loro soggettività.
Rinuncia questa assai forte che comporta conseguenze
impegnative per il destino dell’uomo che perde la
sua specificità per entrare in una collettività di
uguali.
Concezioni queste di Esposito piuttosto radicali che
Bruni riprende quando asserisce che: “La comunità è
una ferita che espone l’altro ad un legame
rischioso: la fraternità.”
In molte culture, secondo l’analisi che viene
proposta, l’individuo è stato assorbito dalla
comunità, a volte in modo esclusivo.
Si pensi alla Comunità Sacra ma anche, per Bruni, a
quella Greca dove la philia cioè l’amicizia crea la
polis come comunità di eguali e non di diversi.
Lo stesso avviene negli ordini religiosi come, ad
esempio, nell’ordine francescano.
Poi, con l’avvento della modernità, il concetto di
fraternità entra in crisi e si passa, con la
teorizzazione del contratto, ad un nuovo modo di
stare insieme in cui ogni aspetto agapico viene
relegato ai margini se non proprio cancellato.
Colpevole di questa trasfornazione soprattutto
Hobbes che ha basato l’unione degli individui non
sull’amore ma sulla paura.
Idee quelle del filosofo inglese che non sublimano
il rapporto tra gli uomini ma tendono a limitarlo.
Per Bruni con Hobbes :”la società europea si è
ritrovata dalla comunità senza individui
all’individuo senza comunità.”
Da questa visione individualistica legata
probabilmente, anche se Bruni non lo dice, all’idea
sostenuta dal protestantesimo dell’individuo (attore
principale del suo destino e fortemente autonomo) e
della società deriva la centralità del mercato in
cui le categorie tipiche sono non l’amore ma
l’estraneità e l’indifferenza.
Il mercato è quindi il luogo dove la relazionalità è
bandita, così come è bandito il dono e la logica che
lo sottende.
La società Occidentale ha così, con il tempo,
operato una scelta economica che è diventata anche
valoriale preferendo una visione egocentrica ed
egoistica dell’uomo ad una visione basata
sul’incontro e sulla fraternità, sul riconoscimento
del prossimo come uguale.
Eppure in questo apparente conformismo ideale non
sono mancate, a parere di Bruni, eccezioni capaci di
recuperare la relazionalità sacrificata dal mercato.
Si tratta, ad esempio, della economia civile secondo
la cui visione. mercato, impresa, economia sono in
sé luoghi anche di amicizia, reciprocità, gratuità,
fraternità.
Soprattutto Bruni richiama il pensiero di Genovesi
secondo cui, lo sviluppo dei mercati doveva essere
considerato una espressione della “assistenza
reciproca”: “Uno de’ bei tratti della Divina
Provvidenza, fa che gli uni dipendano dagli altri, e
che vi sia prima tra famiglia e famiglia, e appresso
tra villaggio e villaggio, e medesimamente tra città
e città, e ultimamente tra nazione e nazione uno
scambievole legame di perpetuo interesse, primo
fondamento delle civili società e quasi di tutti gli
ordini civili”.
In altre parole la socialità, in questa diversa
concezione del mercato, torna ad essere fraternità.
Diviene quindi chiaro l’obiettivo di Bruni, tipico
della sua ultima produzione: “La grande operazione
che ci attende è andare oltre questa economia di
mercato senza rinunciare alle conquiste di civiltà
che tale sistema economico e sociale ha consentito
di raggiungere negli ultimi secoli”.
Per farlo la ricetta è quella di recuperare la
“fraternità senza la quale la vita, individuale e
sociale, non fiorisce”.
Onestamente se osservo il mondo intorno a me,
soprattutto in questo periodo, mi sembra che questa
ipotesi vada oltre l’utopia.
Per realizzarla, infatti, non basterebbe neppure il
già difficile richiamo ad una etica condivisa, ma
sarebbe necessario costruire un ethos, cioè un
ambiente, uno stile di vita, un modo di concepire i
rapporti economici con una strategia in grado di
arricchire insieme i singoli e la comunità.
E’ plausibile?
Al lettore la risposta.
In conclusione un libro che si concentra su
tematiche note per chi segue il lavoro e la ricerca
di Bruni, scritto con il solito impegno teorico e la
solita voglia di comunicare con un’ampia cerchia di
lettori
Forse, il limite di una produzione così intensa, che
gravita sugli stessi argomenti sia pur affrontati
con dosaggi diversi, porta il libro a peccare un po’
di originalità, rischio questo ovvio che tuttavia
può passare in secondo piano se l’obiettivo ultimo è
quello, non di essere originali, ma di arrivare a
nuovi lettori proponendo nuovi testi con case
editrici diverse.
Maurizio Canauz (Maggio
2010)

TEATRANTI PRECARI
Autore: Libera Stroppa
Editore: Giraldi
Anno: 2008 |
 |
Di precariato e flessibilità mi sono
già occupato recensendo il libro di Luciano Gallino;
Il lavoro non è una merce.
Sono temi questi così attuali che forse meritano una
particolare attenzione come del resto ci ha
ricordato anche di recente Benedetto XVI. (1)
Difficilmente però, si va al di là del pensiero
razionale, dell’analisi sociale od economica.
Eppure già Pascal ci avvertiva che esistono ragioni
che la ragione non conosce…
Oltre a i numeri, alla coerenza deduttiva e
induttiva, alla logica esiste altro nell’umanità.
Cuore, sangue, sudore… paure, ansie, speranze,
delusioni.
Aspetti emotivi e, a volte, irrazionali che mal si
adattano al saggio e che rimandano invece ad altri
tipi di componimenti letterari ad altre forme
espressive non per questo meno utili alla
comprensione di un fenomeno complesso come quello
del lavoro o non lavoro flessibile,
Difficilmente, però, si ascolta la voce a chi è il
vero e unico attore del precariato: il precario.
Ultimamente, in verità, alcuni scrittori,
sceneggiatori e artisti hanno cercato la loro
ispirazione in questo ambito, tentando operazioni in
cui si cerca di penetrare oltre l’apparenza, oltre
la massa per evidenziare storie, biografie di
persone che lottano per sopravvivere nella giungla
del mercato del lavoro.
La visuale privilegiata è quella dal basso, quella
di chi sta alla base della piramide sociale.
Mi riferisco, ad esempio, alle opere di Ascanio
Celestini (1), di Giovanni Calamari (2) di Andrea
Bajani (3) e di Marco Paolini (4) in Italia e i
celebri reportage di Barbara Ehrenreich (5). negli
Stati Uniti.
Similmente questo (quasi) vuoto, questa (quasi)
mancanza attrae lo sguardo dell’autrice Libera
Stroppa, che con il suo agevole testo cerca di
presentare il mondo del precariato dall’interno,
utilizzando storie, annunci di ricerca e offerta di
lavoro,
Ne risulta così un mondo rutilante o meglio un
sottobosco in cui ironia, dramma e assuefazione alla
criticità si fondono con la normale banalità e
routine del vivere giorno dopo giorno.
Routine e banalità che non riguarda però chi non ha
un testo fisso, una parte certa da recitare.
Chi si alza dal letto senza alcuna sicurezza su come
andrà la giornata, chi si deve scoprire artista o
prestigiatore per inventarsi il pranzo e la cena.
Il testo, in settantotto pagine dense di spunti, si
propone come copione teatrale, con rimandi anche
agli spettatori, fatto però non di armonie ma di
discontinuità di “intramuscolari” così veloci da non
dare a volte il tempo di recepirne appieno il senso.
Siamo abituati a sentire giornalmente, tra radio,
televisione, amici e parenti discorsi e dialoghi tra
precari in attesa del rinnovo di un improbabile
contatto ma, ora, quelle parole svolazzanti, che
leggere spesso ci sfiorano senza lasciare traccia,
vengono fissate su carta, inchiodate e noi non
possiamo più voltare lo sguardo, o mettere la testa
sotto la terra come si dice facciano gli struzzi
quando percepiscono avvicinarsi il pericolo.
Si sentono così le voci, ora flebili ora vigorose
dei giovani che si ritrovano catapultati nel mondo
del lavoro senza alcune certezze o dei cinquantenni
che perdono il lavoro e si trovano a “mendicare” un
posto senza che la loro pregressa professionalità
abbia un valore o un riconoscimento.
Storie di commesse senza contratto regolare, di
mutui, di lavori a progetto di colloqui di lavoro e
di discussioni in famiglia con genitori che non
riescono ad aiutare i figli a comprendere una realtà
che a loro stessi è sconosciuta.
Storie che, penso, possano essere ben riassunte in
queste citazioni in bilico tra poesia e aforismo:
“Parole Precarie
No/ Si/ Forse/ Vedremo/ Le diremo/ Ora è troppo
presto/ Dobbiamo lavorare/ Le capacità ci sono/ Bla,
Bla Bla.” (pp. 33-34),
“CV”
CV INVIATO IL 25/0372007:
26/03/2007 h. 10,20 calma, piatta
27/03/2007 h. 11,00 calma, piatta
28/03/2007 h,13,00 calma, piatta
3/04/2007 h. 16,00 calma, piatta
5/04/2007
Calma apparente.
(pag. 60)
Un testo diretto, che usa un registro linguistico
semplice e giovanile, anche se a volte, a mio
giudizio, eccessivamente piatto ed ordinario.
Un libro che ritengo possa essere utilizzato anche
in classe per superare l’universalità astratta della
teoria per introdurre concetti quali comprensione e
solidarietà umana che consentono di mostrare la
struttura coesistenziale dell’esistenza e porre una
base per la creazione di un’etica condivisa basata
sulla natura dell’uomo.
Inoltre può, facilmente essere utilizzato come parte
di un percorso sul tema del lavoro e della
flessibilità.
Il suo utilizzo, a tale proposito, può assumere
forme diverse.
Può, ad esempio, essere “stazione di partenza” per
fare emergere i saperi spontanei, le esperienze
degli studenti e il loro stato d’animo sia in
riferimento al loro futuro lavorativo si in
riferimento alla loro situazione familiare.
Oppure come “stazione d’arrivo“ una volta affrontare
teoricamente i temi del mercato del lavoro, di
offerta e domanda, di disoccupazione.
Oppure semplicemente come spunto per una discussione
e un confronto sull’economia il lavoro la società e
il benessere magari scegliendone solo qualche passo,
qualche storia, qualche annuncio.
Materiale grezzo su cui lavorare ma che aiuta a
storicizzare il sapere superando ogni forma di
accomodamento verbale, di ogni irrisolutezza
speculativa,
Un modo per dare colore e sostanza ai numeri i dati,
per far capire che le decisioni economiche prese
hanno un impatto sulle vite delle persone, per
rendere esistenziale l’economia politica.
Non è, come ho già ricordato, l’unico testo
possibile ma la sua forma espressiva, il suo tono
amaro ma non tragico, la possibilità di evitarne
parti (anche per assecondare il tempo tiranno) senza
perdere il senso del tutto ne fanno un testo
gradevole e alla portata di tutti, non noioso e
utile per focalizzare esperienze di precariato che
ultimamente investono molte famiglie italiane.
Un ultima annotazione: perché nel titolo l’autrice
parla di teatranti ? Perché fingere una
rappresentazione teatrale?
Probabilmente perché la vita, l’esistenza è da
considerarsi, secondo l’autrice, poco più di uno
spettacolo con i luoghi ridotti a scenari e gli
uomini a maschere che recitano una parte di un
copione scritto un po’ maldestramente.
Spesso in questo melodramma che è la vita purtroppo,
gli uomini sono chiamati a recitare una parte da
sconfitti senza redenzione.
“Ogni grande trucco si svolge in tre atti: il primo
è chiamato la promessa e l’illusionista mostra
qualcosa di molto comune ma ovviamente non lo è; il
secondo è chiamato la svolta: la cosa comune diventa
qualcosa di straordinario e se cercate il segreto
non lo troverete. Ed ecco il terzo atto, il gioco di
prestigio, che mostra qualcosa che non si è mai
visto prima”.
(dal film “The prestige, 2006- citato a pag. 60 ).
Maurizio Canauz
(Aprile 2010)
NOTE
(Ma anche un breve itinerario tra alcune delle opere
artistiche che si confrontano con il mondo del
precariato)
(1) Si veda a tale proposito il testo dell’Angelus,
ripreso tra l’altro da tutti i principali giornali
italiani, del 18 marzo 2010 in cui si afferma tra
l’altro che; “il lavoro è un bene per l’uomo, per la
famiglia e per la società, ed è fonte di libertà e
di responsabilità.”
(2) In particolare Ascanio Celestini ha prodotto
sulla precarietà il documentario “Parole Sante” presentato alla
Festa di Roma nella sezione Extra nel e prodotto da Fandango
(anno 2008 anche con testo scritto).
In questo documentario (acquistabile e quindi utilizzabile in
classe) si narra la storia di quattromila lavoratori precari che
attraversano ventiquattro ore al giorno il portone di un’anonima
palazzina, una fabbrica di occupazione a tempo determinato che
sembra un condominio qualunque.
Tra loro alcuni operatori telefonici hanno organizzato scioperi,
manifestazioni, scritto un giornale e presentato un esposto
all’Ufficio Provinciale del Lavoro.
Si sono autorganizzati, hanno rischiato e sono stati
licenziati..
Come scrive Celestini: Qualcuno poteva salvarsi e accettare un
lavoro pagato 550 euro al mese, ma “noi non siamo mica il
Titanic – mi dicono- non affonderemo cantando”. Parole sante!
Rispondo io.
PAROLE SANTE - Scritto e diretto da Ascanio Celestini -
Direttore della Fotografia Gherardo Gossi - Montaggio Alessandro
Pantano
Musiche di Roberto Boarini, Matteo D'Agostino, Gianluca Casadei
e Ascanio Celestini - Prodotto da Fandango
(http://www.fandango.it/default.asp?idlingua=1&idContenuto=1902)
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(3) Giovanni Calamari è autore del documentario
"Debito di Ossigeno" che racconta come una ragazza madre di
Legnano e una famiglia di
Torino affrontano il rischio della perdita di lavoro.
Fulvia, trentasettenne romana, vive nella provincia milanese
col figlio di otto anni e campa con i contratti a termine che
riesce a trovare (più che altro nei call - center).
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La madre è lontana, abita infatti a Barcellona e può
aiutarla solo saltuariamente.
Così Fulvia si appoggia su una famiglia di tunisini che le tengono la
figlia quando lavora. Una vita senza certezze, in cui l’oggi è una
battaglia il domani un enigma.
Daniele e Sabrina, anche loro con un figlio all'asilo, si trovano con un
mutuo da pagare nel bel mezzo di una ristrutturazione aziendale di cui
ignorano l'esito: licenziamento o riassunzione?
Daniele è un ingegnere.
Forse aveva maturato che il suo titolo di studio e la sua
professionalità lo avessero posto al riparo dai rovesci dell’economia e
della crisi.
Ma così non è stato e questo ha catapultato nel vortice dell’incertezza
tutta la famiglia.
La moglie si è trovata un impiego saltuario e lui si è trasformato in un
uomo di casa pronto però a rientrare in azienda appena se ne presentasse
l’occasione.
Lui sa che ha sempre fatto il suo dovere ma si accorge che questo non
basta.
Amaro il confronto con il padre che ammette di non poter aiutarlo più di
tanto.
Il padre desolato gli spiega che non capisce più questo mondo lui che ha
lavorato per 35 anni filati in una sola azienda.
C’era fiducia e voglia di fare ma ora? Il mondo del lavoro sta cambiando
troppo velocemente e i riferimenti anche di un passato prossimo non sono
più validi.
Un documentario interessante che mostra la vita dei precari, la loro
quotidianità e attraverso le immagini e le loro parole i loro
sentimenti.
Anche questo documentario può essere utile per integrare un lavoro sul
mercato del lavoro aggiungendo l’aspetto sociale e la sua ricaduta a
quello economico e legale
(4) Andrea Bajani, scrittore, ha pubblicato per Einaudi sul mondo del
lavoro: Cordiali saluti (2005), Se consideri le colpe (2007, Premio
Mondello, Premio Recanati, Premio Brancati, Premio Lo straniero), il
reportage sul lavoro precario Mi spezzo ma non m’impiego (2006) e Domani
niente scuola (2008). Per il teatro è coautore di Miserabili, Io e
Margaret Thathcer uno spettacolo di Marco Paolini.
(5) Barbara Ehrenreich è famosa per alcuni suoi scritti sul mondo del
lavoro negli Stati Uniti,
Mondo che descrive dall’interno assumendo (anche per alcuni mesi) i
panni dei lavoratori che vuole raccontare (similmente a quanto avviene
in una ricerca sociologica qualitativa basata sull’osservazione
partecipante).
La domanda a cui cerca di rispondere in uno di questi suoi lavori è la
seguente: come vive (o meglio non vive) chi fa le pulizie nelle case,
chi serve al bar, chi svuota i cassonetti e spazza le strade, chi stipa
di merci nottetempo gli scaffali dei supermercati, chi accudisce i
vecchi negli ospizi? In altre parole: di cosa è fatta la quotidiana
lotta per la sopravvivenza ai gradini più bassi della piramide sociale?
Domanda alla quale sembra facile rispondere ma alla quale, in realtà,
pochi sanno trovare una soluzione perché spesso, niente e più nascosto
di quanto sta sotto gli occhi di tutti. La sua indagine, un'indagine sul
campo anzi meglio sul posto di lavoro, in bilico tra giornalismo,
sociologia ed economia è stata realizzata, per la rivista Harper's. ed è
poi divenuta un libro edito in Italia da Feltrinelli con un titolo assai
significativo: Una paga da fame. Come (non) si arriva alla fine del mese
nel paese più ricco del mondo (Feltrinelli, 2002)
A questa indagine nel 2006 Barbara Ehrenreich ha
affiancato un’altra ricerca che ha portato alla pubblicazione
del libro:Bait and Switch. (Owl Books; New York, 2006).
Lo scopo di questo libro è dimostrare che nell’America di inizio
ventunesimo secolo il numero dei salariati che fanno fatica ad
arrivare a fine mese non fa che crescere e che quanti sono
coinvolti in questo fenomeno oggi non sono i lavoratori che
storicamente hanno occupato solo il fondo della scala sociale,
ovvero, negli Stati Uniti, gli immigrati, i neri, gli operai, o
i lavoratori con un basso tasso di scolarizzazione, ma sono
anche i lavoratori più istruiti che svolgono professioni di
carattere manageriale, Tra questi lavoratori una parte sempre
più grande è costituita da donne. |

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In breve, lo scopo di Bait and Switch (purtroppo non
ancora tradotto in Italiano) è rispondere ad una semplice domanda: che
ne è delle possibilità lavorative delle donne istruite nell’America
contemporanea?
Domanda che rimanda a sua volta a quella più generale: è vero l’assunto,
sostenuto da diversi economisti, secondo il quale l’economia
statunitense producendo ricchezza a tassi esponenziali arricchirà col
tempo anche i più poveri, “sfortunati”, “sfaticati” o anche “incapaci”
(i quali dovranno avere solo un po’ di pazienza per il loro riscatto)?
O a quella ancora più generale che si interroga sulla bontà della
economia di mercato.
E’ corretto sostenere, dati i risultati storici che l’economia di
mercato quanto più è libera, tanto più è in grado di produrre e
distribuire benessere crescente per tutti?
Domande alle quali non dovremmo (ne potremmo) sottrarci (anche in
classe) in un periodo come quello che stiamo vivendo non di espansione e
ricchezza ma di crisi che colpisce soprattutto i più poveri e i più
sfortunati e in cui molti assunti teorici non sembrano trovare una
validazione fattuale e storica.

Ripensare la FIAT a Melfi
Autore: Vincenzo Fortunato
Editore: Carocci
Anno: 2008 |
 |
A molti spesso piace visitare siti
archeologici, monumenti, chiese, musei.
Ad alcuni piace visitare luoghi più recenti
testimonianze del recente passato industriale
d’Italia.
Ad altri ancora piace visitare luoghi dove ancora si
produce, dove la materia si trasforma diventando
beni di uso comune.
A molti piace essere guidati in queste visite da una
guida esperta.
Con questo libro Vincenzo Fortunato ci offre,
proprio, la possibilità di entrare in una fabbrica
come osservatori.
Non in una fabbrica qualunque ma nello stabilimento
FIAT di Melfi.
Di fatto, la storia ci racconta che, fino a non
molto tempo fa, Melfi era solo la fertile terra
dell’Aglianico protetta dalla fierezza del Vulture.
Era la città dei Normanni, con il castello
federiciano particolare per l’irregolarità della sua
forma.
Era il covo strategico del re falconiere Federico II
di Svevia che, nel 1231, scelse proprio Melfi per
dettare e promulgare le sue "Constitutiones", una
raccolta di leggi elaborata dal giurista e scrittore
Pier delle Vigne.
Per troppo tempo confusa con Menfi, surclassata da
Castel del Monte per il suo castello federiciano più
funzionante e "regolare", oggi Melfi riesce a
recuperare una sua visibilità apparendo su qualche
libro o su qualche giornale grazie alla costruzione
in loco dell’ultimo stabilimento dell’impero Fiat,
il castello feudo eretto nella piana di San Nicola.
Uno stabilimento che secondo il progetto dei suoi
costruttori e di chi ne aveva pianificato
l’organizzazione del lavoro sarebbe dovuto diventare
una fabbrica modello: la fabbrica integrata.
Una fabbrica basata sul just in time e sulla pace
sociale.
A questa fabbrica e al suo start up, Fortunato,
dedicò, già in passato, una ricerca che fu
pubblicata da Rubbettino nel 2001: Il sindacato
snello. Relazioni sindacali, organizzazione del
lavoro e produzione snella: i casi Fiat di Melfi e
Rover di Swindon.
Da allora sono passati alcuni anni.
Ora l’azienda è cresciuta, l’organizzazione si è
parzialmente modificata e anche i rapporti tra
lavoratori e azienda si sono fatti meno idilliaci e
più conflittuali. (1)
In questa azienda Fortunato ci accompagna per farci
conoscere da vicino, come in un tour virtuale, la
sua reale organizzazione del lavoro.
Non quindi solo teoria ma come la teoria si sia
concretamente realizzata nella pratica.
Prima di iniziare il tour però Fortunato,
sapientemente, fornisce ai lettori un kit base di
notizie utili per comprendere meglio cosa significhi
organizzazione del lavoro e della produzione e come
essa si sia evoluta, almeno teoricamente, negli
anni.
Il primo capitolo, infatti, ricorda brevemente i
principali modelli teorici che si sono susseguiti
fino all’attuale WCM.
Taylorismo, fordismo, modello giapponese, fabbrica
integrata sono le forme organizzative che Fortunato
descrive rapidamente nel primo capitolo del suo
lavoro per avvicinare i visitatori al WCM.
Di fatto per Fortunato il WCM (a cui dedica il
secondo capitolo del suo lavoro) non sarebbe altro
che un altro nome per identificare la produzione
snella di derivazione toytista.
Superate le spiegazioni iniziali il portone dello
stabilimento si apre e si possono scorgere gli
operai e i tecnici che operano nella fabbrica.
L’autore non si limita però a mostrarli al
visitatore, a farne vedere il lavoro, i compiti e le
mansioni (soprattutto nel quarto capitolo) ma cerca
di dar loro una voce attraverso una serie di domande
proposte con dei questionari.
Come considerano i dipendenti di Melfi l’azienda ?
In questo momento fanno resistenza passiva rispetto
alla richiesta di partecipare al miglioramento
continuo del processo di lavoro. Non si identificano
con l’azienda, danno un consenso forzoso,
determinato più che altro dalla “collaborazione
forzata nei team e nelle Ute, dalle strategie di
gestione delle risorse umane, dalle nuove e più
sofisticate forme di controllo”.
L’entusiasmo iniziale di chi per la prima volta ha
varcato la soglia di un complesso così strutturato
ed organizzato, capace di dare lavoro in una regione
dove di fatto non esistono alternative, sta ora
scemando, mettendo in crisi quel rapporto
partecipativo necessario nel sistema organizzativo
applicato.
In questo senso è interessante notare quanto emerge
tra ciò che è percepito come importante dai
lavoratori e quanto lo è per l’azienda (p.96) .
Vi sono differenze assai rilevanti soprattutto, come
nota Fortunato, per quanto riguarda i temi
strategici della crescita professionale, della
partecipazione attiva e del coinvolgimento dei
lavoratori, della qualità, dei rapporti di lavoro.
Come si può notare si tratta proprio di quegli
aspetti che incidono profondamente sulla motivazione
degli individui e di conseguenza sul loro
rendimento, con conseguenze significative sulle
performance aziendali.
Gli operai di Melfi che incontriamo sono quindi
piuttosto demotivati e poco propensi a seguire le
indicazioni organizzative dell’azienda.
Se li interrogassimo troveremmo che circa un
cinquanta percento di loro ha ancora un
atteggiamento fiducioso verso l’azienda, mentre
l’altra metà affermerebbe di essere sfiduciata,
demotivata e indifferente (soprattutto tra chi ha
tra i 30 e i 40 anni) (pag. 105 -106).
Tuttavia sarebbe errato ritenere che il rapporto in
una fabbrica riguardi solamente e direttamente il
lavoratore e la direzione aziendale.
Questo per quanto attualmente, sempre in base ai
dati raccolti da Fortunato, il lavoratore di Melfi
sia un lavoratore che definisce pragmaticamente e
utilitaristicamente i propri obiettivi secondo un
ordine ben preciso che ha al suo vertice la
soddisfazione dei bisogni individuali di benessere e
sicurezza del sé e alle soddisfazioni in ambito
professionale (pag 91).
In fabbrica, infatti, accanto al lavoratore hanno
anche un loro spazio aggregati e gruppi che mediano
tra i singoli e la direzione aziendale: i sindacati.
Fortunato, come nel suo precedente scritto già
ricordato sul sindacato operante nella prima fase
dell’attività della fabbrica di Melfi , anche in
questo caso misura la qualità e quantità
dell’impegno sindacale nonché la soddisfazione dei
lavoratori per quanto realizzato (con particolare
riguardo alla FIM-CISL) .
Il quadro che viene delineato è per certi versi
contraddittorio. (Si veda soprattutto il sesto
capitolo)
Il sindacato, infatti, sembra ancora riconosciuto
importante dalla maggioranza dei lavoratori ma
sembra incapace di intercettarne umori e necessità.
La principale lotta su cui si concentra è quella
della difesa dei posti di lavoro tralasciando però
la richiesta di riconoscimento della professionalità
e di formazione proveniente da un numero sempre
crescente di lavoratori.
Soprattutto il sindacato si dibatte nel dubbio
amletico tra partecipazione e conflitto.
Quale la via migliore per confrontarsi con
l’azienda?
Il dilemma viene risolto in modo diverso dalle
diverse confederazione sindacali.
Semplificando: la FIOM- CGIL sembra propendere per
la via conflittuale mentre la FIM - CISL sembra
adottare un sistema maggiormente partecipativo che
sarebbe di fatto, secondo Fortunato, quello
preferito dai lavoratori.
Dopo questo excursus sul sindacato al visita di
conclude e i portoni della fabbrica si chiudono alle
spalle del visitatore – lettore.
Siamo così giunti al momento dei commenti.
Il libro risulta essere estremamente interessante
per la mole dei dati raccolti e per la chiarezza
delle tabelle riassuntive presentate.
Dati che possono essere utilizzati per verificare
concretamente una situazione determinata ma che non
possono, a mio parere, essere generalizzati per
l’assenza di ogni altro riferimento a stabilimenti
che adottano una simile organizzazione del lavoro.
Un approfondito studio di un caso, che consente di
trarre delle ipotesi, da verificare con altri casi,
sia sul rapporto lavoratore – azienda, sia sulla
salute (malferma) del sindacato.
Un'unica annotazione.
Il libro, proprio per l’argomento trattato, risulta
non essere di facile lettura ed è consigliabile
soprattutto per chi ha già qualche conoscenza in
materia.
Libro, dunque, più di approfondimento organizzativo
e di verifica della bontà dei nuovi modelli
organizzativi che d’introduzione alla materia
trattata.
Libro utile a chi si occupa di sindacato e che cerca
dati per verificare il suo stato di salute e le
aspettative che possono ancora avere i lavoratori.
(2)
Maurizio Canauz
Febbraio 2010
NOTE
(1) Mi riferisco ad alcune condizioni imposte da
FIAT e che penalizzano i lavoratori quali:
l’introduzione delle gabbie salariali, attraverso
l’escamotage della differente denominazione (Sata),
la deroga al divieto del lavoro notturno per le
donne, con la truffa della "partecipazione operaia"
alle decisioni aziendali.
(2) In particolare emerge con forza la domanda di
crescita professionale, di formazione e di qualità
dei rapporti di lavoro che non sempre risulta essere
recepita dall’azienda ma neppure dal sindacato
concentrato per lo più sulla contrattazione
salariale o sulla difesa, pur estremamente
importante, dei diritti acquisiti dai lavoratori..

Il lavoro non è una merce
Autore: Gallino Luciano
Editore: Laterza
Anno: 2008 |
 |
Ogni epoca ha dei cantori.
Cantori di gesta eroiche, cantori di disgrazie
individuali o collettive, cantori di lotte o guerre.
Non so, se uno studioso di chiara fama come il
Professor Gallino (1) può essere ascritto in questa
categoria ma è indubitabile, come ben dimostrano i
suoi scritti, che sia una cantore della anti -
flessibilità del lavoro e delle dolenze che, a suo
parere, questa pratica arreca all’umanità.
Il libro che mi propongo qui di recensire rientra
perfettamente tra quelli che cercano di affrontare,
a tutto tondo, questa tematica.
Anzi come qualcuno ha scritto: “il testo rappresenta
una sorta di ricapitolazione di quanto Gallino è
andato scrivendo nel corso di questi anni, in libri,
articoli e conferenze, sulle tematiche
occupazionali, che rappresentano da sempre una delle
sue maggiori preoccupazioni di studioso e, credo di
poter dire, anche di cittadino cresciuto ad una
scuola importante come quella di Adriano Olivetti,
che aveva ben chiaro come la disoccupazione
involontaria fosse una delle massime disgrazie che
può capitare ad un essere umano.” (Lorenzo Gaiani)
Non servono molti dati per notare come l’instabilità
del lavoro stia diventando ormai una caratteristica
del sistema produttivo della società capitalistica.
L’Italia inserita nel contesto Europa e più in
generale nel mondo globale non può (o non vuole)
sfuggire da questa logica.
Il risultato?
E’ presto detto.
Circa 8 milioni: sono gli italiani che hanno un
lavoro instabile.
Tra 5 e 6 milioni sono precari per legge, ossia
lavorano con uno dei tanti contratti atipici che
l'immaginazione del legislatore ha concepito negli
ultimi quindici anni
A questi vanno poi aggiunti i lavoratori del
sommerso.
Spesso i numeri, soprattutto i grandi numeri, non
suscitano nell’ascoltatore o nel lettore la dovuta
attenzione, né le giuste emozioni.
Si tende spesso a catalogare il dato senza
soffermarsi sulla sua reale implicazione sociale,
sul suo vero significato concreto.
Tredici milioni di italiani, almeno insicuri
alzandosi la mattina di avere ancora a sera il
proprio lavoro.
Ma come si è arrivati a queste cifre?
Soprattutto perché le imprese hanno chiesto (o
imposto) la flessibilità del lavoro in misura sempre
crescente, quasi fosse la panacea per tutte le loro
difficoltà organizzative, produttive e commerciali.
Secondo Gallino, alla base di tutto, c’è l’idea
della possibilità di pianificare l’utilizzo del
lavoro umano come quello delle altre voci del
bilancio d’azienda, di fatto riducendolo a merce
(che è esattamente quanto i testi internazionali e
quelli nazionali, a partire dalla Costituzione
repubblicana, raccomandano di non fare), ampliandone
la domanda nei momenti in cui cresce la domanda del
prodotto finito e diminuendola nel momento in cui la
domanda decresce.
In particolare Confindustria (e i rappresentanti
politici ad essa collegati), ha da molti anni
espresso la convinzione che l'unica spinta al
perseguimento di un obiettivo di modernità possa
concretizzarsi nell'avere la mano libera sui
rapporti di lavoro.
Poco importa quali siano le ricadute che le scelte
legislative (vedi le leggi 196/1997, 30/2003,
276/2003) hanno sui lavoratori ed in generale sulla
società intera.
In realtà su queste ricadute il dibattito è ancora
aperto.
Secondo alcuni la flessibilità avrebbe portato a un
incremento di posti di lavoro.
Come si suol dire: tra nulla e qualcosa è sempre
meglio qualcosa.
Parafrasando: non sapere se e per quanto manterrò il
posto di lavoro è sempre meglio che sapere con
certezza di non averlo.
Più persone sarebbero, grazie alla flessibilità,
entrate nel mondo del lavoro.
Tuttavia Gallino non ne sembra convinto.
Gallino afferma, infatti nel suo scritto, che è del
tutto inadeguato il sistema statistico utilizzato,
che identifica come lavoratore occupato quel
lavoratore che nella settimana di riferimento per
l'indagine ha lavorato almeno un'ora.
E' del tutto evidente per il sociologo torinese che,
anche se l'indagine è scientificamente corretta e
verificata, una impostazione di questo tipo di
parametro come discriminante per identificare un
lavoratore occupato da un lavoratore disoccupato non
può in alcun modo essere rappresentativa dei modelli
sociali del nostro paese, perché è naturale che un
lavoratore che soddisfi quella caratteristica non
può in alcun modo ritenersi occupato
Quindi è incerto se la flessibilità ha
quantitativamente migliorato la condizione dei
lavoratori.
Ma è certo, secondo Gallino che l’abbia peggiorata
da un punto di vista qualitativo. limitandone la
progettualità di vita e la possibilità di
pianificarsi un futuro relativamente certo.
Tra l’altro Gallino sottolinea l'aspetto psicologico
legato alla precarietà del lavoro.
In base a diversi studi, editati anche recentemente,
i bambini cresciuti all'interno di famiglie con
genitori precari mostrerebbero assai più facilmente
disturbi comportamentali che andrebbero dalla resa
incondizionata alla rivolta senza motivo.
Comportamenti questi che possono essere ricondotti
allo status dei genitori, manifestandosi assai più
di rado nei bambini che vivono in famiglie i cui
genitori non sono soggetti alla flessibilità
lavorativa.
Peraltro è inevitabile che persone che come prima
attività hanno quella di cercare un posto di lavoro
costantemente non siano nelle condizioni di
sviluppare la loro presenza autonoma nella società
costruendosi una famiglia, oppure decidendo di
uscire dal nucleo familiare d'origine.
Gallino non si sofferma, tuttavia, su una
riflessione solo generale sulla flessibilità o
sull’impatto sociale da essa generata (pur tenendo
conto da scienziato sociale qual è che l’aspetto
economico, quello politico e quello sociologico dei
fenomeni sociali di vasta portata sono
necessariamente interconnessi, e solo prendendo atto
di tale interconnessione è possibile affrontarli) ma
cerca di addentrarsi più specificatamente nella sua
analisi.
In questo senso cerca di definirne il concetto.
Riprendendo pensieri e riflessioni già note, ad
esempio, afferma che sarebbe un errore considerare
la flessibilità come un concetto unico.
Gallino ritiene, infatti, che sotto la stesso
termine posano essere ricondotti due distinti
fenomeni: la flessibilità dell'occupazione e la
flessibilità della prestazione.
Nel primo con flessibilità si intende la possibilità
per una azienda di aumentare o diminuire a
piacimento la forza lavoro a seconda delle proprie
esigenze tecniche ed organizzative.
Per fare questo l'azienda deve avere la massima
libertà di azione nel procedere ai licenziamenti a
seconda della propria necessità del momento. E' la
legislazione del lavoro che negli ultimi anni è
stata piegata per dare risposte adeguate a queste
esigenze aziendali, sapendo che questo tipo di
flessibilità è certamente quella più appariscente e
che ha suscitato maggior interesse anche da parte di
economisti ed opinionisti; non a caso è
principalmente su questa che Gallino sviluppa le sue
considerazioni.
La seconda flessibilità, invece, consente
all'azienda di agire con la massima libertà sulle
distribuzioni orarie dell'attività lavorativa,
aumentando il monte ore nel periodo di picco
lavorativo e diminuendolo conseguentemente nel
momento in cui l'attività rallenta; in questo tipo
di flessibilità si ragiona delle e sulle norme
inserite nei contratti nazionali di lavoro che
possono definire modalità di orario differenti a
seconda della categoria e del settore in cui si
lavora.
Tuttavia sarebbe limitante per l’autore rinchiudere
la flessibilità all’interno (angusto?) dell’azienda.
La flessibilità avrebbe, infatti, in entrambi le
accezioni sopra ricordate un collegamento con la
globalizzazione.
Gallino stravolge però i soliti termini del rapporto
tra flessibilità e globalizzazione.
Solitamente, infatti, si ritiene che esistendo un
processo mondiale denominato globalizzazione, questo
abbia automaticamente comportato l'ampio utilizzo
nelle organizzazioni aziendali della flessibilità,
mentre per Gallino la globalizzazione è derivata
dalla flessibilità che le imprese hanno applicato
nei processi produttivi.
Proprio il ricorso esasperato alla flessibilità
diventato un mito, un totem a cui ispirarsi e da
perseguire con ogni forza ha portato alla
destrutturazione dell'azienda e la creazione di un
sistema aziendale reticolare con unità produttive
piccole ed autonome.
Unità produttive facili da delocalizzate dove il
costo del lavoro è più basso o la conflittualità dei
lavoratori è meno sviluppata.
Le aziende possono così produrre in nuovi spazi
rompendo ogni legame con il territorio e ponendo ai
lavoratori condizioni di precarietà spesso superiori
a quelle strettamente necessarie avendo come fine
ultimo e unico il profitto.
Ciò non fa altro che peggiorare le condizioni di
lavoro e di sicurezza e soprattutto torna a porre al
centro il problema di considerare e definire il
lavoro.
Riecheggiano così le parole poste a titolo dello
scritto oggetto di recensione che rientrano nella
dichiarazione sugli scopi e sugli obiettivi
dell'organizzazione stessa e sui principi che devono
ispirare l'azione degli Stati che ne fanno parte
approvata a Filadelfia il 10 maggio 1944
dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL).
All'articolo 1 del testo emanato in quella sede
trova, infatti, spazio un principio basilare secondo
cui "il lavoro non è una merce".
Gallino sceglie quelle parole non tanto e non solo
per ribadirle (e ribadire il concetto da esso
espresso) ma per sottolineare come la società (nella
sua interezza) si stia allontanando da esse.
Logicamente Gallino sa che non basta che un singolo
Stato operi in modo virtuoso per limitare i danni
della flessibilità.
I “giochi” non si fanno più (o quasi più) a livello
nazionale ma a livello sopranazionale.
Di conseguenza se la flessibilità è strettamente
legata alla globalizzazione è evidente che le norme
e le tutele dei lavoratori debbano scaturire da
azioni coordinate a livello internazionale.
Tuttavia perché ci sia attenzione al problema è
necessario che vi sia una forte sensibilizzazione,
anche a livello locale, affinché certe posizioni
teoriche di economisti, ed opinionisti vengano messe
in discussione nell’interesse dell’uomo e della sua
qualità di vita.
A che serve produrre sempre di più se pochi soltanto
possono godere della aumentata produzione e per gli
altri non c’è certezza neppure del domani?
Al lettore la risposta.
Maurizio Canauz
Dicembre 2009
NOTE
(1) Luciano Gallino è professore emerito di
Sociologia all'Università di Torino. Ha pubblicato,
tra l'altro, Se tre milioni vi sembran pochi
(Torino, 1998), L'impresa responsabile.
Un'intervista su Adriano Olivetti (Torino, 2001), La
scomparsa dell'Italia industriale (Torino 2003),
Dizionario di Sociologia (Torino 2004), L'impresa
irresponsabile (Torino, 2005) e Tecnologia e
democrazia (Torino 2007).
Per Laterza; Disuguaglianze ed equità in Europa
(1993), Il costo umano della flessibilità (2005),
Globalizzazione e disuguaglianze (2007) e Italia in
frantumi (2007).

IL VOTO NEL PORTAFOGLIO
di Leonardo Becchetti (con Monica Di Sisto e Alberto Zuratti)
Il Margine, Trento 2008 |
 |
Chi avesse letto il libro di Luigino
Bruni recensito in questo spazio e lo avesse trovato
interessante e piacevole non dovrebbe negarsi la
lettura di questo scritto realizzato da Leonardo
Becchetti, professore ordinario di Economia Politica
presso la Facoltà di Economia dell’Università Tor
Vergata nonché Presidente del Comitato etico di
Banca Etica, in collaborazione con i giornalisti ed
esperti di commercio equo – solidale Monica Di
Siesto e Alberto Zoratti.
Nel libro si ritrova, infatti, la stessa atmosfera,
la stessa voglia di modificare “gentilmente”, senza
prevaricazioni, il sistema economico e forse lo
stesso concetto di Economia già presente in Bruni.
Una rivoluzione in punta di piedi per consentire al
mondo e alla sua popolazione di essere più felice e
di vivere oltre la soglia della povertà.
Tuttavia, come si sa, ogni rivoluzione anche la più
soft porta con sé, purtroppo, delle vittime.
Qualcuno rimane sempre esangue sul terreno con gli
occhi sbarrati e lo sguardo livido.
In questo caso, nella rivoluzione di Becchetti, chi
per primo soccombe è l’Homo Oeconomicus.
Scrive a tale proposito Becchetti: «La riduzione
antropologica è semplice: nella scienza economica è
invalso un modo di vedere la persona come soggetto
che massimizza il proprio interesse individuale.
L’unico movente dell’azione umana sarebbe quello
dell’autointeresse.
Di fronte a questa visione già Amarthya Sen in un
famoso articolo ha definito l’Homo oeconomicus un
“folle razionale” (rational fool) osservando come,
oltre all’autointeresse esistano altri due moventi
nell’agire della persona che sono la simpaty (cioè
la passione per l’altro) e il committment (il dovere
morale).»
La visione razionalistica, secondo Becchetti, non
sarebbe infatti capace di spiegare alcune delle
azioni che compiamo tutti i giorni e che attuiamo
non per nostro autointeresse (come ad esempio la
beneficenza a favore di persone che non conosciamo).
Becchetti non si accontenta anzi…
Dopo aver eliminato l’Homo Oeconomicus posto a
guardia della cittadella dell’economia classica, la
Camelot economica dove, intorno alla Tavola Rotonda,
siedono i cavalieri del liberalismo, inizia a
vacillare.
Un leggero tremito, quasi impercettibile per i sensi
umani, ne mina le fondamenta e ne sgretola alcuni
palazzi.
Ma non c’è tempo per rimpianti o nostalgie.
Nuove costruzioni sorgono dal nulla (o quasi).
Palazzi che si chiamano: imprese socialmente
responsabili, il microcredito, la banca etica, i
fondi etici…
Becchetti si sforza di mostrare, allora, la
suggestione e la bellezza di alcune di queste
esperienze.
Esperienze concrete, storicamente visibili, che
possono mostrare la portata “rivoluzionaria” e la
potenzialità di queste istituzioni per rendere il
mondo migliore (o comunque più vivibile).
Ecco allora le pagine che descrivono la storia del
MAG (Società Mutua per l’Autogestione) nata a Verona
come supporto, amministrativo, fiscale, legale ai
lavoratori della SELEGRAF e poi diventata il primo
caso italiano di finanza etica (pag. 128) o quella
di Muhammed Yunus “capostipite della banca del
microcredito” economista insignito del premio Nobel
nel 2006 per la sua intuizione.
«Yunus sceglie di prestare denaro a persone senza
garanzie collaterali. Fino a quel momento la banca
aveva dimostrato di poter fare prestiti solo a chi
avesse garanzie ulteriori, pari o superiori agli
importi chiesti in prestito. Non riusciva, cioè, a
realizzare fino in fondo la sua missione: far
incontrare le persone che avevano idee produttive
con quelle che avevano i soldi per realizzarle.
Yunus avanza per tentativi, incoraggiato a
proseguire quando con soli 27 dollari statunitensi
prestati a un gruppo di donne del villaggio di Jobra
(vicino all'Università di Chittagong) che
producevano mobili in bambù riesce a liberarle dal
circolo vizioso che le vedeva costrette a vendere i
prodotti a coloro dai quali avevano preso in
prestito le materie prime a un prezzo da essi
stabilito.
Tale tipo di transazione riduceva drasticamente il
margine di guadagno di queste donne e le condannava
di fatto alla povertà. D'altra parte, le banche
tradizionali non erano interessate al finanziamento
di progetti tanto piccoli che offrivano basse
possibilità di profitto a fronte di rischi elevati.
Soprattutto non avevano alcuna intenzione di
concedere prestiti a donne, tanto più se non
potevano offrire garanzie.
«Yunus e i suoi collaboratori cominciano a battere a
piedi centinaia di villaggi del poverissimo Banesh,
concedendo in prestito pochi dollari alle unità,
somme minime che servivano per attuare iniziative
imprenditoriali.
Tale intervento avvia un circolo virtuoso, con
ricadute sull’emancipazione femminile perché sceglie
di far leva sulle donne affinché fondino cooperative
che coinvolgano ampi stati della popolazione.
Yunus si lancia in questa avventura e riesce a
costruire una banca la Grameen Bank che oggi vanta
oltre 400 mila dipendenti ed è considerata la terza
banca del Paese perché serve più di tre milioni di
clienti» (pag.115).
Esperienze quelle descritte da Becchetti sicuramente
molto intriganti, gratificanti e suggestive che
hanno il compito di mostrare al lettore
tangibilmente, soprattutto se avvezzo di economia,
la bontà e la fattibilità di questa “nuova
economia”.
Ma Becchetti non si accontenta.
Se la suggestione non basta a convincere il lettore
ecco allora ritornare alle “armi pesanti”.
L’arma definitiva ha il nome di James Tobin.
Scrive Becchetti: «Nel mondo di chi è più impegnato
nel sociale c’è un forte pregiudizio nei confronti
della finanza .» (p.146)
«L'ostilità di oggi nei confronti della finanza
dipende dal fatto che essa gestisce quantità enormi
di soldi per attività che hanno nei fatti utilità
sociali molto basse.
Il vero scandalo, insomma, è che a metà 2008 il
valore nazionale della finanza derivata era 48 volte
il Pil mondiale, mentre per concedere un prestito di
microfinanza o per finanziare un'adozione a distanza
possono bastare poche centinaia o migliaia di euro.
O, detto in altro modo, considerate le ingenti somme
in gioco, l'efficienza sociale delle stesse è
veramente bassa.
Per questo è stata avanzata da molte parti !'idea
della Tobin Tax, con l'obiettivo cioè di indirizzare
una parte di questi flussi finanziari verso
iniziative di una qualche utilità più generale, come
la cooperazione allo sviluppo o lo stato sociale.»
(p.146)
Di fatto più la situazione economico – finanziaria
mondiale è difficile, più ipotesi come quella
avanzata da Tobin e riproposta nel libro oggetto di
recensione, trova vigore.
Anche per questo oggi il pensiero di Tobin ha una
grande eco nel mondo moderno.
E proprio ispirandosi a quanto ipotizzato da Tobin
alcune esperienze sono state pensate o realizzate da
gruppi di studio ed istituzioni economiche, anche se
non mancano resistenze a livello mondiale che
producono per Becchetti, e non solo per lui (in
questo senso anche Jena Zigler - p.152), effetti
assai negativi per le popolazioni in via di
sviluppo.
Resistenze che appaiono evidenti anche in contesti
ufficiali come, ad esempio, la Conferenza di Roma
della FAO del maggio del 2008 in cui gli interessi
dei forti, a parere dell’autore, limitano ogni
importante intervento economico e sociale a favore
dei più deboli.
Personalmente da buon scettico (dando al termine il
significato filosofico originario derivante da
skeptikòs e cioè colui che osserva e non quello
derivato nel linguaggio comune di incredulo e
diffidente) preferisco sospendere ogni giudizio.
Compito di chi recensisce è, soprattutto, quello di
incuriosire il lettore se il libro lo merita e di
suggerire possibili percorsi di lettura non
necessariamente quello di esprimere giudizi
personali spesso legati alla propria esperienza e ai
propri saperi sulla bontà o realizzabilità delle
tesi proposte.
Difficile risulta, ad esempio, valutare la
realizzabilità di queste teorie (o meglio di questo
approccio) al di fuori di “oasi” protette .
Difficile, se non proprio difficilissimo, ipotizzare
un comportamento altruistico del consumatore
soprattutto in un periodi di crisi come quello
attuale.
Possiamo essere certi o comunque ragionevolmente
sicuri, liberandoci da ogni ipocrisia o “buonismo”,
che la maggior parte dei consumatori acquisti (o
acquisterebbero) un bene non solo per il suo prezzo
ma anche (se non soprattutto) per la sua qualità
ambientale e sociale (su come è stato prodotto e in
che modo) orientando la propria scelta verso quelle
aziende all’avanguardia in tema di sostenibilità?
Questa domanda mi consente di giungere a quello che
a mio giudizio è l’aspetto più critico dello scritto
qui recensito.
Becchetti insiste sul concetto di economia etica e
di imprenditori etici.
Ma cosa si intende per etico?
Quando un comportamento può considerarsi etico?
Su questo tema l’autore non mi sembra si soffermi
adeguatamente.
Forse lo dà per scontato, forse dichiarandosi
contrario ad ogni eccessiva specializzazione dei
saperi che impedisce analisi complete (pag. 17 e
ss.) ritiene sia inutile dilungarsi in disquisizioni
filosofiche.
Scrive a tale proposito Becchetti contro la
specializzazione eccessiva dei saperi: «La reciproca
incomunicabilità tra saperi nasce dal fatto che la
vecchia sapienza rinascimentale, nella quale si era
esperti un po' di tutto, è saltata con quel «Big
bang» che Luhmann ha definito «specializzazione
funzionale», e che ha prodotto ai nostri giorni una
situazione non dissimile da quella della Torre di
Babele: ciascuno parla una lingua che gli altri non
capiscono.
Mentre la specializzazione è ottima quando si vanno
ad analizzare singoli problemi, studiando nel
dettaglio le caratteristiche di alcuni frammenti
della realtà, non funziona quando si devono trovare
ricette di politiche generali che, al contrario,
presuppongono elementi di conoscenza complessiva».
(p. 17)
Tale limite alla specializzazione dei saperi non è
nuova ma, ad esempio, era già stata postulata in
Italia da Emanuele Severino il quale non si limita
solo a sottolineare e criticare la incomunicabilità
tra i saperi ma tende a sottolineare come in una
società fondata sul pensiero debole, la tecnica (e
quindi in un certo senso anche la ricerca e
l’innovazione) sia «destinata a diventare il
principio regolatore di ogni materia, la volontà che
regola ogni altra volontà».
La tecnica (specialistica) non ha scopi
trascendentali o escludenti ed una sua concretezza,
poiché è forma della produzione reale.
E’ azione che non ha altro scopo della sua
realizzazione e della sua crescita di potenza.
Essa diviene pertanto autoreferenziale e non ha di
fatto nessun interesse a risolvere problemi generali
ma solo a preserrvare se stessa.
Non opera più per risolvere i problemi ma ne crea
sempre di nuovi per poterli risolvere e accrescere
la sua potenza.
Perciò la ricerca, per evitare di divenire fine
ultimo, deve sempre ricordare quel è la sua missione
iniziale, il suo scopo precipuo e cioè il benessere
dell’uomo e avere ben presenti i valori che la
promuovono e per questo deve (dovrebbe) accettare
senze reticenze la contaminazione anche con altri
saperi.
Tuttavia Becchetti non sembra, di fatto, adoperarsi
in questo scritto per indicare un possibile percorso
per recuperare l’unitarietà del sapere per il bene
comune.
Liquida, infatti, la riflessione filosofica e
soprattutto quella etico - morale in poche frasi,
giungendo a considera l’etica, forse un po’
provocatoriamente, un prodotto che può essere
comprato e venduto
Scrive a tale proposito: «La provocazione che emerge
con forza da queste poche pagine è legata alla vera,
grande novità del sistema economico di questi ultimi
anni. A portata di carrello tutti noi abbiamo a
disposizione un nuovo “prodotto” possiamo comprare e
vendere l’etica.»
Senza dilungarmi vorrei solo ricordare che
l’eccessiva semplificazione spesso conduce a vicoli
ciechi.
Due sole osservazioni.
Parlare di etica (di valori) di giudizio morale apre
scenari complessi.
A quale etica si riferisce l’autore?
Di etiche diverse e contrapposte ve ne sono molte.
Personalmente una contrapposizione forte e utile per
gli argomenti trattati nello scritto qui recensito
penso sia quella tra l'etica che ruota intorno ai
principi e quella che, al contrario, tiene conto
delle conseguenze dell' azione.
Si tratta di una distinzione che è centrale, ad
esempio, nella riflessione di Max Weber, che se ne è
valso non tanto per distinguere due tipi diversi di
etica quanto piuttosto per richiamare l'attenzione
su due piani diversi della vita etica: quello
proprio dello studioso di etica che fa appunto
appello alla rilevanza dei principi (wert – rational)
e quello di chi, come il politico o chi sia comunque
impegnato in una dimensione tecnico-pratica e dunque
l’economista invece, movendosi nel quadro di
un'etica della responsabilità, deve badare
principalmente alle conseguenze dei diversi corsi di
azione in cui si impegna (zweck –rational).
Dietro queste due diverse strategie si cela un
diverso modo di considerare il rapporto mezzi - fini
nella vita pratica (e che tanto interessa l’azione
dell’homo hoeconomicus).
Le distinzioni potrebbero poi continuare.
Sono state presentate concezioni deontologiche
dell'etica diversamente strutturate. Avremo così
diversi tipi di etiche dei principi a seconda che
pongano al loro centro uno o più principi, e a
seconda che concepiscano tali principi o come
assoluti e aprioristici o come ricavati
dall'esperienza e in generale rivedibili.
È così chiaro che l'etica kantiana si presenta come
un' etica deontologica che ruota intorno a un solo
principio di fondo, assoluto e a priori, dato
dall'imperativo categorico, e le diverse
formulazioni offerte, dell'imperativo categorico,
non presentano in realtà principi diversi.
Nel caso di alcune etiche del comando divino (come
ad esempio l'etica cristiana o cattolica) vi è
invece una tendenza a presentare come costitutivi
della vita morale diversi principi tutti assoluti (i
vari comandamenti divini o le norme che
costituiscono la legge naturale).
Becchetti avrebbe dovuto, pertanto, fare chiarezza
su quale sia la concezione etica presa a riferimento
nel suo scritto.
Avrebbe dovuto inoltre, e questa è la seconda
osservazione, soffermarsi maggiormente su come
intende coniugare economia e filosofia laddove la
seconda, come, scrive Aldo Masullo, si fonda su un
“atteggiamento teoretico” non inerente ad alcuno
scopo pratico naturale ossia non utilitaristicamente
finalizzato anzi fondato sulla sospensione (epoché)
volontaria di qualsiasi prassi al servizio della
dimensione naturale.
Riflessione solamente teorica per per la filosofia,
teorica ma anche pratica per l’economia.
Linguaggi diversi da armonizzare con riflessioni
epistemologiche e approfondimenti dottrinali e non
con una “battuta”.
Forse sono andato troppo oltre.
In conclusione si tratta di un libro interessante,
pur presentando alcuni limiti che ho cercato di
evidenziare, che permette di conoscere mrglio un
nuovo approccio e un nuovo modo di interpretare
l’economia tentando di trasformarla in un sapere più
vicino alle vere necessità dell’uomo e al
miglioramento della sua qualità di vita.
Maurizio Canauz
Settembre 2009

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LA FERITA DELL’ALTRO
Luigino Bruni
Il Margine, Trento 2007
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Luigino Bruni
(1), per chi ha avuto la fortuna di incontrarlo, risulta
essere una persona estremamente gentile e appassionata del
suo lavoro e delle sue idee.
In un
mondo dove essere fingitori e opportunisti pare essere la
regola Bruni sembra, al contrario, voler testimoniare le sue
idee (e perché no, i suoi valori e la sua fede) sia
attraverso la sua attività di docente universitario, sia
attraverso una costante e incessante attività di
conferenziere sia, infine, per mezzo di una prolifica
attività di scrittore e saggista.
Tra le sue ultime
fatiche voglio qui soffermarmi su
La ferita dell’altro
(ll Margine, pagine 212, euro 14).
Prima di tutto un’avvertenza.
Chi si accosta a uno scritto come questo deve liberarsi da
ogni rigido schematismo per seguire l’autore lasciandosi
trasportare dalla corrente lungo il tragitto, a volte
ripido, del suo ragionamento.
Il viaggio inizia da una considerazione:
l’Altro (il prossimo) esiste ed è necessario al mio vivere
(al mio essere), ma necessariamente è un limite alla mia
volontà di possedere.
Non
posso raggiungere la pienezza, la realizzazione di me se non
entro in contatto con l’Altro ma questo contatto può essere
foriero di dolore.
In
una sua intervista Bruni afferma a tale proposito:
«Ho
preso spunto
(per la realizzazione del libro N.d.R.) dall’immagine
dello scontro tra l’Angelo e Giacobbe, nel libro della
Genesi. Giacobbe combatte con l’Angelo, e viene ferito. Ma
al tempo stesso chiede la benedizione al messaggero di Dio.
Cosa significa per noi oggi? Che le relazioni umane sono
dolore e benedizione allo stesso tempo. Cosa accade invece
nella modernità? Vediamo che l’economia di mercato vorrebbe
essere una promessa dove c’è solo la benedizione, senza la
ferita. E invece il mercato sempre di più ci impedisce di
entrare in contatto con l’altro. Con l’impresa burocratica,
con le nuove tecnologie, non siamo più accanto
all’altro:
non ci facciamo male, non entriamo mai in uno scontro
diretto. Ma così non riceviamo nessuna benedizione»
(2).
Riecheggia qui,
in forma laica, il concetto aristotelico per il quale
nessun individuo può bastare a se stesso, ciascun individuo
ha bisogno degli altri per sopravvivere e per essere felice.
Un concetto
caro a Bruni che lo aveva già ampiamente espresso nel suo:
L' economia la felicità e gli altri. Un'indagine su beni e
benessere
(Città
Nuova, 2004).
Un concetto in apparenza quasi ovvio (così anche Zamagni
nella sua recensione apparsa sull’Avvenire (3)) ma che in
realtà non sempre e non da tutti viene sostenuto con lo
stesso convincimento e che spesso noi stessi rifiutiamo nel
nostro vivere quando pensiamo che la solitudine o i soli
rapporti formali siano spesso meglio di un eccessivo
coinvolgimento con coloro con i quali veniamo in contatto,
sia nei nostri rapporti familiari e domestici sia
soprattutto, in quelli lavorativi ed economici.
Anche da un punto di vista ideale, inoltre, non mancano e
non sono mancati, pensatori che considerano l’uomo se non
proprio anti-sociale almeno a-sociale, costretto a vivere
con gli altri di cui però diffida (penso in particolare ad
Hobbes ma anche per certi versi a Rousseau e a Nietzsche).
Lo stresso Bruni deve tuttavia ammettere, come ho in
precedenza ricordato, che l’Altro non è solo benedizione ma
è anche (o può essere anche) dolore e sofferenza.
Analizzando più da vicino
il
rapporto tra due (o più) soggetti Bruni sottolinea che esso
può assumere diverse forme.
Esso può essere, infatti, di reciproca disponibilità, cioè
di reciproco riconoscimento della singolarità personale,
oppure di reciproca sfida (o minaccia).
Logicamente le conseguenze saranno diverse a seconda del
modello di relazioni interpersonali che prevale.
Fino a questo punto il percorso ci tiene discosti
dall’ambito economico.
Ma
come in una commedia che prepara nel primo atto quanto
avverrà nel secondo, Bruni prepara i concetti che dovrà
utilizzare nel momento in cui deve affrontare l’aspetto
economico, vero obiettivo del suo scritto.
A
questo punto l’azzardo si fa più forte (fa quasi “scandalo”
se si usa il termine nel senso del Vangelo).
Bruni cerca, infatti, di trasporre la dualità
sofferenza-benedizione all’ambito propriamente economico.
Per
farlo parte da una considerazione.
ll
mercato, così come pensato da Adam Smith, ha fallito e sta
fallendo sotto vari aspetti.
Tale fallimento, secondo Bruni, è da imputarsi sia ad alcuni
aspetti teorici presenti nella concezione smithiana sia
perché operativamente non è stato in grado di rispondere in
modo soddisfacente alle necessità di benessere economico e
di giustizia sociale espresse dalla società contemporanea.
Per
quanto riguarda Smith il suo errore nasce dal convincimento
secondo il quale il mercato sia l’unico luogo dove l’uomo
può incontrare l’altro in modo anonimo e in una situazione
di parità.
Scrive Bruni:
«In
sintesi, Smith ricorre alla mediazione del mercato (e in
certo senso la inventa, quantomeno teoricamente) perché, a
suo dire, la relazione non mediata è sinonimo di relazione
incivile, feudale, asimmetrica e verticale. L'altro mi
ferisce perché è un potente o un padrone che mi domina,
perché non combatte alla pari con me. Il mercato, quindi,
consente di evitare questa relazione immediata incivile e di
costruirne una umanamente più alta. Quando il mendicante
riesce a entrare nel negozio del macellaio con del denaro in
mano, quando cioè riesce a scambiare alla pari con il
venditore, quella relazione - proprio perché mediata dal
mercato - è per Smith più umana rispetto alla relazione di
dipendenza propria del mondo senza mercati.
Smith non nega, evidentemente, che nella vita privata ci
possa essere una relazionalità immediata faccia a faccia, ma
solo nella sfera privata appunto, nella famiglia e nelle
ristretta cerchia di amici. Nella vita civile, mercato
incluso (solo da questo punto di vista il mercato è, per
Smith, civil society), è bene incontrarsi in modo anonimo
perché l'altro con un volto non è un "fratello" come me, ma
un superiore (o un inferiore).»
(p.43)
A
questo andrebbe poi aggiunto, secondo Bruni, un secondo
aspetto erroneo nella concezione del mercato e delle
relazioni tra uomini presente nel pensiero di Smith.
«Nella sua
Theory of moral sentiments, Smith ci ricorda che: «La
beneficenza è meno essenziale della giustizia per
l'esistenza della società. La società può sussistere,
sebbene non nel modo migliore, senza beneficenza; ma la
prevalenza dell'ingiustizia la distrugge senz'altro». […]
Una tesi importante e apparentemente condivisibile, in
realtà, in essa si nasconde un'insidia, rappresentata
dall'idea che la società civile possa funzionare e
svilupparsi anche senza gratuità (che può essere vista come
un sinonimo di beneficence), ovvero che il
contratto possa essere un buon sostituto del dono: una
tesi, questa, che guadagna sempre più consenso oggi nella
società globalizzata. Il dono e l'amicizia sono faccende
importanti nella sfera privata, si dice, ma nel mercato e
nella vita civile possiamo farne tranquillamente a
meno;anzi, è bene farne a meno, proprio per la loro carica
di dolore e di ferita, come abbiamo visto.» (pag.44)
Ma secondo Bruni è fin troppo evidente che l’idea di Smith
sia smentita dalla solitudine e dall’infelicità presenti
nella nostra società.
«Una
società senza grautuità non è un luogo vivibile»
Tuttavia essa è stata costruita su queste fondamenta.
Proprio partendo da queste basi fallaci, infatti, nascono un
mercato economico totalizzante e disumanizzante nonché una
società civile incapace di essere felice e ingabbiata nel
paradosso dell’infelicità opulenta. (pag. 139)
Deve, perciò, cercarsi una soluzione diversa a questi
problemi, soluzione che si deve trovare al di fuori del
mercato.
Si
deve, allora, cambiare prospettiva.
Una
prospettiva che non si basi più sui soli rapporti
simmetrici, contrattuali ma secondo una logica fondata anche
sul dono e la gratuità, sulla asimmetria dei ruoli.
Bruni cerca, quindi, di dare testimonianza concreta e non
solo teorica della possibilità che un tipo di economia come
quella da lui pensata e proposta sia possibile (4).
Un’economia dell’asimmetria che si contrappone a quella del
profitto.
Dove le
imprese non recitano solo un ruolo di “accumulatori di
ricchezza” ma abbiano anche un ruolo sociale.
Bruni critica a tale proposito la frase di Friedmann secondo
cui:
«L'idea che i manager e i dirigenti abbiano una
“responsabilità sociale" che va oltre il servire gli
interessi degli azionisti o quelli dei loro membri è andata
guadagnando un ampio e crescente consenso. Una tale visione
tradisce un fondamentale fraintendimento del carattere e
della natura di una economia libera. In una tale economia,
esiste una e una sola responsabilità d'impresa: usare le
proprie risorse e impegnarsi in attività orientate
all'aumento dei propri profitti nel rispetto delle regole
del gioco, vale a dire impegnarsi in una concorrenza aperta
e libera, senza inganno o frode».
Altro deve essere il ruolo dell’impresa capace di creare
benessere anche per la società in cui opera superando la
contrapposizione errata (o almeno insufficiente) tra
economia e bene comune. (5)
Nasce, però, spontaneo domandarsi se una tale economia è
valida e realizzabile anche per chi opera secondo valori
diversi da quelli dell’autore.
E’, in altre parole, un sistema, una esperienza esportabile
e generalizzabile anche al di fuori dell’ambito cattolico?
Si può ancora parlare di economia o siamo “salpati” verso un
“nuovo mondo” basato su valori e regole diversi dal
precedente? (6)
Immane, ciclopica, improbabile (per non dire impossibile) mi
sembra sia l’idea di convincere, in una società pluralista
come la nostra basata su principi o non – principi spesso
assai diversi se non proprio conflittuali tra loro, chi
detiene le risorse e il potere che starebbe meglio (lui e il
suo prossimo) se ci fosse maggiore distribuzione della
ricchezza e un sistema economico basato non solo sul
profitto ma (anche) su rapporti di dono e reciprocità.
Situazione questa che sarebbe assai diversa se ci fosse, al
contrario, consenso e condivisione di valori e una visione
maggiormente escatologica della vita. (7)
Eppure, a conti fatti, qualcosa non mi convince del tutto
nelle considerazioni molto affascinanti e coinvolgenti di
Bruni.
Troppo forte è, infatti, il ronzare delle api di Mandeville
(che proprio Bruni mi ha fatto ascoltare più attentamente
durante una sua lezione) operanti nell’egoismo e troppo
assordante il loro silenzio quando nell’alveare regna la
virtù per non credere che economia ed etica non sempre vanno
di pari passo.
O segui Dio o Mammona.
Aut – aut come sostiene Kierkegaard, non sono (almeno
apparentemente) possibili compromessi. O doni la tua tunica
o la vendi e a seconda del tuo comportamento ti poni dentro
o fuori dell’economia classica.
Ma per donare la tua tunica, per amare il tuo prossimo come
te stesso, per seguire, in altre parole gli insegnamenti del
Vangelo, devi iniziare , necessariamente, dal credere in
Dio.
Come scrive Zamagni nella sua recensione:
«Ogni
sguardo prospettico ha le sue radici. Bisogna pur sempre
partire da un luogo per esplorare quanto si offre allo
sguardo. Nessuno abita in nessun luogo.
Il carisma dell’unità del movimento dei focolari e
l’esperienza aurorale dell’economia di comunione sono, per
Bruni, questo luogo».
L’esperienza di Bruni impegnato fortemente in una scelta di
vita non è però l’esperienza di molti lettori che seguendo
altri percorsi e avendo esperienza di altri luoghi potranno
avere difficoltà a ritrovarsi totalmente nei ragionamenti
dell’autore (che pure ha per loro una attenzione
particolare, cercando di rendere il suo argomentare valido
per tutti, sostenendolo con ampie argomentazioni teoriche
basate sempre sulla ragione e senza mai indugiare nel
personale, nell’esperienziale o nell’irrazionale).
Un
libro che nel suo complesso risulta, tuttavia e al di là di
ogni dubbio, assai interessante, pieno di spunti di
riflessione e di approfondimenti che nell’accettazione o nel
rifiuto interroga il lettore.
Lo
interroga non solo nella ragione ma anche nel cuore
esemplificazione concreta della asserzione di Pascal: “Il
cuore ha ragioni che la ragione non conosce… “.
Maurizio Canauz (Luglio 2009)
NOTE
(1)
Luigino Bruni
è professore Associato di Economia Politica, presso la
Facoltà di Economia, Università di Milano-Bicocca.
Vicedirettore del centro interuniversitario di ricerca
sull'etica d'impresa Econometica (www.econometica.it).
Vicedirettore del Centro interdisciplinare e
Interdipartimentale CISEPS (http://ciseps.cilea.it/workshops.htm).
Direttore del Master "Economia civile e non-profit", Milano.
Co-editor della International Review of Economics (IREC).
Membro del comitato editoriale delle riviste: "Nuova
Umanità", "Sophia" e "RES"Membro del comitato etico di Banca
Etica.
Per ulteriori informazioni sulle sue pubblicazioni e sul
suoi interessi di ricerca si rimanda a:
http://dipeco.economia.unimib.it/persone/bruni/brunihp/
(2)
Tratto dall’intervista apparsa su
"L'Adige"
del 14 ottobre 2007 e ora sul sito :
http://www.trentoardente.it/tna/discorsi/Bruni_feritaltro_adige.htm
(3) S. Zamagni, “La
nuova sfida cattolica: l’economia di mercato e quella della
felicità”
Avvenire, 10 gennaio 2008.
(4)
Tra l’altro in questo sua “percorso” economico Bruni trova
conforto nel pensiero italianissimo e forse un po’ troppo
trascurato di Antonio Genovesi già allievo
di Giambattista Vico, ed insegnante prima di Metafisica
all'Università di Napoli e poi dal 1744 primo titolare, in
Europa, di una cattedra di "commercio e meccanica"
a cui era giunto perché accusato, per il suo pensiero
filosofico, di ateismo e razionalismo.
(5)
Contrapposizione che appare ancora più evidente e stridente
se si considera che i mangers delle imprese operano
in modo difforme e in base a principi diversi a seconda se
agiscono per conto dell’impresa o personalmente.
Da qui nasce una netta distinzione tra impresa come
istituzione economica (che ha come scopo la
massimizzazione del profitto degli azionisti), e
l'individuo che privatamente può essere generoso - es.
la Microsoft (istituzione) promuove il bene pubblico
vendendo i prodotti che il mercato richiede, Bill Gates
(individuo- filantropo) lo promuove donando una parte della
sua ricchezza ai paesi più poveri. Durante l'attività
economica, però, non c'è spazio
teorico perché l'imprenditore possa prefiggersi il Bene
Comune come obiettivo della propria azione.
(6) Mi
riferisco qui a un concetto espresso (tra l’altro) da
Carl Schmitt giurista e filosofo politico tedesco che
nel suo scritto: Terra e mare. Una riflessione sulla
storia del mondo, (Adelphi, Milano, 2002) parlando della
Repubblica di Venezia e della sua trasformazione durante il
corso dei secoli afferma che tali furono i cambiamenti
intercorsi nella struttura politica e sociale della città
costrettavi per adattarsi alle modifiche dei commerci e del
dominio dei mari che Venezia, pur sotto lo stesso nome, si
trasformò fino ad essere totalmente altro da ciò che era
originariamente.
Altro ed
estranea totalmente, così come mi appare l’economia di Bruni
rispetto all’economia classica dalla quale parte per la sua
riflessione e con la quale si confronta (criticamente)
puntualmente per quasi tutto il suo scritto.
(7)
Per come sia necessaria una visione escatologica e
cioè una riflessione che si interroga sul destino ultimo
dell'essere umano e dell'universo si rimanda a J. Guitton,
Paolo Sesto segreto, San Paolo Edizioni, 2002.
Da questo libro emerge chiaramente che l'escatologia non è
pura astrazione ma è strettamente legata al vivere presente
in quanto le aspettative ultime dell'uomo (di solito legate
alla vita oltre la morte) possono influenzare in modo
significativo la sua visione del mondo e il suo
comportamento quotidiano. |

_______________________________________________________________________________________________
COSTRUTTIVISMO E RIFLESSIVITA’
(a cura di) M. Colombo e A. Varani
con scritti di
P. Ardizzone, F. Benussi, M. Canauz, A. Carletti, P. Cattaneo, M. Colombo,
R. Dell’Oro, A. Garavaglia, A. Ostinelli, D. Valente, A. Varani.
Edizione Junior, Bergamo 2008 |
 |
Molte
persone avranno sicuramente incontrato nelle loro
esperienze scolastiche qualche insegnante dotato di
particolare carisma.
Insegnanti capaci di suscitare l’interesse nei
discenti, di spingerli a volere imparare, ad essere
curiosi di e del sapere.
Viceversa molti avranno incontrato insegnanti
monotoni capaci di trasformare in pura noia anche
gli argomenti più interessanti.
Che cosa rende un docente capace di suscitare
interesse e di saper gestire gli avvenimenti
quotidiani in classe sempre con prontezza mentre un
altro risulta incapace di coordinare la classe
lasciandosi travolgere dalle situazioni senza
saperle amministrare?
Solo un fatto genetico?
Una particolare predisposizione strettamente legata
all’individuo e impossibile da replicare?
Domande che aprono una serie di dubbi e che fanno
riflettere anche sulla validità delle scuole che
insegnano ad insegnare e alle quali molte teorie
della conoscenza (anche di quelle che vanno per la
maggiore) non danno risposte adeguate.
Prima, tuttavia, di giungere a rispondere alla
domanda se si può insegnare ad insegnare o almeno
aiutare l’insegnante a migliorare bisogna però
chiedersi: cos’è l’insegnamento?
Secondo una definizione data da Fisher
l’insegnamento è un “mestiere impossibile”.
La sua impossibilità deriverebbe dalla necessità per
l’insegnante di agire con urgenza, decidere
nell’incertezza, operare senza avere il tempo di
meditare di fronte a problemi complessi, inediti,
unici, spesso connotati da conflitti etici e
valoriali.
Senza filosofeggiare eccessivamente non credo sia
errato affermare che il passato e il futuro non
hanno valore in sé in quanto, in realtà, essi
esistono solo come funzioni del presente. Il passato
rivive nel presente riveduto e rivalutato in base
alle conoscenze attuali di un individuo; il futuro,
non ancora accaduto, esiste solamente sotto forma di
ipotesi fatte nel presente.
Possiamo immaginare, in una visione lineare del
tempo, il tempo stesso rappresentato su una linea
retta, dove il presente è una variabile che si può
muovere verso sinistra (ma questa è solo una
convenzione), verso il passato cioè, e in questo
modo attua la funzione del RICORDARE, oppure si può
muovere verso il futuro, verso destra, e in tal modo
attua la funzione del PROGETTARE.
In effetti, ammesso che il tempo si possa
rappresentare in modo lineare, per ogni istante dato
esiste solo la funzione presente, che si può muovere
in direzione di un tempo più o meno “passato” o più
o meno “futuro”; è rarissimo il caso in cui la
funzione presente sia tutta concentrata nell’istante
presente: il presente è il punto-zero, sempre
mutevole dei due opposti passato e futuro.
Ma proprio l’unicità del momento in cui si deve
agire e della situazione vissuta (che nella sua
singolarità è impossibile da rivivere) rende non
sufficiente per chi la vive ricorrere alla pura
esperienza acquisita o all’utilizzo di teorie o
protocolli d’azione codificati.
Questo comporta o che si agisca senza riferimenti
secondo l’estro del momento (o le proprie capacità
innate) o che si costruisca in situazione una nuova
conoscenza pratica.
Il concetto di conoscenza pratica è stato proposto
ed elaborato da Donald Shon più di venticinque annI
fa.
Come scrive Andrea Varani: «E’ una conoscenza
contestualizzata, fatta di azioni, di linguaggi, di
repertori, costruita insieme ad altri colleghi in
una comunità di pratica.
Ma la pura esperienza non è sufficiente, per
trasformarla in conoscenza consapevole, ci dice
ancora Shon, occorre imparare a riflettere
nell’azione e sull’azione.
Si configura quindi il profilo di un insegnante
riflessivo, un insegnante ricercatore nell’ambito
della pratica didattica e che solo nella scuola può
trovare questo tipo di conoscenza.»
In questa direzione si orienta il volume curato da
Maddalena Colombo, professoressa associata di
Sociologia dei processi culturali presso la Facoltà
di Scienze della formazione dell’Università
Cattolica di Milano (1) e da Andrea Varani (2) nel
quale si cerca di fornire un modello pedagogico di
formazione degli insegnanti (estendibile, a parere
dei curatori, anche ad altri ambiti formativi).
L’insegnante apprende e può migliorare nel suo agire
solo imparando a riflettere sul suo comportamento,
ma questa riflessione non può avvenire (solo) a
posteriori ma può essere anche esercitata nel
momento dell’azione stessa.
Come spesso avviene ciò che teoricamente appare
possibile (se non proprio facile) diviene
concretamente difficile (se non proprio
impossibile).
Proprio per sfuggire a questa contrapposizione tra
teoria e pratica il libro raccoglie oltre ad alcuni
contributi teorici di esperti del settore (nella
prima parte) anche una qualificata e nutrita serie
di scritti di docenti (nella seconda parte) che
descrivono e analizzano alcune delle loro esperienze
maggiormente significative con riguardo al tema
della riflessività, offrendo vari di spunti di
meditazione su un mondo, come quello della
formazione, alla continua ricerca di possibili
progressi per riuscire a rendere migliore il
processo educativo in una società variegata e
complessa come quella attuale.
Le esperienze formative riportate nella seconda
parte si riferiscono, soprattutto, alle attività
realizzate nelle Scuole di Specializzazione per
l’Insegnamento Secondario aventi come scopo
principale il tentativo di sviluppare le capacità e
la sensibilità riflessiva dei nuovi docenti.
Di queste esperienze si sottolineano gli aspetti
teorici ma, principalmente, si forniscono modelli di
intervento, spunti operativi e proposte di attività
(schede-laboratorio) sui temi dell’osservazione,
della scrittura autobiografica, della comunità di
apprendimento, degli ambienti virtuali.
Può, ad esempio, la scrittura autobiografica aiutare
il docente nel suo percorso formativo – riflessivo?
Le comunità virtuali aiutano i docenti a sviluppare
la capacità riflessiva?
Domande a cui il libro cerca di dare delle risposte
che appaiono spesso convincenti.
Scavando un po’ più a fondo alla ricerca delle linee
guida che trasversamlmente attraversano gli scritti
del libro mi sembra che in molte parti, soprattutto
quando si approfondiscono percorsi ed esperienze
collegiali verso l’acquisizione di una maggiore
riflessività, riecheggi l’idea costruttivista già
sostenuta da von Glasersfeld, secondo cui
l’apprendimento è sempre frutto di un lavoro di
costruzione avente l’obiettivo di elaborare azioni e
concetti viabili, cioè appropriati ai contesti in
cui vengono usati, e non di scoprire una realtà
ontologica di cui produrre copie o immagini mentali.
Idea questa che si trova oggi sempre più legata a
quella di apprendimento come processo dialogico,
sociale e culturale, di creazione ed elaborazione
congiunta di significati, in cui il singolo, in
quanto facente parte di un gruppo, riceve sostegno
motivazione all’interno della sua “zona di sviluppo
prossimale” ( concetto introdotto e sviluppato da
Vygotskij).
Da alcuni contributi emerge chiara l’idea che
l’apprendimento e l’intelligenza non sono titolarità
esclusiva del singolo individuo che apprende, ma
emergono piuttosto dall’interazione sociale in cui
gruppi di individui intrattengono rapporti di natura
collaborativa finalizzati alla costruzione di
conoscenze comuni e condivise (in questo senso mi
piace ricordare il contributo di Doris Valente).
Passando ad un discorso più generale ritengo che le
raccolte di saggi, che pure hanno un tratto comune
nel tema affrontato, presentino alcuni vantaggi e
alcuni svantaggi per il lettore.
Da un lato il materiale presentato è assai vario e
consente di affrontare temi assai complessi da
diversi punti di vista basandosi su un amplissimo
patrimonio di esperienze e conoscenze.
Dall’altro lato proprio l’alternarsi di stili e di
riferimenti metodologici, spesso non totalmente
comuni, rendono la lettura non sempre agevole e a
tratti frammentaria.
Perché la lettura sia utile e non dispersiva
diviene, pertanto, necessario che il lettore abbia
buone capacità di flessibilità e duttilità nonché
una discreta nozione dell’argomento nel suo insieme
per poter seguire, senza pregiudizi e preconcetti, i
diversi (interessanti) spunti offerti da queste
miscellanee.
Nello specifico dello scritto di cui qui si tratta,
il lavoro dei curatori cerca di ovviare ad una
eccessiva disomogeneità, che avrebbe potuto
caratterizarlo vista la ricercata eterogeneità dei
contesti a cui le esperienze fanno riferimento,
rendendo il più coerente possibile l’insieme dei
contributi che lo compongono nel tentativo di
offrire un florilegio di saggi che approfondiscano
il tema della riflessività del docente senza che i
testi nel loro insieme siano mai scontati o banali.
Libro quindi che risulta essere utile e piacevole ma
che mi pare sia soprattutto indicato per gli addetti
ai lavori che possono meglio “gustarlo” traendone
diverse ispirazioni su cui riflettere, magari
riutilizzandole nella pratica quotidiana e un po’
meno per chi inizia a muovere i primi passi nel
campo dell’insegnamento.
Per tutti i lettori comunque avrebbe, a mio parere,
potuto essere interessante e utile aggiungere una
appendice informatica.
Un luogo virtuale dove approfondire gli argomenti
trovati più interesanti, dove scambiare, magari
anche con gli autori, esperienze, critiche,
riscontri di quanto scritto.
Un’occasione per creare una comunità virtuale e per
dimostrare praticamente come essa sia luogo per
imparare e soprattutto per imparare a riflettere.
Un’ultima doverosa annotazione.
Alla realizzazione del libro hanno contribuito,
riportando interessanti esperienze maturate negli
anni di insegnamento come docenti e supervisori
Silsils, anche alcune socie AEEE quali: Doris
Valente e Riccarda Dell’Oro, non nuove alle
pubblicazioni di stimolanti e pregevoli contributi
sulla didattica e non solo. Maurizio Canauz
(Giugno 2009)
NOTE
(1) Maddalena Colombo non è nuova alla tematica
della riflessività intesa come capacità del pensiero
di trarre conseguenze dall’oggetto del suo pensare
in ambito educativo.
Nel 2005 per i tipi di Vita e Pensiero ha curato una
interessante volume dal titolo: Riflessività e
creatività nelle professioni educative
Si tratta di una raccolta di saggi che in una
prospettiva multidisciplinare (sociologica e
pedagogica) analizza la figura del professionista
riflessivo nell’ambito educativo (docenti, educatori
per l’infanzia, educatori professionali, formatori
aziendali, coordinatori di risorse umane, valutatori
della formazione), alla luce dei cambiamenti attuali
(globalizzazione, decentramento e riforma
scolastica) in Italia e in tre paesi europei: Gran
Bretagna, Belgio, Norvegia.
La Professoressa Colombo, a tale proposito, analizza
nel suo contributo “La socializzazione degli
insegnanti in Italia” (approfondibile tra l’altro
leggendo un articolo apparso sulla rivista: Pragma
Rivista dell’Istruzione Superiore, anno XI - N° 29
dicembre 2006 , e consultabile sul sito
http://www.rivistapragma.it/pragma/ventinove/04.HTM)
le difficoltà dei docenti che devono operare in una
scuola attraversata da numerose e spesso ambivalenti
correnti di mutamento che provocano attese e
contemporaneamente frustrazioni negli attori
istituzionali e nel pubblico (inteso sia come
studenti sia come genitori).
Tuttavia l’autrice sostiene che, quali che siano le
motivazioni che lo hanno spinto verso l’insegnamento
il docente non deve lasciarsi sopraffare dalle
difficoltà ma deve cercare un costante miglioramento
delle proprie performance, magari iniziando a
riflettere sul proprio agire come suggerisce il
libro con i mezzi adeguati e ponendosi in modo
diverso verso l’organizzazione in cui opera e che
dovrebbe essere nel contempo oggetto di
trasformazione.
Da quanto si può evincere dal libro il nuovo “attore
sociale della formazione” sia esso legato alla
scuola, sia esso legato ad altri ambiti formativi è,
o meglio dovrebbe essere, un professionista
riflessivo che adotta metodi, tecniche, approcci
specifici per applicare la riflessività
all’esperienza e al proprio pensare, trasformando il
rapporto con il cliente/utente della formazione nel
senso della reciprocità e dello scambio dinamico tra
identità in costruzione.
Tutto ciò però non può (non potrebbe avvenire)
all’interno di organizzazioni rigide e fortemente
prescrittive.
L’insegnante/formatore riflessivo necessita,
infatti, per poter operare al meglio di modificare
il rapporto con le organizzazioni di cui fa parte,
soprattutto con un ampliamento dei margini di
creatività nella scelta dei linguaggi da usare, dei
codici interpretativi e delle regole.
• (A cura di ) M. Colombo, Riflessività e creatività
nelle professioni educative. Vita e pensiero, Milano
2005 - Pagine 240 - Euro 17,00.
(2) Andrea Varani si è occupato spesso nei suo
scritti di formazione scolastica e di formazione dei
docenti sempre facendo riferimento al quadro teorico
costruttivista.
Al costruttivismo però Varani non aderisce in modo
acritico o fideista, ma cerca sempre di considerarlo
una teoria (o un insieme di teorie) che al momento,
meglio di altre, permette di ripensare la didattica
a fronte di una sempre maggiore complessità del
“fare” scuola.
Continui sono i suoi approfondimenti in tal senso e
continua è la verifica, anche sul campo, della bontà
della teoria.
Di conseguenza spesso i suoi libri non si fermano
solo all’aspetto teorico ma cercano sempre di
coniugarlo con i dati e le verifiche che gli
provengono da una esperienza pluridecennale
nell’insegnamento nelle scuole secondarie superiori.
Tutto questo tenendo sempre presente che ogni
singola classe è unica, essendo il risultato di
situazioni, esperienze e caratteristiche diverse.
Proprio l’unicità delle situazioni, l’ampio spettro
da analizzare lo hanno portato spesso a curare opere
collettive che consentano di mostrare, in ambiti e
contesti differenti e con differenti attori,
l’applicazione pratica (con pregi e difetti) delle
teorie da lui proposte.
Fra le ultime ricordo:
• Carletti A. e Varani A., Didattica costruttivista.
Dalle teorie alla pratica in classe, Erickson;
Trento, 2005.
• Carletti A. e Varani A., Ambienti di apprendimento
e nuove tecnologie. Nuove applicazioni della
didattica costruttivista nella scuola, Erickson,
Trento 2007.
Per una più approfondita disamina di alcuni suoi
scritti e per un approfondimento del suo pensiero si
rimanda al sito IL COSTRUTTIVISMO E LA DIDATTICA
nella sezione Pubblicazioni.
(http://www.costruttivismoedidattica.it/pubblicazioni/pubblicazioni.htm)

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Possibilità economiche per i nostri nipoti»
di John Maynard Keynes
Adelphi, euro 5,50, pp. 52 |
I SOGNI DI UN ECONOMISTA MOLTO CONCRETO
Nel 1928 Keynes lesse agli studenti del Winchester College e in seguito
a Cambridge un breve saggio[i]
pubblicato due anni dopo. Erano trascorsi solo pochi anni[ii]
da quando aveva invano esortato i governanti europei affinché
ripensassero alle dure condizioni di pace che gli stessi avevano imposto
alla Germania dopo il primo conflitto mondiale (dando prova di una
miopia politica tanto rara quanto foriera di nefande conseguenze).
Parzialmente abbandonati i panni da economista, sempre attento e
preciso, Keynes veste panni più comodi ma non meno degni di rispetto:
quelli del sognatore.
Un sognatore capace di sperare in un futuro migliore (orario di lavoro
ridotto, disinteresse per il denaro[iii])
ma, al tempo stesso in grado di esaminare lucidamente, e serenamente la
realtà sociale del suo tempo. Un aspetto colpisce sin dalle prime
pagine: anche quando sogna resta un economista unico nel suo genere. Il
suo stile, la sua vivacità appartengono molto più al mondo dell’arte,
della poesia che all’universo economico mediamente poco incline a
considerarli degni di nota.
A onor
del vero l’avverbio “mediamente” certo contrasta con la personalità di
Keynes!
Perché queste poche pagine dovrebbero essere lette in tutti i corsi di
economia delle superiori?
La
risposta è semplice: riassumono con chirurgica precisione il pensiero
economico e politico dell’intero Novecento; e, per essere chiari, sono
state scritte all’inizio del secolo appena trascorso.
Leggendo il saggio è continuamente possibile operare un raffronto con la
realtà attuale, la comparazione ha tratti sbalorditivi.
Cosa
caratterizzava la realtà economica europea del primo Novecento?
Il
primi decenni del secolo breve[iv]
sono contrassegnati per Keynes da un “pessimismo economico” che l’autore
definisce “particolarmente virulento”; già nell’introduzione si legge: “È
opinione comune… che l’enorme progresso economico che ha segnato
l’Ottocento sia finito per sempre; che il rapido miglioramento del
tenore di vita abbia imboccato … una parabola discendente; e che per il
prossimo decennio ci si debba aspettare non un incremento ma un declino
della prosperità[v]”.
Il confronto con la congiuntura economica attuale è immediato e
drammaticamente evidente. Sorprendente l’abilità dell’economista di
Cambridge di sdrammatizzare: dopo poche righe afferma, parlando della
situazione economica del suo tempo: “Scambiamo per reumatismi quelli
che in realtà sono disturbi della crescita, e in particolare di una
crescita troppo veloce[vi]”.
La
velocità è alla base di questo scritto.
Il
progresso di fine Ottocento è stato così repentino, così
inaspettatamente dirompente, così immediatamente applicabile al vivere
quotidiano da lasciare sbalorditi; dalla fine del XIX secolo le
immutabili conoscenze scientifiche in diversi campi del sapere sono
state stravolte:
-
in medicina grazie alla
scoperta dei “raggi X” si compiono passi da gigante nelle diagnosi;
-
in chimica si assiste
a una vera e propria rivoluzione grazie a uomini come Louis Pasteur;
-
in ingegneria si
raggiungono ambiti di applicazione sino a qualche decennio prima
impensabili, ne è un esempio la Tuor Eiffel;
Parigi
è la sede nel 1900 dell’Esposizione Universale che accoglierà 50 milioni
di visitatori ed offrirà loro servizi esclusivi: il cinematografo e la
metropolitana.
Tutto
questo ha indubbiamente modificato la vita umana.
Del
resto anche noi abitanti del XXI secolo possiamo affermare lo stesso;
quante scoperte, quante invenzioni hanno in pochi anni stravolto il
nostro modus vivendi (pensiamo al cellulare, al lettore mp3, alle
tecniche di diagnostica sempre più evolute e ultima, ma non ultima,
all’e-mail).
Quell’incredibile progresso portò l’uomo dell’inizio del Novecento ad un
pessimismo quasi leopardiano. Perché?
Keynes
sostiene che la velocità con la quale il sistema economico progredì non
permise un contestuale riassorbimento della forza lavoro, e la
disoccupazione produsse una sorta di scoramento collettivo. La decisione
delle autorità bancarie di abbassare i tassi di interesse, in misura
inferiore a quella auspicata, provocò una drastica caduta degli
investimenti e questo si ripercosse negativamente sul mercato.
In
queste pagine Keynes affronta un tema a lui caro: la conseguenza che una
scelta è in grado di provocare sugli operatori economici. Solo tre anni
dopo, a Chicago, durante le “tre celebri conferenze” volte a spiegare il
perché del crollo di Wall Street egli affermerà, tra molte importanti
argute osservazioni, che, ad un certo punto, nella primavera del 1929
in America si verificò una brusca caduta degli investimenti. La causa di
questa tendenza negativa è per l’economista dovuta al fatto che in quel
momento il saggio di profitto atteso (quanto gli imprenditori
sperano di ricavare da una somma di denaro presa a prestito) degli
imprenditori risultò inferiore al tasso di interesse (quanto
effettivamente costa agli imprenditori prelevare dalle banche tale somma
a prestito). La ragione di questa diversità è imputabile all’ottimismo.
L’ottimismo, come criterio o termine di paragone, non è
misurabile, non appartiene al campo delle scienze esatte, esula o meglio
esulava dall’economica; esso trovava sicuramente ospitalità nella
psicologia.
Qui sta
la grande intuizione di Keynes: introdurre la psicologia nella scienza
economica, l’homo economicus tanto caro ai classici non solo non
esiste ma è forviante, o meglio dannoso per l’economia.
Come
mai questa digressione sul pensiero di keynesiano?
Perché
quanto appena detto è già in nuce contenuto nel breve saggio
oggetto del presente lavoro; in ogni pagina è presente un’ analisi
psico-sociale degli avvenimenti economici dell’epoca, una dettagliata
rendicontazione del comportamento umano.
L’uomo
per essere felice dovrà abiurare il credo che per molti anni la ha reso
più o meno inconsciamente schiavo: “la determinazione”.
È lo
stesso Keynes a definire tale religione: “La determinazione è ciò che
ci spinge a considerare il risultato delle nostre azioni in un futuro
più o meno lontano, e a trascurare la loro qualità o i loro effetti
immediati sull’ambiente che ci circonda[vii]”.
Per dirla con una metafora moderna noi abbiamo esasperato la favola
della cicala e della formica, in sintesi: fa bene patire un poco per
gioire in futuro ma è folle per gioire in un futuro così lontano da non
essere raggiungibile continuare a patire per tutta la vita!
Egli
affermerà che la “Teoria dell’interesse composto” ha influenzato
(forse funestamente) l’uomo in ogni suo ambito esistenziale (pensiamo
solamente a quello religioso: mi astengo dai piaceri terreni per godere,
post mortem di quelli ultraterreni) condizionandone la vita.
Trovo sconvolgente l’affermazione:”il male è bene perché il male è
utile e il bene no[viii]!”
ma, se penso alla nostra realtà non posso che ammettere quanto Keynes
sia stato profetico.
Alla
fine dello scritto Keynes sostiene che per raggiungere lo “Stato di
Beatitudine” (la società del domani …… che avrebbe dovuto essere la
nostra … sic!) l’uomo dovrà soddisfare alcune condizioni:
-
controllare l’aumento della
popolazione;
-
evitare guerre e tensioni sociali;
-
affidare alla scienza il governo di ciò
che propriamente le compete (affermazione quanto mai attuale!).
Ĕ ovvio
che i tre punti non siano stati realizzati e, a tal proposito, è facile
affermare che il vaticinio keynesiano non sia andato a buon fine. Se si
pensa che tutto questo è stato decretato nel 1928 è lecito provare
inquietudine, smarrimento: il tempo passa, il mondo cambia ma l’uomo
resta tragicamente ancorato alle sue paure e ai suoi errori e questo
insegnamento è sin troppo attuale. (a cura di
Claudio Luigi Buttinoni)
[i]
John Maynard Keynes, Essays in Persuasion, New York: W.W. Norton
& Co., 1963, pp. 358-373, Traduzione Italiana in: John Maynard
Keynes “Possibilità economiche per i nostri nipoti seguito da
Guido Rossi “Possibilità economiche per i nostri nipoti?”
Milano: Adelphi, 2009, pp. 11-30.
[ii]
Si veda: “Le conseguenze economiche della Pace” ed. Adelphi,
2007
[iii]
Keynes dirà a proposito del capitalismo: “Il decadente
capitalismo internazionale nelle cui mani siamo caduti non è un
successo. Non è intelligente, non è bello, non è giusto, non è
virtuoso e non fornisce nessun bene”. Affermazione apparsa sulla
rivista economica britannica “The New Statesman and the Nation”
dell’8-15 luglio del 1933.
[iv]
La citazione è tratta dal libro: “Il secolo breve” di Eric
Hobsbawm.
[v]
Si veda: “Le conseguenze economiche per i nostri nipoti” ed.
Adelphi, 2009, pp. 11

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L’ECONOMIA SOCIALE DI MERCATO
di FLAVIO FELICE,
RUBBETTINO Editore,
Soveria Mannelli, 2008 |
Nei momenti più tormentati si è
soliti riflettere più attentamente e in modo più
critico sulla realtà per cercare nuove o vecchie
soluzioni (precedentemente accantonate) che possano
permettere di risolvere le questioni (o almeno
alcune di esse) che ci impediscono una vita sociale
se non totalmente soddisfacente almeno tranquilla.
Sicuramente l’economia ha, per molti, una importanza
strategica nella risoluzione dei problemi e quindi è
logico che si cerchi in essa risposte, non solo
teoriche ma anche pratiche, su come si deve agire e
come deve essere modificato il contesto in cui
operiamo.
Non è strano, pertanto, che di fronte alla crisi
finanziaria globale che sta investendo anche
l'Italia e ai piani di intervento pubblico per
immettere liquidità sul mercato, ci si interroghi
sempre più sul rapporto tra politica ed economia e
sull'attualità e la validità dell’economia sociale
di mercato per uscire dall'impasse venutasi a
creare.
Torna così attuale il problema di quale deve essere
il sistema economico da privilegiare e di
conseguenza quale deve essere il rapporto tra
cittadino e Stato e il ruolo dello Stato in
economia.
Flavio Felice, professore straordinario di “Dottrine
Economiche e Politiche” alla Pontificia Università
Lateranense, di “Filosofia dell’impresa” alla LUISS
Guido Carli di Roma nonché visiting professor
all’Università Cattolica di Argentina di Buenos
Aires, all’Università Sedes Sapientiae di Lima
(Perù) e alla Catholic University of America di
Washington D.C. (USA), cerca di ricostruire, in
questo agile saggio, il pensiero di chi nella
Germania degli anni quaranta provò ad elaborare una
via che coniugasse la libertà di mercato con la
giustizia sociale cercando una possibile
armonizzazione tra questi principi apparentemente in
contrasto tra loro.
Questo gruppo di pensatori ed economisti assunse il
nome di Scuola di Friburgo e la filosofia che la
ispirava venne chiamata "ordoliberalismo", dal
titolo della rivista "Ordo", fondata da Eucken nel
1940.
Gli ordoliberilisti sostennero da subito posizioni
decisamente più critiche di Adam Smith rispetto alla
fede in una spontanea armonia che sarebbe dovuta
scaturire dall'opera della "mano invisibile".
Il mercato non era perfetto e difficilmente era
pensabile che lo sarebbe mai diventato.
Troppo forti erano le ingerenze di gruppi di
pressioni e potentati economici che avrebbero
facilmente distorto in senso oligopolistico e
monopolistico il mercato con tutte le inefficienze
allocative e distributive conseguenti.
Proprio per questo gli ordoliberali, cercarono di
rafforzare il ruolo della politica come arbitro
della lotta economica.
Come ricorda Felice, infatti, essi hanno sostenuto
l'idea che il sistema economico per esprimere al
meglio le proprie funzioni produttive-allocative
dovrebbe operare in conformità con una “costituzione
economica” che lo Stato stesso pone in essere.
In realtà si tratta di una visione
politico-economica che non ha nulla a che vedere con
la pianificazione economica centralizzata o con una
politica statale interventista.
Centrale, infatti, per la teoria ordoliberale rimane
sempre e soltanto il libero il mercato.
Il mercato come sistema di relazioni che necessita
però di essere organizzato giuridicamente dallo
stato.
Organizzazione giuridica che non deve però,
beninteso, modificare i risultati che provengono dai
processi di mercato.
Lo Stato come arbitro forte che sa e può imporre il
rispetto delle regole ma che non assurge mai al
ruolo di giocatore o tanto meno di allenatore che
detta i comportamenti degli attori in campo.
In questa prospettiva, gli ordoliberali, nell'ambito
delle politiche economiche internazionali, si
espressero a favore delle liberalizzazioni degli
scambi e, di conseguenza, avversarono tutte quelle
politiche creditizie e fiscali che a loro avviso
avrebbero potuto incentivare le concentrazioni di
capitale.
Per quanto riguardava la politica economica interna,
invece, si mostrarono estremamente scettici nei
confronti dell'interventismo di stato nel campo
sociale ed evidenziarono gli effetti
deresponsabilizzanti sulla condotta individuale di
un atteggiamento paternalistico da parte dello
stato.
In altre parole se lo Stato pensa a tutti gli
interventi umanitari e di sostegno per i più
sfortunati, i singoli smettono di occuparsene e
perdono quella tensione etica che dovrebbe sempre
ispirare le loro azioni (posizione questa se
vogliamo non dissimile a quella di altri sostenitori
dello Stato minimo in un mondo dominato dal mercato
e dai rapporti tra i singoli come ad esempio Robert
Nozick nel suo celebre: Anarchia, Stato ed Utopia.)
Felice, una volta tratteggiati gli aspetti comuni
della scuola di Friburgo, passa quindi ad
approfondire il pensiero di alcuni dei principali
esponenti di questa scuola quali: Luydwig Eucken e
Wilhelm Röpke.
Fino a questo punto il libro sembrerebbe avere una
connotazione prevalentemente storico – teorica,
legata ad un preciso periodo temporale e un luogo
specifico: la Germania.
Ma così non è.
Nel suo percorso Felice, infatti, mostra come questa
teoria abbia influenzato anche gli altri Paesi.
L’autore mostra in particolare come esso sia stato
recepito in Italia.
Secondo l’autore, infatti, l’ordoliberismo non ha
avuto solo rilevanza per la Germania ma nel tempo ha
influenzato profondamente anche ampi settori della
cultura economica e politica italiana, fino almeno
alla seconda metà degli anni Settanta.
Tale influenza non si nota però nella nostra
Costituzione.
L’Assemblea Costituente, infatti si ispirò ad altri
principi e ad altri valori.
A testimoniarlo, spiega l'autore del libro, è la
Costituzione economica che ne derivò, oscillante tra
“una sorta di neocorporativismo” ed “un larvato
dirigismo” e profondamente diffidente nei confronti
del mercato.
«Erano anni in cui nessuno avrebbe messo in
discussione il modello delle Partecipazioni Sociali,
e in tempo di smisurato ottimismo, dovuto alla
speranza di crescita del secondo dopoguerra, le
cautele e i timori 'ordoliberali' di
burocratizzazione, di monopolizzazione dei servizi
sociali e le ricette antistataliste a favore del
principio di libera concorrenza apparivano come
un’inutile zavorra che avrebbe inevitabilmente
rallentato il ciclo economico positivo innestato
dalla ricostruzione».
Dallo scontro interno alla Democrazia Cristiana tra
la visione economica sostenuta da Dossetti, La Pira
e Fanfani più legata all’intervento dello Stato e
quella più liberale sostenuta da Alcide De Gasperi e
don Luigi Sturzo, secondo cui «nessun principio
guida per la politica è migliore di quello
liberale», prevalse decisamente la prima e questo
ebbe una decisa influenza sul testo della
Costituzione.
Fedele alla sua concezione liberale dell’economia,
Felice se ne rammarica considerando le scelte fatte
dai costituenti non corrette per il benessere della
nazione e contrarie alle scelte economiche europee
come la storia avrebbe (a suo parere) dimostrato.
Una storia in cui l’Europa si farà portatrice di
divieti e di vincoli in direzione contraria a quella
presa dai costituenti italiani.
All’interno della ricezione del pensiero
ordoliberale in Italia, Felice dedica infine alcune
pagine alle riflessioni di don Luigi Sturzo.
Per Sturzo, ricorda l'autore citando un articolo del
sacerdote apparso il 29 dicembre del 1957 su “Il
Giornale d'Italia”, nessuna forma di “solidarismo”
appare “praticabile, dove emerge la coesistenza di
“statalismo” ed “economia di mercato”, mentre una
politica orientata alla solidarietà sarebbe
possibile solo lì dove il “mercato libero” convive
con una politica statale di “cooperazione”' e di
“occasionale” e “più o meno concordato intervento”.
Fiducia quindi, per il sacerdote, nel mercato come
luogo dello sviluppo e della crescita (nonché della
solidarietà) e non degli egoismi personali.
Il lettore si potrà chiedere quanto questa filosofia
e la sua conseguente teoria economica possano essere
ancora attuali.
Quanto il libro possa essere utile per interpretare
la realtà e quanto sia solo la riproposizione
attenta e puntuale di un pensiero economico e
filosofico importante ma minoritario.
Per quanto riguarda il primo aspetto credo che il
testo possa aiutare a far luce sulle difficoltà dei
politici cattolici di trovare una posizione unitaria
in economia.
Le posizioni dossettiane e fanfaniane, come quelle
sturziane e degasperiane rivivono ancor oggi in chi
sostiene la necessità di un intervento statale in
questo periodo di crisi e chi al contrario crede che
il mercato debba essere aiutato e disciplinato ma
non soffocato dall’intervento pubblico.
Tra questi ultimi va annoverato il Ministro Tremonti
che proprio all’economia di mercato ha dedicato la
Prolusione tenuta all’Università Cattolica del Sacro
Cuore in occasione dell’inaugurazione dell’A.A.
2008-2009.
(Per il testo del discorso si rimanda a
http://www.cattolici-liberali.com/idee/EconomiaSocialeDiMercatoTremonti.aspx)
.
Di fatto quindi una lettura che, partendo da un
lontano passato attraverso una precisa ricostruzione
storica, arriva al presente nel quale le idee
ordoliberali sembrano avere ancora un importante
riflesso sulla cultura politica attuale (anche se
non sempre convenientemente conosciute).
Una lettura dunque interessante per conoscere
(meglio) una ulteriore concezione economica (non
sempre adeguatamente propagandata) che cerca di
posizionarsi tra il dirigismo e il mercato tout
court.
Una via possibile e realizzabile?
Al lettore la risposta
(a cura di
Maurizio Canauz)

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GLOBALIZZAZIONE DELLA POVERTA’ E NUOVO ORDINE MONDIALE
di Michel Chossudovsky
EGA
Torino 2003 |
Ci
sono dei libri che tranquillizzano il lettore,
altri che lo incuriosiscono altri che tendono a
preoccuparlo.
Infine vi sono libri che
definirei”apocalittici”, che dipingono il mondo
in cui viviamo a tinte estremamente fosche.
Basta
leggere alcune frasi di questo libro per
comprendere a quale categoria può essere
ascritto.
"Dalla
pubblicazione della prima edizione (1) - scrive l’autore, Michel
Chossudovsky(2) - il mondo è cambiato drammaticamente;la
“globalizzazione della povertà” ha allungato le mani su tutte le
principali regioni del mondo, incluse l'Europa occidentale e il
Nord
America. Un Nuovo ordine mondiale è stato instaurato, in deroga alla
sovranità nazionale e ai diritti dei cittadini". Esso "si alimenta
della povertà umana e della distruzione dell'ambiente naturale" e
"genera l'apartheid sociale, incoraggia razzismo e conflitti etnici,
lede i diritti delle donne e spesso fa precipitare le nazioni in
distruttivi conflitti etnici".
Realismo o pessimismo?
Chossudovsky cerca di sostenere le sue premesse con un’analisi a
trecentosessanta gradi della situazione economica del mondo.
"Le nuove regole –
scrive Chossudovsky - dell'Organizzazione mondiale del commercio (OMC
o WTO), nata nel 1995, garantiscono “diritti ben radicati” alle banche
più grandi del mondo e alle multinazionali. I debiti pubblici sono
saliti a spirale, le istituzioni statali sono crollate e l'accumulazione
di ricchezze private è aumentata incessantemente".
I
governi di tutto il mondo hanno abbracciato inequivocabilmente l'agenda
politica del neoliberalismo. Le stesse cure economiche sono applicate in
tutti i paesi. Sotto la giurisdizione del FMI, della Banca Mondiale e
dell'OMC, le riforme creano un “ambiente favorevole” per
le banche
globali e le società multinazionali. Questo, tuttavia, non è un sistema
di mercato “libero”: sostenuto dalla retorica neoliberista, il
cosiddetto “programma di aggiustamento strutturale” sponsorizzato dalle
istituzioni di Bretton Woods costituisce un nuovo modello di
interventismo.
Il debito per Chossudovsky diviene di fatto uno strumento di dominio da
parte dei Paesi creditori e soprattutto delle istituzioni finanziarie
internazionali, attraverso il quale esse sono in grado di imporre linee
di politica economica di stampo neoliberista. I paesi debitori, nei
primi anni Ottanta, furono di fatto, secondo l’autore, obbligati ad
attuare le riforme economiche decise dal Fondo e dalla Banca per poter
accedere a nuovi finanziamenti e agli accordi di riscadenziamento.
In sintesi le riforme consistevano ( consistono) nella liberalizzazione
completa del mercato interno, attraverso l’eliminazione di tutte le
eventuali forme di protezione; nella svalutazione della moneta locale e
nella riduzione ai minimi termini della spesa pubblica
Gli esempi non mancano e
vanno dall’Africa subsahariana, al Sud Est asiatico, dall’America Latina
(con particolare attenzione al Brasile) all’ex Unione Sovietica e ai
Balcani.
Chossudovsky racconta, spesso
con dovizia di particolari, per ogni Paese la situazione iniziale,
l’intervento degli organismi internazionali e il risultato degli
interventi.
Se, come è logico, il punto
di partenza e l’evoluzione differiscono di caso in caso a seconda del
contesto in cui gli interventi operano e hanno operato di fatto la
situazione finale è simile per tutti i Paesi e per i loro abitanti.
Disoccupazione, fame, crisi
sociale e politica (spesso legata a casi di corruzione). Chossudovsky
non si fa scrupoli di indicare il colpevole di questa situazione.
Come spesso avviene nei libri
di spionaggio e di complotti internazionali il colpevole sta in stanze
lontane, in uffici arredati con gusto, tra quadri e soprammobili
preziosi.
Il colpevole o meglio i
colpevoli, di questa situazione sono
i
banchieri di Wall Street e i capi dei maggiori conglomerati
multinazionali.
“Essi
si incontrano continuamente con i funzionari del FMI, della Banca
Mondiale e dell'OMC in riunioni riservate e in numerosi convegni
pubblici; a queste consultazioni sono presenti anche rappresentanti di
potenti lobby d'affari globali, tra cui la Camera di commercio
internazionale (ICC), il Dialogo transatlantico economico (TABD, che
ogni anno raduna nei suoi convegni i dirigenti dei più grandi centri
d'affari occidentali con politici e funzionari dell'OMC), il Consiglio
degli Stati Uniti per gli affari internazionali (USCIB), il Forum
economico mondiale di Davos, l'Istituto finanziario internazionale (IFI)
con sede a Washington, che rappresenta le più grandi banche e istituti
finanziari del mondo, ecc.”
Solo uno spot o una
invettiva contro alcune elites?
Pura demagogia?
Chossudovsky non tergiversa e
coerente con la sua tesi sottolinea, con nomi e cognomi, gli intrecci
tra pubblico e privato, tra economia e politica a cui quasi tutti gli
Stati (qualsiasi sia il loro orientamento politico ed economico ) non
riescono sottrarsi.
Intrecci che allontanano
radicalmente il sistema economico da quel mercato perfetto postulato dai
teorici classici del liberalismo.
Nel dettaglio l’autore
sottolinea come certi principi economici, come quello del vantaggio
comparato, alla prova dei fatti (e per ammissione degli stessi
organicismi mondiali), falliscono portando carestia e morte.
Tuttavia nessuno (soprattutto
tra gli economisti e i finanzieri che reggono in questo momento le
redini del potere) sembra intenzionato a modificare la “rotta” anche se
l’iceberg si avvicina pericolosamente al bastimento di cui tutti noi,
volenti o nolenti, siamo passeggeri,
Non si modifica la rotta
sostenendo che le scelte fatte sono le migliori possibili e ben peggiore
sarebbe la situazione se ne fossero state fatte di diverse.
Tuttavia, se si da credito
alle parole e ai dati riportati da Chossudovsky pensare a situazioni
peggiori di quelle in cui versano gli Stati dove si sono avuti gli
interventi del FMI comporta un vero impegno di fantasia.
Il libro di Chossudovsky
è ben congegnato e segue una logica, apparentemente, di buon senso.
Ciò che tuttavia rimane sempre sullo sfondo è il motivo
dell’indebitamento da parte degli Stati e la sua crescita
esponenziale.
Nulla si dice, ad esempio
delle origini dell’indebitamento estero dei Paesi in via di sviluppo.
Origine che come si sa è individuabile alla fine degli anni Sessanta,
quando iniziarono a manifestarsi le prime difficoltà di bilancia dei
pagamenti.
Se l’autore, infatti, avesse collegato l’attuale situazione agli anni
sessanta, alla fine della fase coloniale e alla progressiva conquista
dell’indipendenza da parte di molti Paesi africani, sarebbe più facile
per il lettore collocare e comprendere i comportamenti dei vari attori
nel sistema globale attuale.
E’ difficile, infatti, comprendere appieno le attuali congiunture se non
si considera come lo sviluppo fu fortemente condizionato anche da
avvenimenti imprevedibili e comunque esterni ai piani di sviluppo quale
l’andamento del costo del petrolio negli anni ’70.
L’assenza di una ricostruzione storica agevola la presa di una posizione
critica rispetto agli organismi mondiali per la situazione odierna ma
non è rispettosa di fatti che hanno condizionato scelte e portato a
risultati peggiori di quelli prevedibili ed auspicabili.
Il modificarsi delle condizioni impedisce di fatto un giudizio sulle
teorie applicate a meno che si voglia ritenere che chi opera a livello
mondiale lo faccia sempre per il suo interesse con dolo, senza curarsi
degli altri e dei danni procurati.
Inoltre da un professore di economia ci si sarebbe potuto aspettare una
maggiore attenzione alle valutazioni economiche e alle spiegazioni (e
confutazioni) dalle teorie e dei principi applicati o almeno ispiratori
di certe scelte macroeconomiche.
Ad esempio si sarebbe
potuto affrontare più attentamente il rapporto tra debito e crescita
che pure è stato recentemente oggetto di molti studi specialistici
(3).
Tuttavia una scelta di questo tipo avrebbe però reso il testo più
specialistico e quindi meno “alla portata di tutti” o almeno più
diffide da comprendere ed apprezzare.
Si sarebbe così rischiato di perdere (o si sarebbe almeno fortemente
indebolito) il grido di allarme che l’autore voleva lanciare per la
situazione mondiale e per il suo evolversi verso la povertà e non
verso la ricchezza.
"Le economie nazionali stanno
crollando, la disoccupazione dilaga. Carestie locali sono scoppiate
nell'Africa subsahariana, nell'Asia meridionale e in America
Latina". La crisi economica che attanaglia il pianeta "è più
devastante della Grande Depressione degli anni Trenta. Ha
implicazioni geopolitiche di più vasta portata; lo sconvolgimento
economico è stato accompagnato anche dallo scoppio di guerre
regionali, dalla frantumazione di società nazionali e, in alcuni
casi, dalla distruzione di interi paesi. E' di gran lunga la più
grave crisi della storia moderna".
Un grido che, a parere
di chi scrive, stante la situazione attuale è difficile non
ascoltare con un certo interesse.
NOTE
(1) Quella qui recensita
è, infatti, la seconda edizione del saggio "La globalizzazione
della povertà", che ha avuto un notevole successo commerciale e
di critica e che viene (ri)presentata dall’autore in una nuova
versione, completamente rivista, aggiornata e notevolmente ampliata,
quasi che il passaggio di soli pochi anni avesse stravolto il quadro
originario che faceva dia sfondo al primo libro.
Michel
Chossudovsky è attualmente
ordinario di economia politica nell’Università di
Ottawa, in Canada, dopo aver insegnato in diverse parti del mondo
tra cui Cile e Argentina. Nella prefazione del libro racconta come
la sua attenzione per certi problemi economici legati alla
globalizzazione, al commercio estero, alla disoccupazione e alla
povertà sia strettamente intrecciata con le sue esperienze di vita.
Ad esempio alla drammatica situazione del Cile nel 1973 dove
insegnava e dove vide applicare le teorie dei monetaristi (i
cosiddetti “Chicago boys”) ad un Paese soggetto a un brusco
cambiamento politico con risultati drammatici (si pensi
all’incremento del 264% del costo del pane in pochi giorni) per la
qualità della vita degli abitanti.
(2)
Michel
Chossudovsky è attualmente
ordinario di economia politica nell’Università di
Ottawa, in Canada, dopo aver insegnato in diverse parti del mondo
tra cui Cile e Argentina. Nella prefazione del libro racconta come
la sua attenzione per certi problemi economici legati alla
globalizzazione, al commercio estero, alla disoccupazione e alla
povertà sia strettamente intrecciata con le sue esperienze di vita.
Ad esempio alla drammatica situazione del Cile nel 1973 dove
insegnava e dove vide applicare le teorie dei monetaristi (i
cosiddetti “Chicago boys”) ad un Paese soggetto a un brusco
cambiamento politico con risultati drammatici (si pensi
all’incremento del 264% del costo del pane in pochi giorni) per la
qualità della vita degli abitanti.
(3) Nulla ad esempio
si dice sulle interpretazioni fatte dalla scuola neoclassica e
da quella keynesiana sul rapporto fra debito e crescita.
Nulla degli studi più
recenti della seconda metà degli anni Ottanta, quando la crisi del
debito era già scoppiata. Lavori di stampo neoclassico quali quelli
di Krugman e Sachs che sostennero, per la prima volta, una relazione
non lineare tra debito e crescita, introducendo, nella letteratura
della finanza internazionale, il concetto di “strangolamento del
debito” (debt overhang).
Ogni analisi teorica di approfondimento sembra assorbita nel nulla
così come ogni riferimento ai lavori empirici che hanno approfondito
i singoli casi. Quasi non fossero utili a comprendere e sostenere le
tesi del libro. (a cura di
Maurizio Canauz)

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IL
MERCATO D'AZZARDO
Guido Rossi Adelphi Edizioni, 2008
pagg. 110, € 13'50 |
Il mercato d'azzardo si identifica oggi con il
mercato finanziario; il titolo è lo stesso di un
saggio di Keynes, di cui viene citato il passo,
tratto da The General Theory of Employment, Interest
and Money, London-New York, 1936, p.159:”Quando
l'accumulazione di capitale di un paese diventa il
sottoprodotto delle attività di un casinò, è
probabile che le cose vadano male. Per questo si
ritiene che i casinò dovrebbero essere, nel pubblico
interesse, inaccessibili e costosi.E lo stesso vale,
forse per le borse”.
L'autore considera i diversi e complessi aspetti
della società per azioni, così come si evoluta nel
tempo, il potere delle grosse corporation, il ruolo
della corporate governance, i mercati ed il futuro
del capitalismo finanziario.Il quadro, che ne
risulta, evidenzia i nodi cruciali che hanno portato
il mercato finanziario ad essere il mercato della
liquidità piuttosto che quello degli investimenti.
E questo sulla base di pregiudizi che ne hanno
influenzato l'andamento in una direzione perversa ed
autodistruttiva..
Da un lato, si tratta della convinzione radicata che
un mercato completamente deregolato sia, ad un
tempo, fonte del benessere e del diritto.Per l'altro
verso, vi è la rimozione del dato che, nella storia
del capitalismo, la libera concorrenza ha potuto
dispiegare pienamente i suoi effetti positivi solo
in presenza di leggi anti-trust.
La storia della società per azioni si articola
attraverso oscillazioni tra norme imperative e
libertà contrattuale per disciplinare di volta in
volta, a seconda del contesto, i conflitti di
interesse.In questa dinamica tra i vincoli della
legge e la libertà contrattuale come fonte di
diritto vengono a mutare i tratti caratteristici
della società per azioni.
Nelle società, specie in quelle di grandi
dimensioni, si determina il fenomeno della
dissociazione tra proprietà e controllo.Mentre
nell'impresa individuale vi è un rapporto diretto
tra imprenditore e proprietario, questo rapporto non
è più applicabile nella società per azioni, in
quanto, quando l'oggetto sociale riguarda conoscenze
tecnologiche, l'elettronica, le comunicazioni
satellitari ecc,prevale una rilevanza pubblica
incompatibile con la proprietà privata.
Anche il principio “un'azione, un voto” che
competerebbe all'azionista/proprietario in molti
casi risulta vanificato. Infatti secondo un rapporto
redatto da International Shareholder Services dall'European
Corporate Governance e da Sherman & Sterling, il 44%
delle 464 società europee quotate dichiara di aver
adottato almeno uno dei più rilevanti mezzi di
controllo, quali piramidi,scatole cinesi, azioni di
voto plurimo o diversificate per categorie, patti di
sindacato, partecipazioni incrociate ed altre.In
questo modo viene a prevalere il principio
minoritario e tutti gli shareholders della società
sono tagliati fuori dai processi decisionali e dal
controllo.
Nel controllo delle minoranze specie quelle formate
da catene di controllo si determina il fenomeno del
tunnelling, ossia la possibilità di far transitare
flussi finanziari dalla società ad azionariato
diffuso verso quelle che costituiscono la catena; è
ciò permette di distribuire dividendi o compensi
elevatissimi ai managers e ai consulenti o di
stipulare contratti fuori mercato.
La mancanza di trasparenza che ne deriva provoca la
difficoltà e, in alcuni casi, l'impossibilità di
controllo anche da parte della società controllante
su le società controllate e quindi di esercitare le
azioni di responsabilità.
Si forma in questo modo un potere senza
responsabilità
La XIII Direttiva Europea, stabilisce limitazioni a
queste pratiche nel caso di offerte pubbliche
d'acquisto, accolte nell'art.104 bis del TUF (sett.2007).
Le azioni quotate, che secondo Kelsen ed Ascarelli
erano considerate beni di secondo grado degli
azionisti, hanno mutato il loro contenuto e ad un
tempo la struttura e la natura delle società che
ricorrono al pubblico risparmio.Il caso Blackstone
evidenzia molto bene il fenomeno.La Blackstone
“è un fondo di private equity fra i più redditizi
del mondo e ha realizzato i suoi (cospicui) guadagni
con un escamotage semplicissimo: ha fatto uscire
dalla borsa società molto importanti, liberandole
così dalle pressioni dei mercati e dalle
regolamentazioni, spesso troppo gravose, delle
autorità di vigilanza. Ma adesso il fondo,
attraverso una sofisticata ristrutturazione, ha
deciso di quotarsi, cioè di sottoporsi alla
disciplina dei mercati regolamentati, disperdendo la
proprietà, ammesso che si possa chiamare ancora
così, fra il pubblico degli
investitori..................Il pubblico
sottoscriverà quindi units, cioè quote di
partecipazione, di una limited partnership(appunto
la Blackstone Group L.P.)la quale controllerà tutte
le società che possiedono e operanosui fondi(di
private equity,immobiliari, hedge funds, fondi di
fondi,fondi chiusi e così via)La società quotata
sarà gestita, con pieni poteri, da un general
partner, posseduto esclusivament dagli attuali
amministratori del fondo. I nuovi sottoscrittori,
contrariamente agli azionisti, non avranno alcun
diritto amministrativo o di iniziativa sulla
gestione dei fondi, e neppure alcun diritto di voto,
specie per quel che concerne la nomina o la revoca
dei gestori-amministratori, gli unici a decidere.”
In questo modo la creazione di valore per gli
azionisti e l'interesse sociale non sono più
l'elemento caratterizzante delle società per azioni,
che assumerebbe la natura non più della persona
giuridica, ma quella di un nexus of contracts,
ossiadi una rete di rapporti contrattuali tra
azionisti e amministratori, fra azionisti e
creditori, con la limitazione della responsabilità
patrimoniale.
Per Coase, il massimo teorico del contrattualismo,il
vero limite del mercato è la libertà, libertà nella
definizione degli statuti con la costituzione della
corporate governace e di creare strumenti
finanziari, quali i junk bonds o mutui sub-prime, la
cui libertà di circolazione ha provocato la caduta
delle quotazioni su tutti i mercati.Queste crisi
sono state risolte dalle banche centrali e non dal
meccanismo spontaneo del mercato.
L'elemento in comune nei vari mercati regolamentati
è l'introduzione della corporate governance il cui
obiettivo avrebbe dovuto essere la trasparenza e la
creazione di valore per gli azionisti., Infatti la
nomina di amministratori indipendenti avrebbe
garantitoun miglior collegamento tra l'impresa e il
mercato. In realtà l'attenzione si è rivolta sui
prezzi di borsa piuttosto che sui risultati
dell'impresa, sul breve termine anziché sul medio e
lungo, perchè i loro compensi si basano sulle stock
option legate all'andamento delle borse.
Il futuro del capitalismo finanziario richiede
diversi aggiustamenti per trovare un punto di
equilibrio nel rapporto tra norme imperative e
libertà contrattuale e nel definire gli interessi
che il diritto societario dovrà tutelare. Si tratta
inoltre di riorientare strategie per l'impresa verso
investimenti sul medio e lungo termine, verso i
settori della ricerca e sviluppo.Nel testo “La
globalizzazione che funziona”Stiglitz ipotizza una
legislazione ed una corte internazionale ,poichè
manca un apparato coercitivo per dare esecuzione
alle sentenze in caso di conflitti nell'esecuzione
dei contratti.
Allo scopo occorre tener conto di alcuni principi
tra i quali.
a) il contratto non può sostituire il diritto ed è
necessaria una maggiore attenzione alle asimmetrie
informative.
b)il principio della trasparenza dei mercati,
l'uniformità dei principi contabili, la
responsabilità del controllo, nonostante alcuni
margini di incertezza, soprattutto in merito ai
conflitti di interesse, fanno già parte di alcuni
ordinamenti.
Le nuove norme dovranno prevedere sanzioni adeguate
sotto il profilo civile e penale.
In conclusione le società che ricorrono al pubblico
risparmio, in particolare i fondi, hanno assunto le
caratteristiche della partnership,delle società di
persone.I possibili vantaggi, che ne derivano
riguarderebbero: “la possibilità di recesso
incondizionata da parte dgli investitori, fuori dal
blocco del capitale sociale solo trasferibile in
borsa, la conseguente scomparsa del mercato del
controllo, l'identità tra manager e
proprietari(dunque meno possibiltà di frodare per i
primi, più possibilità di decidere in proprio per i
secondi) e un regime fiscale meno oppressivo.”
In questo contesto la società per azioni, istituto
centrale dello sviluppo capitalista, coesisterà con
queste forme societarie che alle origini ne avevano
preceduto la creazione.
(a cura di Elide Sorrenti)

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Guido
Rossi
PERCHE' FILOSOFIA
Editrice San Raffaele, Milano Maggio 2008
pagg.122, €14 |
Questo aureo libretto, aureo perchè la levità della
scrittura si coniuga perfettamente con la profondità
delle tematiche, raccoglie i resoconti di una serie
di lezioni e conversazioni con gli studenti, tenute
alla Facoltà di Filosofia dell'Università
Vita-Salute San Raffaele di Milano, dove l'autore
insegna Filosofia del Diritto.
Egli è anche docente di
Diritto Commerciale presso l'Università L.Bocconi di Milano ed esercita la
professione di avvocato.Alla stesura del testo hanno contribuito due
laureandi, Alessandro Aresu e Matteo Scurati.
Come da lui stesso
dichiarato, ha sempre coltivato la filosofia non a latere ma con
costante e profondo interesse. Fin dagli anni universitari alternava le
lezioni di diritto con quelle di filosofia ascoltando professori di chiara
fama che, a quei tempi, animavano la cultura italiana quali Giulio Preti,
Ludivico Geymonat, Enzo Paci, Remo Cantoni e negli USA le lezioni di un
giovane e brillante Noam Chomsky.
Il tema è anticipato da una
citazione di Adam Smith:
”La professione dei
filosofi non è quella di fare qualche cosa, ma di osservare ogni cosa.
Essi,per questa ragione,
sono spesso capaci di combinare insieme le proprietà degli oggetti più
distanti e disparati.”
La filosofia viene qui
percepita come necessità di apprendere oltre la “propria” disciplina per
avere uno sguardo più ampio rispetto ai problemi inerenti il nostro
conoscere e il nostro fare e
questa necessità viene
proposta ai lettori.
La filosofia consente di
cogliere quei nessi, quelle relazioni tra i dati dell'esperienza che
altrimenti verrebbero trascurati se si rimane nella cerchia ristretta del
proprio sapere o delle proprie attività. Tale limitatezza impedisce una
visione maggiormente significativa di quello che si fa e di quello che sta
attorno a noi.
Con uno” sguardo filosofico”
si può studiare, imparare e lavorare meglio.
In questo senso la filosofia
ci offre delle modalità con cui interpretare i modelli e gli schemi per
mezzo dei quali diamo significato all'esperienza.e ne classifichiamo i dati.
Tali modelli e schemi rimangono latenti senza una nostra meta-riflessione.
L'asse portante della
trattazione esprime la necessità di instaurare la democrazia della
discussione che, per essere tale, deve avere alla base una simmetria
informativa per garantire la partecipazione di cittadini liberi e
consapevoli.
Una fortissima critica al
Supercapitalismo, in cui viviamo, evidenzia come si sia accentuato il
fenomeno delle asimmetrie informative con il conseguente dominio dei
contratti di adesione nella vita pratica e come la non completezza delle
informazioni porti poi alla crisi della giustizia
In questo quadro, secondo
Robert Reich, la persona umana si divide schizzofrenicamente in:
consumatore/investitore e in cittadino.
Il consumatore/investitore
appartiene all'area del capitalismo, il cittadino, a quella della
democrazia. Il Supercapitalismo ha sbilanciato questa relazione
enfatizzando il ruolo del consumatore/investitore e impoverendo quello del
cittadino. Vi è quindi uno scadimento della dignità umana e dei processi
democratici.
Si pensi all'esempio di Wall
Mart che, dagli anni Sessanta ad oggi, ha portato il prezzo di un televisore
da 450 a 60 dollari. Questo risparmio, per la felicità del consumatore, è
possibile grazie alla pratica dei bassi salari ed alla libertà di
licenziare.
Inoltre si è verificata una
enorme differenziazione dei compensi all'interno della stessa azienda. Ad
esempio, sempre negli anni Sessanta un lavoratore della General Motors
percepiva un salario sessanta volte inferiore a quello del CEO, oggi la
forbice delle retribuzioni si è enormemente allargata in quanto il compenso
dell'amministratore della Wall Mart supera di novecento volte il salario
medio di un lavoratore.
Nel Supercapitalismo non vi
è posto per la piena occupazione così come concepita da Keynes.
L'investitore, dal canto
suo, per avere maggiori ritorni, è disposto(o aggirato dalle banche) ad
acquistare titoli anche non perfettamente trasparenti, come futures,
derivati, titoli strutturati,ecc, senza una corretta valutazione dei rischi.
I casi Enron, Cirio e Parmalat ed altri simili hanno evidenziato in tutta la
loro gravità come l'investitore non sia tutelato dalla legge nel proprio
paese ed ancor meno se gli investimenti, come nei casi citati, coinvolgono
anche paesi terzi,pratica ormai di routine nell'era della globalizzazione
finanziaria.
Nel Supercapitalismo vi è
anche un' enorme squilibrio tra i servizi e la produzione. .
Bisogna ripensare
l'organizzazione del lavoro e delle relazioni industriali; la
parcellizzazione dei ruoli genera forme di lavoro acritico dovuto alla
struttura prevalentemente autocratica delle imprese ad ogni livello.
Nonostante l'informatizzazione favorisca il lavoro di gruppo e la
circolazione delle conoscenze, nella sostanza poi si riproduce l'isolamento
del lavoratore.
Tali situazioni possono
essere corrette se si supera una considerazione limitata al proprio compito
collocandolo in una visione dell'insieme.
Il ripensamento del ruolo
dell'impresa capitalistica attuale ha imposto una serie di interventi
legislativi sul diritto societario.Anche la sicurezza nei luoghi di lavoro
richiede che la gestione dei rischi non sia lasciata ai privati ma che le
regole tecniche procedurali siano tradotte in norme vincolanti.
L'asimmetria informativa
pone pure il delicato problema della capitalizzazione, del diritto di
appropriazione e del conflitto di interesse. Un tempo era il capitale
fisico, costituito da immobili, impianti, scorte, denaro e titoli, a
determinare il valore di una impresa, anche ai fini della garanzia
patrimoniale dei creditori; oggi prevale invece la considerazione per i beni
immateriali, quali l'accesso alla conoscenza e alla rete, che ne determinano
l'importanza e il peso, anche se vi sono delle difficoltà ad effettuarne
valutazioni contabili attendibili.
Viviamo nell'epoca
dell'informazione, che spesso non è veritiera, e della comunicazione che
dovrebbero assicurare la discussione ed il confronto in un processo
democratico, la scarsità di informazioni e l'asimmetria informativa
producono invece la democrazia dell'ignoranza.
Un approccio filosofico è in
grado di rompere questo circolo vizioso affermando che l'uomo deve essere
anche cittadino non solo consumatore/investitore.
La filosofia deve essere
concepita come domanda di democrazia; i cittadini essere consapevoli dei
problemi cruciali del mondo moderno(terrorismo, pena di morte, crisi della
democrazia) anche con la mediazione delle società intermedie e della
cooperazione. L'esercizio del diritto di voto da solo non è sufficiente. E'
necessaria una educazione al giudizio che solo la filosofia può dare.
E siccome il campo
esplorativo della filosofia comprende anche la politica, il diritto e la
scienza sorge l'esigenza di considerare, soprattutto nell'ambito del
lavoro,anche i diritti degli altri.
In una vera democrazia
nessuno deve poter predisporre degli obblighi a carico di un altro, senza
che questi ne sia consapevole, come avviene con i contratti di adesione, e
il venir meno del conflitto di interessi dev'essere assunto come principio
di diritto.
La via d'uscita sta nella
possibilità di attuare il principio di differenza di JohnRawls, in
virtù del quale i maggiori vantaggi devono sempre andare a favore di chi
sta meno bene.
I processi di
globalizzazione così come si dispiegano oggi attraverso una concorrenza
sfrenata avvantaggiano poche elites danneggiando i paesi in via di
sviluppo e gli interessi dei lavoratori e delle classi medie nei paesi
ricchi.
L'Europa ha unificato la
moneta,ma non le istituzioni finanziarie e non affronta con determinazione
quello che invece altri stanno facendo, in primo luogo la regolamentazione
dei mercati finanziari, e una legislazione comune per tutti i lavoratori
europei.
E' un'Europa in crisi di
identità in cui si sta imponendo il tema dei diritti umani, sia a livello
teorico sia nella prassi politica..
Come sostiene l'autore:“E'
un'Europa che non può che essere laica e ispirata alle sue origini
illuministiche e alla difesa dei diritti umani. Secondo Spinoza la vera
democrazia deve essere a-religiosa. Non è per nulla dunque necessario né
indipensabile essere atei, ma l'ateismo come la fede religiosa appartengono
alla sfera individuale, cioè per usare la distinzione di Hannah Arendt,
appartengono all'individuo e non al cittadino inserito nel discorso
politico-pubblico. Nella sfera sociale, nel contratto sociale che ci unisce
le regole devono essere dettate, secondo John Rawls dal “velo di
ignoranza”sulle proprie condizioni e credenze, sicchè non possono obbedire a
istanze o fedi religiose specifiche, di una religione piuttosto che di
un'altra, ma devono ammetterle tutte nella sfera delle libertà personali.”
(a cura di Elide Sorrenti)
Milano, agosto 2008

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Umberto Galimberti
L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani
Feltrinelli (collana Serie bianca) € 10,20 |
La
tesi di fondo che anima il nuovo saggio di Umberto
Galimberti, filosofo, psicologo e saggista di
successo, è che il mondo di oggi, in particolare
quello dei giovani di oggi, sia pervaso dal
nichilismo e dall’assenza di valori e di senso. Il
nichilismo infatti è quell’ospite inquietante, ben
descritto da Nietzsche a fine Ottocento, che oggi
torna ad aggirarsi nella vita dei ragazzi e delle
ragazze italiane, cancellando prospettive e
orizzonti, intristendone le passioni e fiaccandone
l’anima. In un mondo che funziona esclusivamente
secondo le leggi della tecnica e del mercato, scrive
il filosofo, i giovani si sentono disincantati e
sfiduciati, si scoprono disinteressati alla scuola,
emotivamente analfabeti, inariditi dentro. Solo il
mercato sembra interessarsi di loro per condurli
sulle vie del divertimento e del consumo, dove però
– avverte Galimberti – “ciò che si consuma è la loro
stessa vita, che più non riesce a proiettarsi in un
futuro capace di far intravedere una qualche
promessa”.
Questo stato di disagio fa sì che le famiglie si
allarmino mentre risultano inefficaci i rimedi
elaborati dalla nostra cultura sia nella versione
religiosa, perché “Dio è davvero morto”, sia nella
versione laica e illuminista, perché non sembra che
la Ragione sia oggi il regolatore dei rapporti tra
gli uomini. Nel deserto emotivo, creato dal
nichilismo, attecchiscono secondo Galimberti i
fenomeni di devianza giovanile noti alle cronache:
il bullismo nelle scuole, le violenze degli ultrà
negli stadi, l’ecstasy e le altre droghe nelle
discoteche, i sassi gettati dal cavalcavia delle
autostrade, sino ai gesti più estremi di terrorismo
politico, di omicidio e di suicidio.
Ma come uscire da questo cupo scenario, che è per
Galimberti innanzi tutto un problema culturale, e
non psicologico e sociale? Come andare oltre il
nichilismo? La soluzione c’è, scrive il docente di
Venezia. E passa, manco a dirlo, ancora per Nietsche,
quando ne La gaia scienza il grande filosofo tedesco
scriveva: “La vita non mi ha disilluso. Di anno in
anno la trovo sempre più ricca, più desiderabile e
più misteriosa (…) La vita come mezzo di conoscenza.
Con questo principio nel cuore si può non soltanto
valorosamente, ma anche gioiosamente vivere e
gioiosamente ridere”. La proposta di Galimberti è
dunque quella di risvegliare e consentire ai giovani
di dischiudere il loro segreto, spesso a loro stessi
ignoto. Se gli adulti sapranno insegnare ai ragazzi
l’”arte del vivere”, come dicevano i Greci antichi,
che consiste nel riconoscere le proprie capacità,
nell’esplicitarle e vederle fiorire secondo misura,
allora con questo primo passo i giovani potrebbero
innamorarsi di sé. E quell’”ospite inquietante”,
messo finalmente alla porta, non sarebbe passato
invano dalle loro esistenze. (Annamaria Simonelli)

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Glauco Maggi, Maria Teresa Cometto,
Figli & soldi
Sperling & Kupfer 2008
pp. 216 € 16,50 |
 |
Dai telefonini alle carte prepagate, dalla
paghetta ai primi lavori, all'uso responsabile del
denaro: l'educazione finanziaria dei figli spiegata
con risvolti etici, pratici e tecnici.
La
recensione del libro ed il
Blog degli autori |

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Rinaldi E., (2007), Giovani e denaro: percorsi di
socializzazione economica Milano:
Unicopli |
MONOGRAFIA
(ISBN-978-88-400-1226-1)
 |
La capacità di utilizzare il denaro
non rientra tra i comportamenti istintivi del bambino, tuttavia è
una risorsa essenziale per garantire la sua integrazione nella
società contemporanea. Attraverso quali processi egli apprende ad
utilizzare il denaro e relazionarsi con l’economia? Che ruolo
giocano la famiglia, la scuola e il gruppo dei pari in questi
processi? E come cambia il suo rapporto con il denaro nel corso
della transizione all’età adulta? Il volume intende rispondere a
queste domande illustrando le caratteristiche principali dei
processi di socializzazione economica in tre fasi dell’età
dell’individuo: l’infanzia, l’adolescenza e la giovinezza.
Attraverso uno sguardo prettamente sociologico, la prima parte del
volume riassume le indicazioni più significative emerse dalla
letteratura in relazione all’influenza di alcuni fattori sociali (il
genere, la classe socio-economica, il contesto macro-culturale) e al
ruolo degli agenti socializzativi. La seconda parte approfondisce
invece, attraverso una ricerca qualitativa condotta su un campione
di giovani-adulti e dei loro genitori, il ruolo del denaro come
mediatore nei rapporti familiari e l’importanza delle risorse
economiche nel processo di conquista dell’autonomia dalla famiglia
di origine. (Enrico Castrovilli)
Per ulteriori informazioni:
emanuela.rinaldi@unicatt.it
|
L'autrice, una
giovane studiosa docente presso la facoltà di Scienze della
formazione dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano,
analizza i processi di socializzazione economica dei giovani.
Il rigore metodologico che caratterizza il lavoro e la ricchezza di
riferimenti teorici offrono uno strumento prezioso per la lettura
dei comportamenti e degli atteggiamenti dei giovani d'oggi,ed anche
di quegli adulti con i quali interagiscono con maggiore continuità,
come i membri della propria famiglia.
Ne risulta un quadro molto articolato con diversi spessori sui
versanti psicologico e sociologico, dove si evidenzia come il
bambino prima, il giovane e il giovane/adulto poi acquisiscono
conoscenze e competenze su quella realtà sociale che è il mondo
degli scambi e della produzione.
L'autrice definisce i processi di socializzazione economica come
” quei processi specifici di formazione della personalità e del
carattere sociale di rilevanza diretta nella sfera economica.
Attraverso la socializzazione economica gli individui acquisiscono,
sin dall'infanzia, informazioni, valori e competenze che permettono
loro di interagire nel sistema economico della società in cui
vivono; grazie ad essa, in particolare, le persone apprendono varie
modalità di gestione del denaro, sviluppano atteggiamenti relativi
all'economia, maturano forme differenti di propensione al
risparmio,al rischio o al debito, fino a comportamenti più
patologici legati ad esempio, all'avarizia o al gioco d'azzardo”
Si tratta di processi di apprendimento, che avvengono attraverso
esperienze quotidiane in cui il denaro inteso principalmente, almeno
in una prima fase, come mezzo di scambio,piuttosto che come riserva
di valore, assume, di volta in volta, significati qualificanti
modalità diverse di relazione con impliciti condizionamenti di tipo
culturale ed ambientale.
La prima parte della trattazione considera in una prospettiva
sociologica il mondo economico dei bambini, la socializzazione
economica degli adolescenti, il denaro nella transizione all'età
adulta dei giovani.Una ricca letteratura nazionale ed
internazionale, in particolare del mondo anglosassone, fornisce dati
molto significativi di questa evoluzione.
Il mondo
economico dei bambini
Durante l'infanzia
le rappresentazioni economiche dei bambini si formano in modo
spontaneo e via via si strutturano dando significati ingenui,
dapprima, e più esplicativi, successivamente, degli atti di
scambio,delle operazioni di dare/avere in cui il denaro viene ceduto
per ottenere un dato oggetto. La prima difficoltà per il bambino è
quella di capire la questione dei resti di moneta che il
commerciante consegna insieme alla merce acquistata, poi con
l'acquisizione di conoscenze aritmetiche nella scuola elementare il
problema si chiarisce.
In questa fase inizia anche un processo di alfabetizzazione
economica in cui il vocabolario si arricchisce di termini quali
risparmio,lavoro, salario, prezzi, denaro/moneta, rispamio, banca,
ecc. anche se a questi termini non corrispondono ancora
concettualizzazioni formali vere e proprie.
La
socializzazione economica degli adolescenti
Per gli adolescenti,
l'esigenza di maggiore autonomia e di orientamento per il proprio
futuro ne amplia l'orizzonte ma anche lo complica. L'autrice
evidenzia con dati molto significativi,ricavati da numerose
inchieste sul tema, come la socializzazione economica avvenga
principalmente nella famiglia, al cui interno si effettuano
erogazioni monetarie a titolo gratuito come regali e paghette o a
titolo oneroso come corrispettivo di lavoretti effettuati
dall'adolescente in modo saltuario o periodico.
In questa fase, alla famiglia si affiancano altri agenti di
socializzazione, non meno importanti, quali il gruppo dei pari,la
scuola,i mass media, le banche e le imprese, che influiscono sulle
conoscenze dei vari ambiti economici, sugli atteggiamenti e sulle
motivazioni in rapporto ai consumi, al risparmio e alle fonti da cui
proviene il denaro, tra le quali è riconosciuto in via principale il
lavoro.
A queste conoscenze maggiormente articolate si assumono anche
giudizi di valore. Con sfumature diverse a seconda delle differenze
di sesso, di provenienza e di ceto sociale, il denaro viene
percepito come un elemento che produce felicità e potere e che va
gestito in modo piuttosto oculato.
La transizione all'età adulta.
L'analisi dei
processi di socializzazione che avvengono in questo periodo comporta
invece alcune difficoltà. Si tratta di individuare quando finisce la
giovinezza e comincia l'età adulta.I riferimenti biologici, e gli
eventi che contrassegnavano questo passaggio, come il compimento
degli studi, l'indipendenza economica per mezzo del lavoro, il
cambiamento di status con il matrimonio o la convivenza e la
genitorialità potevano essere indicatori certi dell'autonomia e
della maturità acquisite dalle persone.
Ora invece i cambiamenti radicali negli stili di vita e nei modi di
produzione, determinati dalle nuove tecnologie, hanno introdotto
elementi di rischio e di incertezza nel contesto sociale con scenari
di grande precarietà.
Si è determinato
così un rallentamento nel processo di socializzazione economica per
i giovani/adulti, che continuano a rimanere nella famiglia di
origine, la cosìddetta ”famiglia lunga”.La rinuncia ad una autentica
autonomia di vita viene giustificata.con diverse motivazioni, a
volte determinate dal lavoro precario e dalla mancanza di politiche
di sostegno per i giovani, a volte per inerzia e per non rinunciare
ai servizi che la famiglia continua a produrre.
Una ricerca empirica nell'area milanese.
Nella seconda parte
del testo si analizzano i dati emersi da una ricerca empirica di
grande interesse ed originalità effettuata nell'area milanese
dall'autrice.
Sono stati
intervistati 26 giovani/adulti di entrambi i sessi e 20 dei loro
genitori, questi ultimi separatamente gli uni dagli altri, dato il
loro diverso ruolo all'interno della famiglia.Il campione è stato
selezionato in base ad alcuni criteri che potevano assicurare la
massima eterogeneità.L'autrice ha utilizzato il metodo della
intervista non-standard con riferimento al modello del colloquio
motivazionale in profondità non direttivo, che consente una
maggiore libertà di espressione agli intervistati.Il campo di
indagine è stato limitato da due condizioni:
l
i giovani dovevano avere completato il ciclo degli
studi e lavoravano da almeno due anni
l
al momento dell'intervista non si trovavano in
situazioni di convivenza con un partner, ma vivevano da soli o in
famiglia
Si tratta di un
indagine di tipo qualitatitivo atta a mettere in evidenza le
differenze dei vissuti personali. nel quadro della tendenza comune
di un legame permanente con la famiglia.
Quale è il ruolo del denaro e con quali modalità si distribuiscono
le risorse, i compiti e gli spazi di libertà ed autonomia
all'interno del nucleo famigliare?
Gli orientamenti che si possono ricavare dal punto di vista della
socializzazione economica presentano modalità di scambi
intergenerazionali diversificate con situazioni, a volte, ambigue e
contradditorie.
Ad esempio compare la figura del figlio adulto a metà. L'aver
acquisito l'indipendenza economica fa sì che il figlio si comporti
in modo competente e responsabile nel suo ambito lavorativo, in
altri termini da adulto. Permanendo invece inalterati, salvo
eccezioni, i rapporti ed i ruoli all'interno della famiglia, il suo
atteggiamento resta sempre quello del minore.In questo caso il
lavoro ed il denaro posseduto in proprio non hanno contribuito ad
affermare la piena autonomia del carattere.
Anche gli atteggiamenti dei genitori presentano delle ambiguità.
Prevalgono il senso di solidarietà e il desiderio di rendere la vita
più facile e bella per i propri figli; anche se, a volte, si
percepisce una volontà latentedi continuare ad esercitare un ruolo
di difesa e di controllo dei figli attraverso le risorse economiche.
E, in certi casi, vi si accompagna anche l'aspettativa di ricevere
in cambio sicurezza ed assistenza quando il processo di
invecchiamento lo richiederà.
Conclusione
Famiglia, scuola,
mondo del lavoro, mercati e stato costituiscono un sistema di
organizzazioni in cui si svolgono scambi, azionati dai flussi
monetari, con diversi gradi di libertà e di vincoli.
Nei processi di socializzazione economica, esaminati in questo
testo, il denaro assume significati più aderenti ai vissuti
personali e ai relativi sistemi di valori, rispetto ad una visione
strettamente economica, che lo considera unicamente mezzo di
scambio, riserva e misuratore di valori.
Da un lato, il denaro, può esprimere molti significati simbolici
quali quelli del potere, dell'autonomia e della felicità personali,
da un altro lato, viene a svolgere funzioni operative e, quindi,
implica l'assunzione di determinati comportamenti. Attraverso
l'allocazione delle risorse risulta mediatore e propulsore di
relazioni, spesso asimmetriche tra le parti, sia in seno alla
famiglia sia in altri ambiti sociali.
In questo quadro concettuale lo sviluppo cognitivo e morale di ogni
persona, ossia la sua educazione, è fortemente legato, anche se non
in via esclusiva, al suo rapporto con il denaro.
Le rappresentazioni che ne derivano, l'assumere criteri di prudenza
e correttezza nell'azione, il modo di considerare sé stesso rispetto
agli altri, i sentimenti di benevolenza o meno divengono elementi
del carattere e retroagiscono poi sui processi di sviluppo sociale
ed economico in modo virtuoso o perverso, a seconda della qualità
dell'approccio.
Da questo punto di vista la lettura del libro “Giovani e Denaro” è
molto stimolante. ed utilissima agli educatori, ai famigliari, e
alle autorità che si occupano dei problemi giovanili. (Elide
Sorrenti)
Breve nota sull’autore
Emanuela Rinaldi è Dottore di
Ricerca in Sociologia e Metodologia della Ricerca Sociale. Svolge
attività di didattica e di ricerca presso la Facoltà di Scienze
della Formazione dell'Università Cattolica del Sacro Cuore,
collabora al corso di Sociologia generale e del cambiamento sociale
dell’Università IULM ed è consulente presso la Fondazione ISMU. Ha
svolto e pubblicato studi sulla socializzazione, i processi
migratori, il rapporto dei giovani con il denaro e la telefonia
mobile, l’educazione ai consumi in Italia e in Europa.
|

_______________________________________________________________________________________________
CLIL Economia
Business Studies in English
Ghisetti e Corvi Editori,
Milano 2005, Prezzo € 4,50 |
L’Apprendimento
Linguistico Integrato (ALI) con la metodologia CLIL (Content and Language
Integrated Learning) si sta affermando come una prospettiva ricca di
implicazioni stimolanti per allievi e docenti. Lo stimolo proviene dal fatto
di utilizzare l’apprendimento della lingue straniere come veicolo per
imparare al tempo stesso i contenuti disciplinari di qualsivoglia materia e
viceversa. Insegnare/apprendere una materia utilizzando una lingua straniera
presenta infatti un duplice vantaggio. Da un lato la lingua straniera è
fatta propria in modo naturale perché il suo studio non è fine a se stesso,
ma diviene veicolo per arricchire le conoscenze che fanno parte del bagaglio
personale di saperi. Dall’altro lato studiare materie letterarie,
scientifiche, economiche o sociali non in lingua italiana rende più vivi i
contenuti in diverse aree disciplinari, con le suggestioni e le
contaminazioni che possono derivare da altre culture straniere. Pensiamo
solo per fare qualche esempio ai filosofi tedeschi, ai romanzi francesi,
alla pittura spagnola, agli economisti britannici, ai giuristi americani.
A partire da queste
considerazioni l’USR per la Lombardia ed il Progetto Lingue Lombardia
ALI-CLIL hanno messo a punto una numerosa serie di materiali e di
iniziative. Tra di questi si segnala l’agile volumetto CLIL Economia,
Business Studies in English, realizzato con il contributo di un gruppo di
lavoro di docenti di materie giuridiche, economiche, aziendali e di lingua
straniera.. Esso contiene tre unità intitolate rispettivamente:
1.
I soggetti dell’economia globalizzata
2.
L’impresa
3.
L’evoluzione del mondo del lavoro negli ultimi due secoli
Le unità sono
presentate in modo strutturato. Vengono infatti specificate le discipline
coinvolte, le classi destinatarie, la durata dell’attività, gli obiettivi
disciplinari, quelli linguistici, tra di loro naturalmente integrati,
modalità di lavoro e di valutazione. Le unità sono a loro volta divise in
fasi di lavoro successive, ricche di contenuti, fogli di lavoro, letture in
lingua inglese o italiana, mappe, grafici e riferimenti bibliografici e
sitografici.
Le tre unità offrono
uno spaccato completo dei contenuti disciplinari coinvolti. La prima unità
sviluppa gli aspetti del sistema economico, dei bisogni e dei beni, dei
diversi operatori economici ed è destinata alla classi terze dei corsi ove
sono insegnate le materie economiche e giuridiche. La seconda unità
costruisce il contesto di realizzazione di un’idea imprenditoriale dal punto
di vista dell’ottica aziendale e giuridica ed è adatta alle classi quarte
nell’insegnamento delle materie economico-aziendali e del diritto. La terza
unità infine sviscera la questione del lavoro e del suo mercato anche dal
punto di vista storico e statistico, ed è rivolta alle classi quarte dove
vengono insegnate discipline giuridiche ed economiche.
Il metodo CLIL ha
quindi uno strumento in più per essere progettato e realizzato. Per il suo
successo resta naturalmente la difficoltà, consistente nella disponibilità
di disciplinaristi dotati di una buona padronanza di lingue straniere.
Sebbene queste figure non siano numerose, vi sono sicuramente docenti per i
quali l’esistenza di buoni materiali didattici può costituire la tentazione
giusta per cimentarsi in questa attività. Vale infine la pena ricordare che
la legge di riforma n.53/2003 e il relativo decreto legislativo n.226/2005
prevedono nelle classi quinte l’insegnamento in lingua inglese di una
disciplina non linguistica compresa nell’orario obbligatorio. (Enrico Castrovilli)

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Jeremy Rifkin
Il sogno europeo
Mondadori 2004
pagg. 444 euro 18,50
|
Rifkin è presidente della Foundation on Economic Trends
di Washington e insegna alla Wharton School of Finance and Commerce, dove
tiene corsi sul rapporto fra l’evoluzione della scienza e della tecnologia e
lo sviluppo economico, l’ambiente e la cultura. In Italia è stato più
volte tradotto (da Entropia del 1980 a La fine del lavoro del 1995 a L’era
dell’accesso del 2000) e invitato a discutere degli scenari dell’economia
e della società mondiale. In questo suo nuovo lavoro affronta il tema molto
attuale del confronto fra i principi che stanno alla base dell’economia e
della società americana e quelli che alimentano l’Europa. Rifkin afferma
senza mezzi termini che è l’Europa ad aver creato una nuova visione del
futuro, che sta lentamente eclissando il sogno americano. Questo, nato nello
spirito della “frontiera”, si basava sulla opportunità senza limiti per
ogni individuo di ricercare il successo, che si è sempre più identificato
con il successo economico. Ma questo Sogno sarebbe “troppo centrato sul
progresso materiale personale e troppo poco preoccupato del benessere generale
dell’umanità per continuare ad avere fascino e importanza in un mondo
caratterizzato dal rischio, dalla diversità e dall’interdipendenza.” E
quindi lascia spazio ad un Sogno europeo, di 25 Stati, oltre 450 milioni di
abitanti e un PIL di 10.500 miliardi di dollari, che hanno superato gli
Stati Uniti d’America e sono diventati la più importante economia della
terra. Inoltre, ricorda Rifkin, gran parte dei cittadini europei gode di
maggiori protezioni sociali, di una più lunga aspettativa di vita, di
migliore istruzione e più tempo libero e fenomeni negativi come povertà,
criminalità e degrado vi sono mediamente meno diffusi. Alla base di questo
successo vi sarebbe una diversa concezione dell’economia e della società,
un diverso Sogno, che “pone l’accento sulle relazioni comunitarie più che
sull’autonomia individuale, sulla diversità culturale più che
sull’assimilazione, sulla qualità della vita più che sull’accumulazione
di ricchezza, sullo sviluppo sostenibile più che sull’illimitata crescita,
sui diritti umani universali e su quelli della natura più che sui diritti di
proprietà.” Aver individuato queste diversità di fondo non significa
immaginare che facilmente gli americani accetteranno di mutare radicalmente la
loro visione del mondo, anche perché non sembra che abbiano abbandonato
l’idea di essere i primi, a costo di difendere il primato con ogni mezzo. E
poi vi sono nuovi attori , che avanzano sulla scena, Cina e India, non avranno
anche loro un Sogno da proporre? (Sergio Zangitolami)

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Federico Rampini
Il secolo cinese
Mondadori 2005
pagg. 350, euro
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Dopo aver dedicati due libri, nel 2000 e nel 2002, alla Nuova
Economia (New Economy), prima mettendo in evidenza la vera e propria
rivoluzione, trainata dalle nuove tecnologie dell’informazione, e poi
constatando la debolezza del sistema economico americano di mercato, ora
Rampini, gia corrispondente della Repubblica da Pechino e vice direttore del
Sole 24 ore, affronta la realtà e le prospettive della Cina. Con uno stile
giornalistico, ma assai bene informato per incontri e soggiorni diretti, in
tredici capitoli percorre la storia recente di questo grande paese, che sta
marciando economicamente a ritmi impressionanti e che ha raggiunto i primi
posti tra le economie più sviluppate del mondo. Naturalmente, il rapido
sviluppo pilotato, anche se si accetta il mercato e le sue logiche, dal potere
del partito unico, porta con sé e anzi accentua altrettanto enormi squilibri
sociali, a cominciare dalle grandi differenze di reddito, di tenore di vita e
di prospettive, fra le varie parti del paese (alle regioni costiere orientali
sempre più dinamiche e caoticamente in sviluppo si contrappongo le
regioni occidentali, a determinate industrie e ai commerci si
contrappone la situazione delle campagne e, quindi, dei molti milioni di
contadini). L’autore ne conclude Chi vive in mezzo ai cinesi impara ad
ammirare la meravigliosa vitalità della loro società civile, la loro cultura
sofisticata, la loro fantasia e saggezza, la loro curiosità per l’estero.
Trova perciò anormale che debbano tenersi dei dirigenti che pretendono di
nominarsi da soli. Il secolo cinese non sarà completo senza la nascita della
democrazia nel cuore della Città Proibita: senza dubbio uno dei più grandi
eventi nella storia dell’umanità. Certo, la recente storia della Russia
pone al riguardo molti interrogativi.
(Sergio Zangitolami)

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Giorgio Trentin (a cura di)
La CINA che ARRIVA. Il sistema del dragone
Avagliano editore 2005
Pagg. 262, euro 14,00
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Si infittisce la pila di libri
dedicata in questi ultimi anni al fenomeno Cina, allo scopo di far conoscere
aspetti economici, sociali, politici, di questo enorme Paese, a dimensione
continentale, che –soprattutto per i suoi risultati economici- si sta
imponendo nel mondo.
Anche la raccolta di saggi a
cura di Giorgio Trentin, che insegna lingua e storia della Cina presso
l’Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente e Lingua cinese presso
l’Università “L’Orientale” di Napoli, vuole essere “solo un piccolo
–ma abbastanza approfondito- strumento di studio, offerto a tutte le persone
divenute consce del fatto che un rapporto costruttivo con la Cina è un
aspetto imprescindibile del nostro futuro e che per rapportarsi ad essa è
necessario imparare a conoscerla, non pensare di conoscerla.” Una
consapevolezza che solo recentemente sta penetrando anche in Italia, dopo che
abbiamo accumulato un ritardo di circa quindici anni rispetto a tutti i
maggiori paesi del mondo. Il libro si divide in due parti: La Cina in Cina e
La Cina in Italia.
Nella prima si ripercorrono le
vicende più significative della storia recente, dalla presa del potere di Mao
alle riforme di Deng Xiaoping, per poi approfondire il segno delle riforme,
considerando le conseguenze della crescita sulla società. Segue un manualetto
pratico per chi vuole investire in Cina, con informazioni sulla legislazione
vigente, sugli uffici di rappresentanza e sulle varie forme di investimento. A
dimostrare che non si vuol limitare l’analisi e la documentazione ai soli
aspetti economici e commerciali, un articolo espone “la febbre
culturale cinese”, comprendendovi le sperimentazioni letterarie, musica
cinema e televisione, arti visive.
Nella seconda parte, dopo un
breve riferimento all’Italia in Cina, si considerano gli scambi culturali
fra Italia e Cina e molto spazio viene dedicato al fenomeno
dell’immigrazione cinese, con i suoi adeguamenti, crisi e successi, senza
sottacere anche i fenomeni di criminalità che talvolta vi sono connessi. Solo
l’elenco dei temi trattati, in forma documentata e chiara, dimostra
largamente l’utilità di leggere e consultare questo libro.(Sergio Zangitolami)

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Marco Arnone Eleni Iliopulos
LA CORRUZIONE COSTA
Effetti economici, istituzionali e sociali
Economia/Ricerche V&P -2005
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Dobbiamo essere grati ai due autori di questo libro,
Marco Arnone ed Eleni Iliopulos, che affrontano, dal punto di vista della
teoria economica, la complessa tematica della corruzione e dei suoi effetti
sull’economia, sulle istituzioni e sulla società.
Si tratta di una indagine innovativa in Italia, poiché,
nonostante Tangentopoli, finora non ci sono state analisi sistematiche dei
fenomeni corruttivi, a differenza di quanto è avvenuto in altri paesi dove
esiste una ampia letteratura sull’argomento. Inoltre il taglio
interdisciplinare che caratterizza tutta la trattazione rende il testo quanto
mai significativo sia in ordine alle conseguenze degli illeciti sulla qualità
della vita di tutti, sia in ordine alle condizioni possibili per instaurare
pratiche virtuose di contrasto.
L’epigrafe all’inizio del libro riporta un brano
tratto da “Dei delitti e delle pene”
di Cesare Beccaria(1764) da cui emerge l’allarmata preoccupazione per il
legame esistente tra l’uso iniquo della ricchezza e la possibilità di
instaurare una tirannide nell’ambito di uno stato. Tutto lo svolgimento
della tematica è pervaso da questo sentimento ispiratore e, con
un’espressione oggi molto in uso, si potrebbe dire che è una bellissimo
libro di educazione alla legalità. E’ un’esperienza scaturita dal bisogno
di chiarezza ottenuta attraverso la conoscenza, la misurazione e l’evidenza
empirica.
L’economia qui non è più la scienza “ triste “ di
vecchia memoria, ma dispiega tutte possibilità cognitive, offerte dai suoi
strumenti analitici ed econometrici più avanzati, di indagare, di
“illuminare” settori della vita associata, interna e internazionale,
normalmente difficili da cogliere nelle loro dimensioni rispetto alla
corruzione. I due autori forti dei loro apparati teorici e di numerose
esperienze di ricerca presso Istituzioni, come il Fondo Monetario
Internazionale, Agenzie internazioni varie e prestigiose Università estere,
utilizzano indicatori, semplici e fantasiosi ad un tempo, e, per mezzo di
misurazioni testate e ripetute nel tempo, sono in grado di isolare le costanti
che legano la corruzione ai diversi ambiti sociali e di evidenziarne in modo
diretto ed indiretto cause ed effetti.
Anche se quanto detto sopra può far pensare che si
tratti di un libro di economia rivolto a specialisti, in realtà, ha un taglio fortemente interdisciplinare e
le numerose tabelle e i grafici, sempre giustificati nelle premesse e
commentati con grande chiarezza espositiva, ci fanno risalire dai dati
quantitativi ai fenomeni qualitativi sottostanti, e a giudizi di valore. In
altri termini la misurazione quantitativa dei dati diviene via via valutazione
qualitativa e quindi giudizio politico Si realizza così la comprensione di
tutti quei legami intricati e nascosti nelle zone oscure del vivere civile in
cui possono prosperare scambi illegali.
E’ una lettura da raccomandare a tutti, ma in modo
particolare agli insegnanti, che potranno ampliare la loro conoscenza della
realtà sociale e quindi la consapevolezza di un impegno didattico verso i
valori e la tutela dei “beni
intangibili”della società, ossia gli interessi primari delle persone,la
credibilità, la legittimità e l’immagine delle istituzioni presso
l’opinione pubblica, valore aggiunto di ogni tipo di insegnamento, specie
quando rivolto ai giovani.
La grande ricchezza di dati, offerta ai lettori e agli
studiosi, evidenzia le dimensioni del fenomeno nel tempo e nello spazio e
consente comparazioni significative tra i paesi presi in considerazione, tra
aree diverse all’interno di uno stato, e prefigurazioni di trend verso la
crescita o di freno allo sviluppo e/o in genere della qualità della vita.
In particolare i docenti di discipline giuridico -
economiche e di scienze sociali possono riconsiderare la propria materia di
insegnamento in una chiave più concreta e più aderente alla complessità
della vita reale attuale. Di conseguenza la didattica della disciplina sia
arricchisce di acquisizioni nuove. Per esempio, i numerosi indicatori usati in
questa ricerca e soprattutto la logica che li sostiene consentono, in modo
tanto rigoroso quanto flessibile, di rendere espressivi i fatti presi in
considerazione. Così i teoremi economici e gli assiomi giuridici, di solito
trattati in modo asettico nell’insegnamento e nei libri di testo, assumono
significati più nuovi e funzionali alla vita reale contribuendo ad un maggior
coinvolgimento degli studenti a questo tipo di studi.
L’obiettivo degli autori è quello di individuare gli
aspetti che caratterizzano la corruzione, i contesti che ne favoriscono le
dinamiche e di analizzarne gli effetti sulla società civile.
Il testo mette in evidenza le peculiarità della
corruzione nelle sue molteplici dimensioni con una documentazione
accuratissima e sistematica, che considera gli ambiti micro e macroeconomici,
a livello istituzionale e privato, a livello nazionale e internazionale fino a
“isolare”le condizioni ed i contesti che favoriscono l’insorgere, il
prosperare ed il diffondersi del fenomeno per avvolgere in una trama perversa
tutta la vita sociale.
La difficoltà di questa ricerca sta soprattutto nella
natura stessa della corruzione, i cui aspetti sono difficili da isolare e da
misurare. Osservano gli autori: “Una delle caratteristiche principali del
fenomeno della corruzione consiste nella difficoltà di stabilire la direzione
causale delle dinamiche che ne stanno alla base: Cause ed effetti sono
interconnessi da continui meccanismi di feedback
difficilmente isolabili singolarmente; le cause vengono influenzate dalla loro
stessa azione, innescando meccanismi di retroazione in cui gli “effetti”
hanno un’influenza negativa sulle “cause” Il tentativo di isolare cause
ed effetti deve quindi essere letto alla luce delle forti limitazioni che
derivano dalla presenza di catene causali multidirezionali.Cause
ed effetti sono quindi definiti tali in base alla prevalenza della direzione
causale che nella letteratura empirica viene generalmente individuata dalle
analisi econometriche”.(pag.5)
La definizione di corruzione adottata ed il relativo
indicatore provengono da Transparency
International(TI), un’organizzazione non governativa che ha come
obiettivo l’analisi dei fenomeni corruttivi e fornisce dati empirici sulle
variabili che li riguardano. Tali dati devono avere la caratteristica di
essere statisticamente affidabili e confrontabili a livello internazionale.
Secondo Transparency International la corruzione può definirsi come ”l’insieme
di comportamenti di pubblici ufficiali o di impiegati pubblici finalizzati
all’arricchimento personale (o di persone vicine), e che si realizzano
attraverso l’abuso dei poteri preposti al loro ufficio; tale abuso comporta
necessariamente una violazione dell’insieme dei doveri d’ufficio”.
L’indicatore utilizzato è l’Indice di Corruzione Percepita (CPT);si tratta di una variabile
periodicamente predisposta da TI, che
misura le percezioni relative al livello di corruzione interna, ed è il
risultato di componenti provenienti da diverse fonti , che vengono
opportunamente pesate per rappresentare numericamente la definizione di
corruzione interna, ed è l’unico disponibile per un campione di paesi che
copre quasi tutto il mondo.
Come dicevamo sopra gli autori utilizzano indicatori
differenziati accanto all’indice di corruzione percepita. Par l’analisi
economica si usano si usano quelli classici, quali il PIL e relative
variabili, per l’analisi istituzionale gli indicatori di governance accettati a livello internazionale come pure gli
indicatori sociali.
Dato il progressivo aumento degli scambi internazionali a
seguito della globalizzazione, grande importanza ha assunto l’esigenza di
regolamentare questi mercati attraverso accordi internazionali e di valutarne
e monitorarne l’attività. In questo ambito specifico gli autori hanno
proposto dei loro nuovi indicatori relativi al funzionamento delle
istituzioni, che hanno il compito di supervisionare i mercati finanziari,
evidenziando come buoni livelli di qualità e di trasparenza della
supervisione si associno a bassi livelli di corruzione della stessa.
Per quanto riguarda la qualità della governance di un
paese si utilizzano i sei indicatori della Banca Mondiale composti da un
centinaio di sottoindicatori. Tra questi:
·
l’indicatore di accountability
che tiene conto dell’esistenza di diritti politici e di libertà civili
ed è relativo alla possibilità dei cittadini di selezionare sostituire i
membri delle istituzioni dello Stato;
·
l’indicatore della stabilità politica(political
stability and absence of violence) che riflette la percezione dei
cittadini sulla possibilità di destabilizzazione del governo
·
l’indicatore di legalità(rule of law) riflette il grado di fiducia degli agenti nel sistema
di leggi che regolano la vita dello Stato;
·
l’indicatore di controllo della corruzione(control
of corruption)rappresenta le percezioni di corruzione interna;
·
l’indicatore riferito alla variabile di efficacia del governo(government
effectivness) che riguarda la qualità dei servizi pubblici,la competenza
degli impiegati pubblici,l’indipendenza dell’apparato burocratico da
pressioni politiche
L’indicatore principale, come abbiamo detto sopra, è
il CPT che viene affiancato agli altri sopraindicati a seconda degli ambiti da
esplorare, che sono i seguenti:.
·
la relazione tra corruzione,mercati ed imprese evidenziandone la
perdita di efficienza e l’aggravio dei costi per le seconde.
·
l’influenza della corruzione sulle scelte macroeconomiche
anche a livello internazionale, dove il fenomeno è monitorato da
organizzazioni internazionali
·
la qualità della “governance”, la responsabilità(accontabilty)
delle istituzioni e la qualità della regolamentazione, che si riflettono sui
sistemi di controllo in grado di impedire il nascere di pratiche di
malfunzionamento degli organi dello stato
·
i costi sociali della corruzione come perdita di sviluppo umano,
di una società aperta e di una società giusta
·
immigrazione, mezzi di informazione, equità nella giustizia
·
la corruzione in Italia
·
istituzioni internazionali e iniziative anti-corruzione
Dopo aver letto il testo e
meditato sulle sollecitazioni che suscita si possono fare molte
considerazioni.
Una prima fondamentale
riguarda il rapporto, sempre presente in ogni contesto esaminato, tra le norme
giuridiche e le istituzioni così come risultano nei loro funzionamenti reali.
Ne risulta con grande evidenza come i fenomeni corruttivi si inseriscano nelle
aree di discrezionalità dei pubblici ufficiali dando vita a comportamenti
perversi derivanti dalla violazione delle regole e dal conseguente formarsi di
pratiche e culture illegali. Stesso discorso per i mercati percepiti più come
luoghi dove vige la legge del più forte che come un insieme di regole da
rispettare dagli operatori per ottenere risultati di ottimazione.
La conoscenza dei complessi
caratteri della corruzione, presente in tutti gli stati con incidenze diverse
a seconda delle variabili presenti, quali il reddito, il grado di istruzione
,ecc. porta a considerare la conoscenza come l’antidoto principale al
sorgere ed al propagarsi del fenomeno nel cuore della società. E quindi
l’enfasi viene posta sull’adozione di politiche di istruzione rivolte ad
elevare la cultura civica e sociale dei cittadini e le competenze
professionali degli operatori pubblici in modo da generare un circolo
virtuoso: cittadini consapevoli ed attenti eleggono rappresentati capaci ed
onesti, la cui condotta rivolta al perseguimento dell’interesse di tutti
risulti a tutti trasparente.
Come afferma il Prof. Gabrio
Forti nella sua bella prefazione “
tutto ciò, avrebbe detto il Beccaria, che forma “le libere anime e vigorose
e le menti rischiaratici”, che “rende gli uomini virtuosi, ma di quella
virtù che sa resistere al timore, e non di quella pieghevole prudenza, degna
solo di chi può soffrire un’esistenza precaria ed incerta”.(Pag.
XXIII) ed inoltre ” Il libro è
eloquente illustrazione di come la mala pianta corruttiva si annidi nelle
teste , prima ancora che nel portafogli delle persone, e si nutra di quelli
che il Beccaria chiamava “lo spirito di famiglia”(che “è uno spirito di
dettaglio e limitato a’piccoli fatti”) opposto allo spirito regolatore
delle repubbliche che è “padrone dei principi generali , vede i fatti e gli
condensa nelle classi principali ed importanti al bene della maggior parte”.(Pag.XXII).(Elide
Sorrenti - Milano, Maggio 2006)

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Anna Carletti e Andrea Varani
Didattica costruttivista
Dalle teorie alla pratica in classe
Con i contributi di
tutta l'Equipe IAD di OPPI–Milano
e del Prof.J.Novak, Cornell University
Erickson 2005
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L’apprendimento scolastico
è un processo complesso, multiforme, il cui esito è una risultante, non
completamente prevedibile, di molti fattori interagenti. Entrano in gioco,
infatti, non solo elementi cognitivi ma anche affettivi, socio-culturali,
esperienziali, didattici, organizzativi, che possono influenzarsi
reciprocamente in modo sinergico o frenante.
Il limite di molte delle metodologie didattiche che in questi ultimi decenni
hanno attraversato la scuola è, invece, la settorialità, l’eccessiva
focalizzazione e centratura su un solo fattore, che di volta in volta è stato
visto come elemento fondamentale e risolutivo, unica leva su cui agire.
L’apprendimento per scoperta, la didattica attiva, la didattica breve, il
problem solving, la didattica metacognitiva, l’apprendimento collaborativo,
l’uso delle tecnologie informatiche e altri ancora sono tutti approcci
didattici estremamente interessanti e validi ma, presi singolarmente e usati
come unica metodologia, rischiano di ridursi a semplici tecniche che non solo
non riescono a scalfire l’insieme del clima scolastico, ma ne vengono
velocemente fagocitate e ricollocate dentro una logica complessiva che,
di fatto, ne annulla il potenziale innovativo.
Con questo volume, vogliamo sostenere che l’approccio didattico
costruttivista ha le potenzialità per superare questo limite, mettendo nelle
condizioni di agire consapevolmente e contemporaneamente su molti dei fattori
che interessano il processo di apprendimento, assumendone e gestendone la
complessità, non solo introducendo nuove forme didattiche ma, soprattutto,
ponendosi come elemento aggregatore e integratore di metodologie preesistenti,
ricollocandole e riqualificandole all’interno di una visione epistemica che
ne valorizza ulteriormente l’uso e ne costituisce la legittimazione e il
fondamento.
Questo libro nasce dalla volontà di raccogliere e sistematizzare i risultati
di un lungo percorso di studio e sperimentazione su questi temi, di analisi e
riflessione sulle esperienze condotte a scuola e nella formazione dei docenti,
di confronto sui testi degli autori di riferimento, che ha condotto la nostra
Equipe (www.oppi.mi.it/equipe/iad)
ad approfondire gradualmente e ricorsivamente i molteplici aspetti e la
complessità di un approccio didattico costruttivista.
La nostra azione vuole trarre il massimo vantaggio dall’essere allo stesso
tempo insegnanti, in costante contatto con i problemi della scuola, e
formatori, capaci di uno sguardo più distaccato e globale, per collocarsi in
uno spazio intermedio tra la ricerca accademica e la pura applicazione di
repertori metodologici derivati dalle scienze dell’educazione. Uno spazio di
riflessione che connetta i paradigmi epistemici e pedagogici con la specifica
azione didattica, attraverso la consapevolezza degli elementi teorici che
entrano in gioco nel processo, la capacità di controllo degli stessi, la loro
traduzione in precise modalità di intervento.
Ciascun capitolo affronta uno degli elementi costitutivi della didattica
costruttivista ed è diviso in tre sezioni: una prima parte di ricognizione
teorica, una seconda parte che raccoglie le esperienze svolte nei diversi
ordini di scuola ed infine una terza parte che propone alcuni esempi di
schede, griglie e strumenti di lavoro che possono essere fotocopiati ed
utilizzati per il lavoro in classe.
Ogni capitolo costituisce un “mattone” indispensabile per la costruzione
di un ambiente di apprendimento; la disaggregazione della complessità
didattica in singole tematiche e la linearizzazione del discorso rispondono
alla necessità di focalizzare meglio teorie e pratiche, ma, evidentemente,
nell’azione quotidiana tutti i piani devono essere compresenti ed
interconnessi. Nella loro modulazione consiste appunto la professionalità del
docente che non si affida a “ricette” ma, all’interno di un quadro di
riferimento, quale abbiamo cercato di fornire, consapevolmente sceglie,
ristruttura, assembla ed adatta gli elementi all’unicità della propria
situazione.
Il primo capitolo presenta una breve introduzione di inquadramento storico al
costruttivismo, che ha lo scopo di ricordare i principali autori attraverso i
quali si è giunti al cambiamento di paradigma che è alla radice delle più
recenti metodologie didattiche. Vedremo come l’introduzione del
costruttivismo nella scuola sia passata fondamentalmente attraverso la sua
corrente socio-culturale, a nostro avviso lasciando in secondo piano
l’attenzione che alcune correnti costruttiviste pongono alle attività
mentali del soggetto che apprende. Questo secondo aspetto, fortemente presente
in Piaget, Vygotskji e Von Glasersfeld, costituisce le premesse per una
didattica capace di monitorare i processi di costruzione cognitiva.
Proprio in questa direzione, nel secondo capitolo si presentano alcune
strategie per la rappresentazione delle conoscenze (frames, script e mappe
concettuali) che, lungamente utilizzate dal nostro gruppo con una modalità
metacognitiva e cooperativa, si pongono come strumenti per analizzare e
governare i processi cognitivi.
Il terzo capitolo riguarda il gruppo come ambiente per la costruzione di
conoscenza, le sue caratteristiche, l’organizzazione dei compiti e del
setting, i problemi connessi alla valutazione ed il delicato lavoro
dell’insegnante come osservatore e facilitatore. Nel presentare le più note
correnti di Cooperative Learning abbiamo cercato di privilegiare gli approcci
da noi sperimentati e che riteniamo applicabili alla realtà italiana, a volte
rielaborandone ed adattandone alcuni aspetti specifici; l’apprendimento
cooperativo nasce infatti prevalentemente nel contesto delle scuole
statunitensi e soffre a volte di un’eccessiva rigidità di modelli
operativi e metodologici.
Il volume si conclude con il capitolo sulla metacognizione, atteggiamento che
dovrebbe pervadere tutto l’agire scolastico e che risulta strettamente
intrecciato con l’educazione alle emozioni, all’interazione con gli altri
ed all’utilizzo delle strategie cognitive.
Nel testo sono contenuti due contributi di membri dell’AEEE:
La scrittura e l’emozione: la metodologia autobiografica, Anna Maria
Simonelli, da pg.386 a 392
La rilevazione delle rappresentazioni – Conoscere per una valutazione
diagnostica, Doris Valente, da pg.369 a 385

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Enzo Rullani
Creatività e valore nel capitalismo delle reti
Carocci editore, pgg.438, €34,00
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L’autore, docente di
Economia della Conoscenza e Strategie di impresa presso l’Università Ca’
Foscari di Venezia, analizza in modo approfondito ed esteso la complessità
dei rapporti tra l’economia e la conoscenza a seguito del ruolo crescente
che il sapere ha assunto all’interno dei fattori produttivi classici, terra,
lavoro e capitale.
L’economia reale è divenuta economia della conoscenza già con la
rivoluzione industriale, a partire dalla quale lo sviluppo economico
successivo è stato determinato da una serie di innovazioni tecnologiche,
frutto di applicazioni di scoperte scientifiche. Nella teoria economica però
la variabile tecnologica è stata considerata un coefficiente fisso,
esprimente il livello dello stato dell’ “arte” in un dato momento
storico, una variabile esogena e quindi neutra per l’analisi scientifica.
In questo contesto teorico la conoscenza è stata identificata con il capitale
umano ossia l’insieme delle conoscenze possedute da coloro che operano
nell’impresa e di cui l’impresa ha un accesso esclusivo.
A seguito delle più recenti trasformazioni, la cosiddetta knowledge company
ha assunto invece una organizzazione, per quanto riguarda le competenze, non
più di tipo gerarchico ma “un coordinamento che utilizzi competenze esterne
accessibili liberamente o contrattualmente mettendo in moto catene di
fornitori e alleati strategici, per” svuotarsi” delle attività non
intellettuali(manifatturiere e di servizio banali), diventando sempre più una
virtual enterprise, una rete di relazioni e connessioni. Lo sviluppo cessa di
essere endogeno(autoprodotto nella singola organizzazione) e si dipana così
per reti esterne, variamente intrecciate e gerarchizzate tra di loro”.
In questa ottica, il capitale intellettuale di un’impresa potrebbe essere
distinto, con tutte le difficoltà poi di riconoscimento come asset di valori
da parte del mondo finanziario, in:
a)
capitale umano, costituito dall’insieme delle professionalità( competenze,
attitudini, flessibilità, elasticità intellettuale) possedute e rese
disponibili dai managers e dai dipendenti dell’azienda;
b) il
capitale strutturale, che a sua volta distingue:
- il
capitale relazionale, come sistema stabilizzato di relazioni con i clienti, i
fornitori, le banche, gli azionisti ecc.
- il capitale organizzativo, che comprende le competenze e le capabilities
esclusive
sedimentate nell’organizzazione interna e difficilmente imitabili
da altri.
Nel testo si sostiene la tesi
che il capitale trasformato in conoscenza, diversamente dagli altri fattori
produttivi, genera valore attraverso la moltiplicazione(capacità di
moltiplicare gli usi), l’interpretazione(capacità di dare un significato
endogeno soggettivo alle esperienze), e l’autoregolazione( capacità di
autoregolare i rapporti sociali tra gli attori, che così siano messi in grado
di condividere la conoscenza e le sue conseguenze economiche).
L’idea centrale è che la conoscenza ha delle sue specifiche peculiarità e
che, a differenza degli altri fattori produttivi, non è riducibile a merce.
Si tratta, pertanto, di ricercare, in positivo, quali sono le proprietà che
consentono alla conoscenza di generare valore e di trovare le soluzioni atte a
potenziarla senza alterarne le esigenze cognitive.
Dopo una lunga serie di osservazioni sui cambiamenti determinatisi non solo
sulle modalità di organizzazione delle imprese, sulle competenze e
conseguenti stratificazioni nell’ambito del lavoro, sulla società in
generale, ma anche sulla natura della scienza o della “produzione”
scientifica, l’autore individua queste proprietà, in positivo, della
conoscenza:
·
deve essere moltiplicabile, invece di essere (soltanto) non scarsa;
·
deve essere condivisibile in modo socialmente regolato; invece di essere
(soltanto) non appropriabile;
·
riflessiva invece di essere(soltanto) non strumentale.
Moltiplicabilità,
condivisione e riflessività sono quelle proprietà che possono accrescere il
valore prodotto dalla conoscenza e, nel contempo, essere suscettibili di
teorizzazione. Tutte richiedono determinate operazioni per costruire la
filiera produttiva, ossia la serie di passaggi che rendano utilizzabile la
conoscenza.
I fattori ( drivers) che
consentono questa trasformazione sono:
a) l’efficacia (v) nel
singolo uso
b) la numerosità degli usi
(n)
c) il grado di appropriazione
(privata) dei frutti del lavoro cognitivo (p).
La combinazione dei (v,n,p)
utilizza quanto si apprende dalle nuove esperienze, ma anche da quanto si
sapeva già. Gli strumenti più importanti nel trasformare la conoscenza in
valore sono i cosiddetti mediatori cognitivi; si tratta di strutture
concettuali e/o materiali, teorie, istituzioni, significati, capacità
naturali e culturali, che possono, di volta in volta, congiuntamente o
disgiuntamente operare quei cambiamenti nelle conoscenze atti a
influenzare il livello dei tre drivers, V(v,n,p,) e a rendere conveniente
l’innovazione.
Viene analizzata la ricaduta di questa tesi sul ciclo produttivo, sul
moltiplicatore, sui costi, sulla natura autopoietica dell’impresa e sulla
governance dei processi, e su come le differenti competenze possedute stiano
operando nuove gerarchizzazioni all’interno del mondo del lavoro.
Tutta la trattazione offre una grande varietà di stimoli a ripensare i
paradigmi economici, le modalità dell’indagine scientifica, la natura della
conoscenza, le sue ricadute sociali.
Costituisce un’ottima occasione per riorganizzare la propria visione del
mondo con concetti e linguaggi nuovi che, valorizzando il vissuto personale,
ci rendano più curiosi nel ricercare i significati, non sempre palesi, che la
realtà ci presenta continuamente, e quindi ad essere più creativi, come
suggerisce implicitamente il nostro autore. (Elide Sorrenti)

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Richard Florida
L’ascesa della nuova classe creativa
Saggi Mondadori, Milano 2003, pagg.483, 17 €
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La creatività è un valore personale, che ha il suo
massimo risalto nelle attività artistiche, ludiche o sportive. Ma oggi la
creatività sta producendo effetti ancora più pervasivi nelle attività
umane.
Secondo Richard Florida, economista americano della Carnegie Mellon University
di Pittsburgh, la creatività oggi è divenuta un motore generale del
cambiamento non solo negli stili di vita o nella gestione del tempo libero, ma
anche nelle attività produttive e nel lavoro. Mentre molti studiosi
sostengono che le economie più avanzate siano caratterizzabili come economie
dell’informazione o della conoscenza, Florida ritiene che sia invece la
creatività la forza dotata di maggiore effetti nel determinare la crescita
economica nei diversi paesi.
Per arrivare a questa impegnativa conclusione, Florida ha analizzato i dati
sociali e produttivi dei maggiori distretti americani. In particolare egli ha
elaborato il Creativity Index quale
indicatore complessivo della creatività, composto dal mix
di quattro fattori: 1) rapporto tra classe creativa e totale della forza
lavoro 2) innovazione, calcolato come numero dei brevetti pro-capite 3)
presenza dell’industria high tech 4)
diversità. Per la misurazione della diversità Florida ha utilizzato il Gay
Index di Gary Gates della Carnegie Mellon, basato sulla concentrazione
della popolazione gay. L’indice usato da Gates è risultato corrispondere in modo
impressionante ai dati sulla crescita dei settori produttivi maggiormente
innovativi, riscontrati nell’analisi di Florida.
Ciò che contraddistingue i creativi è la compresenza dei tre fattori T:
Tecnologia, Talento e Tolleranza. L persone che presentano queste doti tendono
a insediarsi nelle aree dove vive un maggior numero di persone con doti
simili, dove gli stili di vita sono più aperti, mutevoli, dove i
comportamenti innovativi si mischiano con le capacità intellettuali e con la
possibilità di stringere fili di relazioni aperte, seppur deboli, con
numerosi individui dotati di analoghe caratteristiche. La creatività riesce a
questo punto a diffondersi nelle organizzazioni produttive tradizionali, ad
incentivare all’impegno personale, a portare più in alto in un circolo
virtuoso le frontiere produttive.
Chi sono allora i creativi? Per Florida esiste un nucleo supercreativo
composto da scienziati e ingegneri, poeti e romanzieri, docenti universitari,
artisti, attori, stilisti ed architetti, oltre a figure del mondo culturale,
opinionisti, programmatori di software, architetti e registi cinematografici.
I supercreativi sono pagate regolarmente per compiere attività creative.
Oltre a questo nucleo centrale fanno parte della classe creativa i dirigenti
nelle imprese high tech,, nei
servizi finanziari, nelle professioni legali, sanitarie, aziendali. Agli inizi
degli anni 2000 la classe creativa negli Stati Uniti comprenda ormai circa il
30% dell’intera forza lavoro del paese. Le retribuzioni della classe creativa sono mediamente più alte di circa il doppio di
quelle degli appartenenti alla classe dei servizi, operaia e
dell’agricoltura.
Dall’analisi Florida non fa discendere rigide prescrizioni. Quello che è
importante è rendersi conto di questa nuova realtà, capirla e non
ostacolarla, sia da parte di pubblici poteri che delle direzioni nelle attività
produttive. Anzi, secondo Florida, la scommessa risiede nel come facilitare la
ascesa dei creativi non per renderli dominanti nella società. Al contrario la
classe creativa può ben concorrere a creare una nuova coesione sociale senza
rifuggire alle risposte che la classe creativa può dare su quali sono le
finalità generali delle proprie azioni.
Nell’edizione italiana un breve ed interessante capitolo fa il punto sul
ruolo della creatività nel nostro paese. (Enrico Castrovilli)

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A cura di Giorgio Vittadini
Capitale umano La ricchezza dell’Europa
Edizioni Angelo Guerrini e Associati, Milano 2004, 302 pp, 15 €
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I
due terzi dello sviluppo delle attività economiche dipendono dalle abilità
dei lavoratori. A partire da questa considerazione introduttiva al volume
curato da Giorgio Vittadini, si sviluppano una serie di capitoli, realizzati
da studiosi di vari settori, che indagano gli aspetti teorici, economici,
culturali, statistici e sociali che possono dare all’Europa un nuovo slancio
nella preparazione del proprio capitale umano. Sì, proprio l’Europa ne ha
bisogno. Un dato statistico impressionante ampiamente indagato
nell’intervento di Giovanni Desco segnala che il capitale umano pro-capite
negli USA (510.000 euro) è più del doppio di quello europeo (249.000 euro).
Cosa fare allora? L’approccio di partenza non può che essere quello teorico
di Onorato Grassi, di chiarire bene il significato di termini chiave di
educazione, istruzione, formazione ed addestramento e le loro relazioni con
l’economia, che non vanno tanto individuate su di un piano economicistico,
bensì nel tentativo di ricercare dei “giacimenti di senso” alle cose che
si fanno.
Giorgio Vittadini e Piergiorgio Lovaglio ricostruiscono le teorie economiche
sul capitale umano che si sono succedute da Adam Smith ad oggi, offrendo
criteri statistici per il calcolo del capitale umano e della sua
distribuzione. Ma la teoria economica non basta. Questi autori, coerentemente
ai propri principi etici e religiosi, sostengono che il capitale umano ha una
natura immateriale non quantificabile, residente nella forza e nello slancio
che il desiderio di verità, di giustizia, di bellezza, di amore dei singoli
uomini può far emergere. Solo in questo modo è possibile sviluppare le
strutture dell’individuo nella loro connessione con la realtà.
Enrico Gori analizza gli effetti dell’istruzione come fattore di
investimenti in capitale umano. Da numerosi studi citati emerge che
l’aspetto decisivo degli apprendimenti è costituito dalla qualità degli
insegnanti che gli allievi incontrano nella scuola.
La seconda parte del volume analizza da diverse angolature l’impatto
dell’investimento in capitale umano. Paolo Cappelletti, Nicola Sabatini,
Mario Salerno e Carlo Sozzi analizzano i rapporti tra capitale umano e
tecnologie a partire dall’affermazione dell’enciclica Laborem
Exercens: “mediante il lavoro l’uomo partecipa all’opera della
creazione”. L’uomo può non essere subalterno alle tecnologie.
Gianluca Femminis e Gianmaria Martini affermano che il maggiore impatto
dell’imprenditore nello crescita del sistema è quello di rendere dinamico
il sistema economico.
Piergiorgio Lovaglio passa in analisi i modelli di Mincer e Becker che
individuano nel capitale umano il fattore chiave per spiegare le
diseguaglianze sociali.
Molti i dati su cui riflettere nel capitolo di Giovanni Desco sui sistemi di
istruzioni negli Usa, UE ed Italia. Vediamone alcuni. La spesa statale in
istruzione negli USA è simile a quella europea, ma la spesa totale in
istruzione diviene ben superiore perché si aggiungono consistenti spese dei
privati. La decentralizzazione educazionale intesa come possibilità di
adattare a livello decentrato curricoli, metodi e gestione delle scuole
favorisce secondo la Commissione UE migliori risultati educativi. Le risposte
di accordo alla domanda “La mia scuola è un luogo dove non ho voglia di
andare” vedono con il 38% l’Italia seconda solo al Belgio tra tutti i
paesi OCSE. L’Italia con circa il 35% è uno dei paesi con il minor numero
di studenti nel programma generale (liceale), mentre nella gran parte degli
altri paesi gli allievi si dividono a metà tra scuole con programmi generali
(liceali) e programmi professionali. La attuale diversificazione su tre
programmi (licei, istituti tecnici e istituti professionali) non ha
evidentemente impedito il nostro altissimo tasso di abbandono scolastico.
Gli ultimi interventi del volume affrontano le politiche di investimenti in
capitale umano, nel capitolo di Paolo Cappelleti, Nicola Sabatini, Mario
Salerno e Carlo Sozzi.
Mario Mauro e il Commissario UE Viviane Reding affrontano infine le politiche
europee. Alzare il livello del capitale umano è una sfida urgente per le
nostre società. (Enrico Castrovilli)

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Luciano Gallino
La scomparsa dell’Italia industriale
Einaudi, Torino
2003, 106 pp, 7 €
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Gli
interventi sul cosiddetto declino dell’economia italiana si susseguono. Le
analisi convergono nella descrizione di uno stato di difficoltà strutturale.
Ma non appena gli autori risalgono all’individuazione di quali possono
essere le cause delle nostre difficoltà, i ragionamenti si differenziano in
modo sensibile.
Il sociologo torinese Luciano Gallino legge in questo agile volumetto la
nostra crisi a partire da un punto ben preciso: quello del progressivo venire
meno nel nostro apparato produttivo delle grandi produzioni industriali, che
invece caratterizzano la crescita economica di tutte le moderne società. Il
punto di vista di Gallino è piuttosto trascurato dalle analisi correnti,
mentre non è inutile ricordare che negli anni ’60 le grandi imprese
industriali italiane furono un tutt’uno con il cosiddetto miracolo economico
italiano. Gallino non dà per scontato che il processo di terziarizzazione sia
ineluttabile e comunque positivo. Al contrario rivendica alla grande
industria, con la sua capacità di innovazione tecnologica, di guida
dell’insieme dei processi produttivi, di competitore nella concorrenza
mondiale, di generatore di sempre nuovi servizi alla imprese, un ruolo
trainante ed indispensabile.
L’analisi di Gallino si sviluppa in diversi settori industriali, con una
sequenza di studi di casi. In una serie di produzioni industriali di punta, il
nostro paese per predisposizione all’innovazione ed alla ricerca scientifica
aveva prodotto negli scorsi decenni ottime performance
sul piano interno e si era segnalata sullo scenario internazionale grazie
ad alcune grandi imprese che costituirono il paradigma del successo italiano.
Nell’informatica sono emblematiche le vicende dell’Olivetti, da impresa
leader a livello internazionale fino alla sua recente sparizione.
Nell’aeronautica civile tra le due guerre mondiali l’Italia aveva una
posizione di grande prestigio, ma nel secondo dopoguerra quest’industria fu
progressivamente abbandonata, tanto che il nostro paese si rifiutò di aderire
al consorzio europeo Airbus. La chimica dalla Montecatini, alla Montedison,
alla Enimont ha assistito ad un dipanarsi di vicende, non sempre nitide, che
hanno progressivamente depotenziato un settore di grande forza e prospettiva.
Nell’elettronica di consumo (telefoni cellulari, tv color, radio) si è
assistito alla scomparsa di produzioni significative proprio nel paese di
Guglielmo Marconi. Nelle imprese high tech diverse grandi imprese delle partecipazioni statali sono
state progressivamente smantellate; i pezzi di maggiore pregio come Nuovo
Pignone ed Elsag sono stati venduti mentre un significativo gruppo industriale
come l’Ansaldo è stato irrimediabilmente smembrato. L’automobile ha visto
la Fiat divenire l’unico produttore italiano, che al tempo stesso attraversa
una crisi per il momento irrisolta sulle scelte strategiche di fondo.
Le prospettive che cerca di individuare Gallino per una ripresa di ruolo della
grande industria non sono forse tutte convincenti. Il ritorno a modelli come
la legge 675 del 1977 è troppo datato e non fu solo la cattiva volontà
politica a rendere questa legge uno strumento inutilizzabile. Ma l’analisi
di Gallino è di grande interesse, come pure lo è l’individuare come motori
della ripresa l’alta intensità di lavoro e la conoscenza. (Enrico Castrovilli)

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Luca Ferrucci - Daniele Porcheddu
La new economy nel Mezzogiorno. Istituzioni e imprese tra progettualità
e contingencies in Sardegna
Il Mulino editore, 2004, pagg.280
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In Sardegna, in particolare nell'area cagliaritana, negli
ultimi anni, si è formato un cluster di imprese della new economy (qualcuno
già parla di una «Silicon Valley del Mediterraneo»). L'impresa più
importante dell'area,
ossia Tiscali, occupa attualmente, da sola, circa 800 addetti ed ha una
presenza consolidata su tutti i principali mercati europei. Ma come è potuto
accadere che, in una regione del Mezzogiorno, lontana dall'integrazione
territoriale con il resto del Paese, con i suoi noti problemi di
industrializzazione, si sia potuto attivare questo sentiero di sviluppo
economico innovativo? E come è potuto accadere in un settore high tech, molto
distante dalla vocazione
storica e economica di questi territori? In questo volume si descrivono e si
interpretano le vicende e si esplorano
le cause e i meccanismi che, a partire dai primi anni Novanta, hanno
contribuito ad attivare e ad alimentare quest'originale e innovativa
traiettoria di sviluppo locale all'interno della new economy.
In questo modo, il volume fornisce anche nuovi spunti di riflessione sulle
potenzialità innovative presenti in alcune aree del Mezzogiorno e sui
meccanismi e le logiche per una loro valorizzazione ai fini di uno sviluppo
economico
locale. (Prospero Malavasi)

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Sergio Zangirolami - Teresa Dal Maschio
Il sottosviluppo e la povertà. Natura e cause
Teti editore 2004,
pagg 272,
€ 18,50
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Sottosviluppo e povertà, da un lato, sviluppo e ricchezza dall’altro, sono
i due poli di questo nostro mondo estremamente ingiusto, nel quale le
affermazioni sull’uguaglianza di tutti gli uomini, contenute in tante
Costituzioni, appaiono ipocrite.
Di fronte ai dati della denutrizione di milioni di bambini e di fronte
all’obesità contrapposta alla morte per fame, ci sentiamo indignati e ci
poniamo la domanda perché è potuto succedere e, perché mai possa
continuare. Per individuare le cause dobbiamo ammettere che molta
responsabilità del sottosviluppo sta nei paesi sviluppati e ci coinvolge
tutti.
Molti sono convinti che sarebbe bastato che avessero studiato la nostra storia
e seguito i nostri consigli, per raggiungere una condizione di vita non
lontana dalla nostra. Tanto più, che molti di questi paesi sottosviluppati
erano dotati di grandi ricchezze naturali. Volutamente non viene detto che i
rapporti commerciali sono sempre stati sfavorevoli a questi paesi.
Inoltre, e questo è un elemento decisivo, si sorvola sulla semplice
constatazione che il nostro sviluppo, con i consumi che ha comportato e ancora
comporta (gli Stati Uniti, con meno di un ventesimo della popolazione
mondiale, consumano più di un quarto dell’intera energia prodotta nel
mondo) non è generalizzabile.
Su questi temi sempre drammaticamente attuali, i due autori forniscono ai
lettori elementi di conoscenza che permettano di farsi un’opinione il più
possibile corretta, senza pregiudizi ma anche senza cadere in analisi facili e
lacrimose, di cui sono pieni tanti mezzi di comunicazione. (Sergio Zangitolami)
http://members.xoom.it/setedaza

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Paolo Sylos Labini
Sottosviluppo
Laterza 2000 pagg. 206
€ 13,43
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Non è la prima volta che Sylos Labini (1920), già insegnante di Istituzioni di economia politica nella facoltà di Scienze statistiche, demografiche e attuariali dell’Università di Roma La Sapienza, affronta nei suoi libri il tema del sottosviluppo, da “I problemi dello sviluppo economico” del 1970 a “Il sottosviluppo e l’economia contemporanea” del 1983. Sempre ha cercato di analizzare, con dati e argomentazioni fondate sull’applicazione delle teorie economiche, le cause del sottosviluppo, ma soprattutto ha cercato di proporre delle soluzioni, delle misure correttive, degli interventi di politica economica. La scelta dichiarata su cui si basano le proposte è sempre quella delle riforme, poiché sempre si è dichiarato un riformista. Anche in quest’ultimo lavoro viene seguita questa strada, tanto che il sottotitolo recita “Una strategia di riforme” Non si tratta di riforme puramente economiche, secondo un approccio che l’autore dichiara di aver derivato dallo Smith della Ricchezza delle nazioni, dato che attraverso Smith possiamo comprendere non solo l’importanza concettuale di unificare diverse categorie di problemi appartenenti a diversi campi di ricerche - storia economica, teoria economica, demografia, politologia - per superare le conseguenze dannose, a volte perfino schizofreniche, dell’estrema divisione del lavoro nell’analisi delle società. Possiamo anche apprendere che, per cercare d’interpretare l’evoluzione economica delle diverse società, dobbiamo considerare, insieme, tre aspetti fondamentali: la cultura, le istituzioni e le risorse naturali. Sulla base di quest’ottica si svolge tutto il ragionamento, che tocca le Relazioni economiche fra paesi sviluppati e sottosviluppati, la Pressione demografica, Le innovazioni organizzative e istituzionali. Due capitoli vengono dedicati, con un linguaggio talvolta non semplice per chi non è abituato agli strumenti, anche matematici, dell’analisi economica, all’inadeguatezza della teoria economica dominante per spiegare i processi di sviluppo, nello specifico dei rendimenti e prezzi, e della distribuzione e crescita. Nelle Conclusioni vengono avanzate proposte operative che coinvolgono i paesi sviluppati:
- un programma d’infrastrutture fondamentali, organizzate e finanziate dall’ONU e dall’UE, d’accordo con i governi dei paesi sottosviluppati; - un Centro per il coordinamento delle attività sanitarie;
- un Centro europeo per un ampio programma di istruzione elementare, specialmente per le donne in Africa;
- un Centro, sempre per l’Africa, per la formazione di esperti di distretti
rurali e industriali; - un programma per l’educazione superiore e la ricerca. (Sergio Zangitolami)

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Tommaso
Padoa-Schioppa Europa, forza gentile
il Mulino 2001 pagg. 186
€
10,33
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Padoa-Schioppa ha alternato incarichi prestigiosi in Italia, in Banca d’Italia all’Ufficio studi e alla Direzione generale nonché alla presidenza della Consob, e presso le istituzioni comunitarie, prima come Direttore generale degli affari economici e finanziari della Commissione europea ed ora come membro del Comitato esecutivo della Banca centrale europea.Questa esperienza gli ha consentito di conoscere a fondo i meccanismi della politica monetaria e finanziaria e il funzionamento degli istituti della Comunità europea.
Nel libro in esame, scritto in modo chiaro anche se presuppone una certa conoscenza della materia, vengono raccolti i testi di alcune conferenze tenute in Italia e all’estero dal 1998 al 2000 sul tema della costruzione europea, culminata fino ad ora nell’adozione della moneta unica. Appare evidente non solo la ragione dello sforzo per l’unificazione economica, allo scopo iniziale di togliere una base importante ai conflitti che hanno colpito l’Europa nel XX°
secolo, ma anche la necessità che si vada oltre, limitando progressivamente il
potere sovrano dei vari Stati. Percorso molto accidentato, come appare nelle
discussioni attuali, ma “ Perché la pace europea si fondi su basi più solide del
precario equilibrio delle forze e dei trattati internazionali è necessario
instaurare tra gli Stati l’imperio della legge, creando un potere ad essi
superiore e affidandogli alcuni dei compiti che, nella storia dell’Europa
moderna, sono stati prerogativa dello Stato nazionale: la sicurezza interna ed
esterna, la tutela delle libertà fondamentali, la politica internazionale, la
moneta.” Questa visione realistica viene analizzata avvalendosi di esempi
concreti, riferiti anche al comportamento dell’Italia, che manifesta
nell’opinione pubblica un notevole grado di adesione all’Europa, ma nel contempo
rimane spesso indietro nell’applicazione delle norme europee. La lettura è utile
anche per i riferimenti storici alla nascita delle istituzioni, su cui l’Unione
deve inserirsi, come la nazione, lo stato, la federazione. (Sergio Zangitolami)

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La povertà non è una caratteristica dei soli paesi sottosviluppati, ma si estende largamente anche nei paesi industrializzati e sviluppati, creando sacche di disagio sociale che devono indurre a riflessioni non occasionali, per piani mirati a ridurne l’incidenza (si ricordi il forte richiamo, oltre a quelli delle chiese e delle associazioni di volontariato, anche di economisti come John K.Galbraith, in “La cultura dell’appagamento” Rizzoli 1993). E’ necessario, a cominciare dal proprio paese, farsi anche un’idea quantitativa di questo grave fenomeno, e questo ci consentono alcuni documenti ufficiali. Intanto, la Banca d’Italia pubblica annualmente, come Supplemento al suo Bollettino Statistico, una ricerca sui Bilanci delle famiglie italiane, di cui si parla in una successiva recensione in questa newsletter. Ma è l’Istat che quantifica il numero delle famiglie povere, sia in senso relativo (cioè rispetto alla spesa media mensile pro capite per consumi) che in senso assoluto (basandosi sul valore monetario di un paniere di beni e servizi essenziali, che tiene conto dell’andamento dei prezzi). Il primo criterio definisce povera una famiglia di due persone che abbia un consumo pari al consumo medio pro capite del paese (il che significa, che ogni suo componente avrà un consumo pari o inferiore alla metà di quello medio nazionale). Per le famiglie di più componenti, si tiene conto di un fattore correttivo rapportato alle economie di scala (dato che le spese non aumentato proporzionalmente, perché certi beni, come l’automobile e il televisore, servono a più persone.) Secondo questo criterio: nel 2001, circa 2 milioni 663 mila famiglie (pari al 12,0% del totale delle famiglie residenti) vivevano in condizione di povertà relativa, per un totale di 7 milioni 828 mila individui (il 13,6% dell’intera popolazione). Posto pari a 100 il totale delle famiglie in condizione di povertà, 66 risiedevano nel Mezzogiorno. In termini assoluti la povertà, come si è detto, viene definita come una condizione economica di incapacità all’acquisto di determinati beni e servizi, indipendentemente dallo standard di vita medio della popolazione di riferimento. Questo criterio individua come povere, nel 2001, il 4,2% delle famiglie italiane (940 mila) per un totale di 3 milioni e 28 mila individui. E’ sempre nelle regioni del Mezzogiorno che si osserva una maggiore concentrazione del fenomeno, vi risiede infatti il 75,1% delle famiglie assolutamente povere. Non occorre insistere sul valore didattico di ricerche che si basino su informazioni di questo genere, anche tenendo conto del fatto che una delle cause documentate di povertà è la mancanza di istruzione, per le conseguenze negative sul lavoro e sul reddito che se ne ottiene.
(i testi integrali del Supplemento al Bollettino Statistico della Banca d’Italia, Numero 6 - 18 Gennaio 2002 e della ricerca “La povertà in Italia nel 2001” dell’Istat si possono scaricare dai siti Internet di questi due enti:
http://www.bancaditalia.it
http://istat.it (Sergio Zangitolami )

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Hernando de Soto Il mistero del capitale
Garzanti 2001, pagg.277 € 18,08
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Hernando de Soto è un economista peruviano che ha acquistato notevole popolarità anche all’estero, dopo aver assunto ruoli di rilievo all’interno del suo paese, prima come consigliere e poi come avversario del presidente peruviano Fujimori.La sua analisi ha come tema centrale quello di individuare le cause della povertà e della ricchezza nei diversi stati. Ma se con il muro di Berlino è crollata l’illusione sulle virtù del sistema comunista, dall’altro lato il capitalismo non appare in grado di essere una ricetta valida per tutte le economie. Come individuare allora le condizioni per la crescita della ricchezza, in particolare nei paesi più poveri e nelle economie in transizione? Risalendo alle concezioni di grandi economisti classici Smith, Say e Marx, de Soto ritiene che “il capitale è dapprima un concetto astratto e deve ricevere una forma fissa, tangibile per essere utile”. La condizione decisiva proposta da de Soto è allora quella di costruire le forme necessarie per la rappresentazione legale di tutte quelle attività patrimoniali e imprenditoriali, che esistono cospicuamente sotto forma di economia informale anche nei paesi più poveri ed arretrati. Le ricerche svolte in molti paesi poveri relativamente a quella che l’autore chiama “apartheid legale” dall’ILD (Institute of Liberty and Democracy, fondato da de Soto negli anni ’80) in molti paesi poveri e poverissimi mostrano risultati sconvolgenti. Per aprire una piccola attività produttiva in Perù occorrono 289 giorni di lavoro ad una squadra di sei persone impegnate per sei ore al giorno. In Egitto la persona che desidera acquistare legalmente un lotto di terreno deserto di proprietà pubblica deve svolgere 77 pratiche burocratiche presso 31 agenzie, con un tempo medio di attesa da 5 a 14 anni. Le bancarelle degli ambulanti irregolari di Città del Messico se messe in fila coprirebbero una lunghezza di oltre 210 chilometri. La dimensione enorme di questa economia informale, o capitale morto come preferisce chiamarlo de Soto, fa capire che se esso fosse riconosciuto con forme legali agili ed efficienti potrebbe costituire una spinta enorme alla valorizzazione di una ricchezza, creatività e fantasia produttiva che già esiste e che attende solo registri e leggi per dare maggiori frutti ai paesi poveri. Così come è accaduto circa due secoli fa nei paesi che oggi sono più ricchi.
Questo processo viene auspicato da de Soto assumendo il punto di vista dei poveri. In definitiva l’economista peruviano ritiene che “la cassetta degli attrezzi marxista”, in questa versione rivisitata se non addirittura rovesciata, sia la più adeguata per eliminare “l’apartheid legale” che rischia di escludere troppa parte dell’umanità dal processo di
globalizzazione.
Altre informazioni sul sito: www.ild.org.pe
(Enrico Castrovilli.)

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Umanizzare lo sviluppo
Rosenberg & Sellier 2001, pagg.222 € 13
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I problemi della crescita economica, dello sviluppo economico ed umano, il problema delle disuguaglianze e della povertà, la questione della misurazione dello sviluppo umano, la definizione di politiche favorevoli allo sviluppo umano sono come noto temi di grande attualità.
Ben venga quindi un’analisi teorica e allo stesso tempo ricca di riferimenti a situazioni concrete come è quella contenuta nel documentato volume di Enrica Chiappero Martinetti ed Andrea Semplici, sulla base di un progetto della organizzazione non governativa Ucodep di Arezzo. I primi capitoli si diffondono sulle differenze che intercorrono tra i concetti di crescita e di sviluppo economico. Ma poiché il reddito non cresce distribuendosi in modo uniforme, gli autori si pongono il problema di affrontare il problema della povertà e della sua misurazione.
La seconda parte del volume presenta la nuova concezione dello sviluppo umano, introdotto dall’UNDP (Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo) a partire dagli anni ’80. Ne vengono presentate la definizione, le diverse modalità di misurazione, la statistiche internazionali che mostrano i diversi livelli negli indici dell’ISU (Indice di Sviluppo Umano) nei diversi paesi. Il libro si conclude con una rassegna delle politiche per lo sviluppo umano che mostrano una crescente attenzione da parte delle opinioni pubbliche e degli organismi internazionali ad una concezione dello sviluppo attenta alle condizioni effettive della vita umana e dell’insieme dell’ambiente in cui noi oggi viviamo e vivremo. Il volume è completato dalle interviste a numerosi studiosi e protagonisti delle attività di cooperazione internazionale e da utili approfondimenti di specifiche tematiche.
(Enrico Castrovilli)

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Banca d’Italia
I Bilanci delle famiglie italiane nell’anno 2000
Supplemento al Bollettino Statistico
N.16 – Gennaio 2002
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Segnaliamo questa interessante pubblicazione della Banca d’Italia, che costituisce una ricca miniera di dati relativamente alle questioni della ricchezza e della sua distribuzione tra le famiglie italiane.I dati sono sempre presentati a livello dell’aggregato famiglia. Sono state indagate circa 8000 famiglie italiane nella prima metà dell’anno 2001. L’indagine prende in considerazione la struttura della famiglia, i dati sul reddito e il lavoro, i consumi, la distribuzione del reddito e della ricchezza netta (comprensiva della rappresentazione con le curve di concentrazione di Lorenz e degli indici di Gini), la diffusione delle attività finanziarie, l’utilizzo degli strumenti di pagamento, le abitazioni di residenza. Il volume comprende nota metodologica, tavole statistiche e questionario utilizzato.
Il fascicolo è disponibile gratuitamente, inviandone richiesta via fax a:
Biblioteca della Banca d’Italia, Servizio studi Fax: 06/47922059 (Enrico
Castrovilli)
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Invitiamo tutti coloro che
volessero inviarci recensioni a farlo all'indirizzo
inviomateriali@aeeeitalia.it
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