IL RUOLO DELLE ISTITUZIONI INTERNAZIONALI - ED IN PARTICOLARE DELLA BANCA MONDIALE - PER LA PROMOZIONE DEL PROCESSO DI SVILUPPO.
DALLO
SVILUPPO ECONOMICO ALLO SVILUPPO UMANO
1.
L’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU)
Nel
1944 a Bretton Wood, cittadina dello Stato del New Hampshire (USA), i delegati
di Stati Uniti, Regno Unito ed altri 42 paesi si riunirono per creare le
Istituzioni che avrebbero dovuto instaurare un nuovo ordine economico
internazionale. Queste Istituzioni sono classificabili in: 1) Organismi ed
Agenzie dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU); 2) Istituzioni di
regolamentazione del commercio internazionale come il “General Agreement on
Tariffs and Trade (GATT) che nel 1998 si è trasformato nel “World Trade
Organization” (WTO).
3)
Istituzioni finanziarie come il Fondo Monetario Internazionale (IMF), la Banca
Mondiale (WB), la Banca per i Regolamenti Internazionali (BIR). Questi due
organismi sono nati per
assicurare la stabilità del sistema economico internazionale (IMF) e per reperire
le risorse finanziarie necessarie alla ricostruzione postbellica dei paesi
europei (WB). Nel corso del tempo la loro azione è
stata diretta prevalentemente verso i paesi in via di sviluppo, con
l’obiettivo di promuovere la loro crescita economica e prevenire crisi
finanziarie locali e/o internazionali, e verso le economie socialiste per
favorirne la transizione verso l’economia di mercato.
Questo
processo di progressiva creazione di un sistema sovranazionale di monitoraggio
ed intervento è proseguito con la costituzione nel 1961 dell’Organizzazione
per la Cooperazione e lo Sviluppo (OCSE) ed ha raggiunto la forma più avanzata
di integrazione economica, sociale e politica
con la formazione della Unione Economica e Monetaria (UEM) avviata nel 1992
grazie al trattato di Maastricht. La costituzione della Banca Centrale Europea e
l’adozione dell’euro (a partire dal gennaio 2002) da parte di molti paesi
membri della Comunità Europea (Italia, Francia, Germania, Spagna, Portogallo,
Grecia, Belgio, Lussemburgo, Irlanda, Austria, Olanda, Finlandia) costituiscono
due momenti essenziali di questo processo.
2.
Il ruolo del Fondo Monetario Internazionale (IMF) e della Banca Mondiale (WB)
nel corso del tempo.
Il
Gruppo della Banca
Mondiale (World Bank Group) è costituito da: 1) la
Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo (IBRD)
che fornisce prestiti e assistenza a paesi a medio reddito e a paesi poveri
solvibili; 2) l’Associazione Internazionale dello Sviluppo (IDA)
che fornisce prestiti liberi da interessi ai paesi più poveri; l’International
Finance Corporation (IFC) che
sostiene la crescita dei paesi in via di sviluppo finanziandone il settore
privato in collaborazione con altri investitori; 4) l’Agenzia Multilaterale di
Garanzia degli Investimenti (MIGA)
che fornisce garanzia contro i rischi non commerciali agli investitori nei paesi
in via di sviluppo e consulenza ai governi per attrarre flussi finanziari ed
investimenti.
Pur
appartenendo al sistema delle Nazioni Unite il Fondo Monetario e la Banca
Mondiale godono di una totale indipendenza rispetto all'Assemblea Generale. La
Banca Mondiale ha un Presidente, tradizionalmente un americano (attualmente è
James Wolfehnson, il penultimo è stato John Stiglitz). Il Fondo Monetario è
diretto da un Managing Director,
solitamente un europeo (ora è Horst Koeler). I rappresentanti di ogni paese (24
executive directors) non appartengono
al corpo diplomatico ma vengono designati dai rispettivi ministeri del Tesoro,
ed hanno un potere di voto sostanzialmente proporzionale al contributo
finanziario del paese all'organismo, cioè alle cosiddette quote. Le quote sono
versate all’IMF e sono misurate in Diritti
Speciali di Prelievo (un SDR =1,32 dollari circa) e in parte in valuta
nazionale. La quota misura anche i massimali che il paese membro può prendere a
prestito dall’IMF a seconda delle diverse linee di credito (di solito un paese
può prendere a prestito dal 300% al 500% della proprio quota.). Per esempio gli
executive directors italiani (che rappresentano anche Malta, Portogallo,
Albania, Grecia, San Marino e Cipro) hanno il 4.23% dei voti totali del Board
of Executive Directors. Il rappresentante americano invece, visto che il suo
paese contribuisce in maniera più cospicua ha oltre il 17% delle quote di voto;
il Giappone e la Germania poco più del 6%, la Francia e l’Inghilterra poco
sopra il 5%. L’intera America Latina arriva solo al 4.5%.
Oltre
a monitorare il sistema economico internazionale per preservarne la stabilità e
favorirne la crescita il
Fondo agisce come un intermediario finanziario raccogliendo fondi nei paesi
industrializzati e concedendo prestiti ai paesi in
difficoltà, ed in particolare ai paesi in via di sviluppo. Il controllo
sui flussi finanziari internazionali esercitato dal Fondo è superiore di quanto
possa apparire dall’ammontare dei prestiti direttamente gestiti. Infatti anche
le altre linee di credito concesse dalla Banca Mondiale, da altre istituzioni
multilaterali e da parte di Istituzioni private sono soggette all’approvazione
del Fondo.
I
flussi di credito concessi direttamente dall’IMF e dalla WB ai paesi in via di
sviluppo sono
modesti in relazione a quelli globali, ma restano molto rilevanti per i paesi
riceventi. Basti ricordare che il flusso di capitali privati verso i PVS è
cresciuto nel tempo (arrivando ai 167 miliardi del 1995), ma circa il 75% è
andato solo a 9 paesi (Cina, Corea,
Malesia, Indonesia, Thailandia, India, Messico, Brasile, Argentina). L’impegno
dei paesi OCDE è oggi lo 0,3% del PIL ben lontano dal previsto 0,7%.
L’attività
dell’IMF e della WB si è via via concentrata a favore di quei paesi che
accettano di promuovere programmi di riforme e di riduzione della povertà, e
che si impegnano a creare istituzioni finanziarie trasparenti, efficienti,
solide in grado di stimolare la formazione interna di risparmio.
Negli ultimi venti anni la
concessione di tali crediti è stata vincolata all'adozione di specifiche
politiche di stabilizzazione e/o aggiustamento strutturale (le cosiddette conditionalities)
per assicurare un contesto macroeconomico favorevole a politiche sia di
riduzione degli squilibri che di crescita. Queste politiche sono state nel corso
del tempo, ed in particolare in questi ultimi anni, oggetto di critiche ed
attacchi anche aspri, in relazione alla loro scarsa efficacia ed
all’inadeguatezza nel raggiungere gli obiettivi prefissati.
Con
particolare riferimento alla Banca Mondiale si può osservare come i suoi
interventi si siano modificati nel corso degli anni in relazione non solo ai
diversi obiettivi, ma anche in relazione alle elaborazioni teoriche prevalenti.
Questa Istituzione ha progressivamente ampliato i suoi compiti divenendo nel
corso del tempo il più importante centro di analisi e di formulazione delle
politiche per sostenere lo sviluppo e ridurre la povertà. Our
dream: a World free of poverty sono le parole con cui si apre oggi il sito
della Banca Mondiale.
Negli
anni 60 l’obiettivo principale è stato quello della crescita del reddito
pro-capite; negli anni 70 è diventato la riduzione della povertà ed il
soddisfacimento dei bisogni fondamentali; negli anni 80 gli interventi sono
stati diretti al cosiddetto aggiustamento strutturale ed alla promozione
dell’economia di mercato; negli anni 90, infine, le politiche sono state
dirette alla promozione dello sviluppo umano.
2.1
Il periodo compreso tra il 1945 ed il 1975.
In
questo periodo le politiche si basano su modelli keynesiani o neoclassici
(aggregati). Lo sviluppo economico coincide
con la crescita del reddito pro-capite ed il principale fattore di sviluppo è
individuato nell'accumulazione di capitale. Prevale una visione ottimistica
della ripetibilità del processo di sviluppo in sintonia con la teoria degli
stadi di Rostow. Una distribuzione del reddito a favore dei profitti è
considerata alla base di una sorta di circolo virtuoso, e cioè come il fattore
che favorisce l'accumulazione di capitale. Si ritiene poi che la crescita del
reddito pro-capite possa essere sufficiente ad assicurare anche una sua miglior
distribuzione ed una riduzione della povertà grazie ad un effetto di
sgocciolamento (trikling-down).
In
questo periodo il dibattito tra economisti keynesiani e neoclassici si concentra
sui diversi meccanismi per far avvicinare il tasso di crescita naturale (che
garantisca la piena occupazione) e quello garantito (che corrisponde
all’eguaglianza tra domanda ed offerta ottenuta sfruttando la capacità
produttiva resa possibile dall’accumulazione di capitale).
Per i keynesiani il meccanismo è da ricercarsi in una modifica della
distribuzione funzionale dei redditi. Una modifica della distribuzione a favore
dei profitti è in grado di sostenere l’accumulazione e dunque di stimolare
l’occupazione. Una distribuzione a favore dei salari, quando ci si avvicina
alla piena occupazione, consente di riportare il sentiero di crescita verso
quello naturale. Per i neoclassici,
invece il meccanismo è da individuarsi in un mutamento delle tecniche indotto
da modificazioni dei prezzi dei fattori (lavoro e capitale). Se si è lontani
dalla piena occupazione la riduzione dei salari induce ad adottare tecniche
intensive di lavoro e viceversa.
In
questo primo periodo l’approccio seguito
dalla Banca Mondiale per la selezione dei progetti da finanziare è quello dei
“banchieri” nel senso che viene privilegiato il finanziamento
di singoli progetti in relazione anche al loro tasso di rendimento. La condizione
per concedere l’aiuto è che i progetti siano “meritevoli”. Il concetto di
“fungibilità dell’aiuto”, e cioè la sostituzione da parte dei singoli
Governi di interventi prioritari con altri meno urgenti resa possibile dai
finanziamenti da parte della Banca, mette ben presto in discussione questo tipo
di politica.
In
questo periodo la Banca Mondiale diventa una vera e propria Agenzia di sviluppo,
per l’identificazione, la negoziazione e la supervisione dei progetti. Gli
interventi sono diretti prevalentemente nel settore delle infrastrutture e delle
public utilities (centrali elettriche
e sistemi di trasporto) per favorire lo sviluppo industriale. Essa diventa un
“catalizzatore” di progetti e fonte di assistenza tecnica. Una buona parte
degli interventi è diretta verso il settore agricolo.
L’evidenza
empirica ed i risultati in termini di crescita e riduzione della povertà,
tuttavia, mostrano ben presto l’inadeguatezza di politiche basate
sull’accumulazione del capitale e sulla riduzione del rapporto
capitale/prodotto. Gli effetti di sgocciolamento (trickle
down) e di diffusione dei benefici in realtà non si erano verificati. Si
sviluppa allora l’attenzione verso il soddisfacimento dei bisogni di base come
la sanità, l’educazione, l’alimentazione (teoria dei basic
needs).. L’obiettivo diventa quello di conciliare la redistribuzione del
reddito e la riduzione della povertà con la crescita. I primi due diventano gli
obiettivi diretti dell’azione e prioritari.
A
cavallo tra gli
anni’70 e gli anni ’80 molti paesi, ed in particolare quelli dell’America
Latina, che avevano perseguito una strategia di sostituzione delle importazioni
sperimentarono serie difficoltà esterne, al punto che alcuni di essi giunsero
ad una vera e propria crisi di insolvenza (il Messico per primo nel 1982).
Durante gli anni 70 le politiche protezionistiche e il forte intervento dello
Stato avevano creato delle distorsioni nei prezzi dei fattori produttivi ed in
particolare una sottovalutazione del costo del capitale.
Inoltre
due shocks petroliferi (nel 1973-74 e nel 1979) avevano prodotto una situazione
di “stagflazione” e di elevato
indebitamento nei PVS. Vengono messi in discussione i vecchi modelli. Per
frenare i processi inflazionistici e ridurre la domanda aggregata si ricorre ad
un rialzo dei tassi di interesse. Gli effetti negativi sui PVS debitori sono
stati duplici: a) un effetto diretto, giacché aumentavano gli interessi sul
debito contratto dai PVS; b) un effetto indiretto, giacché il rallentamento
delle economie occidentali fece diminuire la domanda di materie prime (per molti
paesi debitori la principale fonte di ricavi da esportazione) e di conseguenza i
prezzi delle stesse. Cresce in questo periodo il rapporto debito/esportazioni.
Si
abbandona il modello autarchico e di controllo dell’economia da parte del
settore pubblico. Si afferma un nuovo modello basato sulla liberalizzazione del
mercato e degli scambi. Da parte dell’IMF della WB si suggeriscono politiche
di stabilizzazione e di aggiustamento degli squilibri macroeconomici (disavanzo
della Bilancia dei Pagamenti e del bilancio dello Stato).
L’erogazione dei fondi viene condizionata al fatto che i PVS adottino
politiche macroeconomiche virtuose. Si verifica una convergenza negli interventi
dell’IMF e della WB. Da una parte il Fondo Monetario si è sposta dagli
interventi di breve a quelli di medio periodo stimolando l’adozione di riforme
strutturali. Dall’altra la Banca Mondiale si sposta da strategie a lungo
termine a quelle a medio termine. Il Fondo si concentra sugli aspetti macro
(bilancio, moneta, tassi di cambio). La Banca Mondiale si concentra sugli
aspetti settoriali (trasporti, energia, commercio, agricoltura).
L’approccio
monetario alla bilancia dei pagamenti ha come obiettivo quello di frenare
l’uscita di capitali, ridurre il disavanzo nella Bilancia dei Pagamenti e
trattenere le riserve internazionali. La stabilizzazione generalmente
avviene attraverso una politica monetaria restrittiva. Anche la politica fiscale
diviene restrittiva (riduzione delle spese correnti e degli investimenti) al
fine di ridurre il disavanzo pubblico.
Nel
breve periodo, nella maggior parte dei casi, queste politiche creano
disoccupazione. Questo è il primo effetto immediato delle politiche restrittive
di controllo della domanda. Questi effetti sono poi generalmente aggravati dalle
politiche di riduzione delle spese di natura sociale. Al primo effetto, che ha
conseguenze sui redditi monetari, se ne aggiunge generalmente un altro, che ha
effetti in termini reali. Le politiche d'aggiustamento richiedono un
deprezzamento del tasso di cambio ed una crescita dei prezzi dei beni tradeable
(importati) al fine di ridurre le importazioni. In molti casi si tratta di beni
che entrano nel paniere di consumo delle classi lavoratrici (più povere), così
che si determina un immediata perdita di benessere
in termini reali. Devono essere
introdotti dei safety nets per il
sostegno dei redditi dei poveri.
Nel
lungo periodo si verificano effetti sul tasso di crescita che dipendono dalle
reazioni dei lavoratori in termini di offerta di lavoro, dal mutamento nelle
tecnologie (si fa l'ipotesi che il settore dei tradeable
adotti tecniche caratterizzate da una maggior intensità di lavoro), e in
relazione alla caduta del tasso di investimento ed alla riduzione delle
importazioni di beni capitali.
Un
secondo gruppo di politiche suggerite dal Fondo e dalla Banca Mondiale sono
quelle note come politiche di aggiustamento strutturale. Esse consistono in una
progressiva liberalizzazione di tutti i mercati.
In primo luogo si suggerisce di liberalizzare il mercato estero mediante
l’eliminazione del protezionismo e la liberalizzazione dei movimenti di
capitale. Privatizzazione dell’apparato produttivo e liberalizzazione dei
movimenti di capitale erano e sono scelte quasi necessariamente complementari
dal momento che in assenza di un mercato interno sufficientemente vasto bisogna
permettere che ad acquistare le azioni sia il capitale straniero.
Il
cosiddetto Washington consensus si
sviluppa come una vera e propria teoria a partire dall’inizio degli anni 90.
Le giustificazioni teoriche di stampo neo-liberista sono formulate da un gruppo
di economisti dello sviluppo che appartengono al cosiddetto “mainstream”. La
principale argomentazione si basa sulla convinzione che la principale differenza
tra paesi in via sviluppo e paesi sviluppati consiste nella carenza di capitale
(fisico ed umano). Se si adottano politiche che rimuovano gli ostacoli di natura
strutturale (protezionismo, controlli dei prezzi e dei mercati) sarà possibile
avviare un processo di sviluppo del tutto analogo a quello che ha caratterizzato
in passato le economie oggi industrializzate. Le ipotesi alla base di questo
modello sono: 1) perfetta informazione, 2) mercati caratterizzati da concorrenza
perfetta, 3) la distribuzione del reddito e le Istituzioni non contano.
L’insieme
di provvedimenti che costituiscono questa politica possono essere sintetizzati
nelle seguenti 10 proposizioni.
*
Disciplina fiscale.
*
Indirizzare la spesa pubblica verso settori ad elevata redditività, ma anche in
grado di migliorare la distribuzione del reddito (sanità, istruzione primaria
ed infrastrutture)
*
Riforme fiscali basate su di una riduzione delle aliquote marginali ed un
allargamento della base contributiva.
*
Liberalizzazione dei tassi d’interesse.
*
Adozione di un tasso di cambio di mercato.
*
Liberalizzazione del commercio internazionale.
*
Liberalizzazione dei movimenti di capitale.
*
Privatizzazione delle industrie statali
*
Liberalizzazione dei mercati.
*
Rafforzamento dei diritti di proprietà.
Nel
giro di pochi anni ben 80 paesi adottano politiche di deregulation
per favorire la crescita (ottengono un della B.P.ed una progressiva riduzione
del debito estero). I prezzi diventano segnale di scarsità. L’eliminazione
della protezione tariffaria e di un cambio sopravalutato conduce ad un aumento
della competitività con l’estero.
Nel
corso degli anni 90 si individuano anche nuovi criteri guida per la concessione
dei prestiti. Alla “Condizionalità economica” e cioè l’impegno ad
adottare politiche di riforme strutturali si aggiunge la “Condizionalità
democratica”. Si individua, cioè, un preciso legame tra
sviluppo, democrazia e tutela dei diritti umani. La Banca Mondiale introduce la
richiesta della tutela dei diritti umani, della lotta alla corruzione, di
efficienza e trasparenza nella Pubblica amministrazione come principi di good
governance.
Le
politiche basate sull’Washington
Consensus hanno ottenuto buoni risultati dal punto di vista della riduzione
degli equilibri macroeconomici. Le conseguenze economiche e sociali, tuttavia,
in termini di crescita della diseguaglianza e della povertà sono state molto
pesanti.
A
partire dalla fine degli anni 90 inizia un processo di revisione critica delle
politiche suggerite dal Fondo Monetraio e della Banca Mondiale. Si sviluppa una
nuova impostazione nota come Post-Washington
Consensus. In particolare Stiglitz individua nelle politiche liberiste
adottate in modo generalizzato, in sistemi economici che non presentavano le
caratteristiche proprie del modello neo-classico, la principale causa del
fallimento. Gli esiti fallimentari dell’Washington
Consensus sono attribuiti in larga misura alla mancanza di prospettiva
storica ed alla scarsa considerazione della complessità del processo di
sviluppo.
L’ex
presidente della Banca Mondiale formula alcuni principi che dovrebbero essere
alla base di politiche di sviluppo più efficaci e più adeguate alle esigenze
dei PVS. Lo sviluppo consiste in una trasformazione della società da una
fondata su relazioni tradizionali ad una moderna. Questo processo si deve
tradurre in una riduzione delle diverse forme di dualismo (urbana/rurale,
tecnologie tradizionali/moderne). Le politiche, che devono essere di natura
comprensiva, devono tener conto del fatto che i paesi in via di sviluppo sono
sostanzialmente differenti dai paesi sviluppati, ma anche diversi tra di loro.
Ciascuno dunque deve individuare e seguire un proprio specifico percorso di
sviluppo. I programmi di sviluppo devono
essere predisposti con l’obiettivo non solo di accrescere il reddito, ma anche
di ridurre la povertà, tutelare l’ambiente e promuovere la democrazia.
La
crescita richiede istituzioni finanziarie trasparenti che possano concedere
prestiti alle aziende nazionali. La costituzione di istituzioni economiche
(finanziarie e creditizie), di istituzioni politiche e sociali credibili, la
formazione di capitale umano e di capitale sociale sono i capisaldi di queste
politiche.
Il
concetto di “capitale sociale”, introdotto originariamente dalla letteratura
sociologica, è considerato da Stiglitz come una condizione per l’avvio del
processo di sviluppo. Alcuni autori hanno proposto una definizione molto ampia
di capitale sociale includendo in esso “l’ambiente politico e sociale che dà
forma alla struttura della società e permette alle norme di svilupparsi”.
Altri autori hanno cercato, invece, di enucleare quello che può considerarsi
l’elemento costitutivo e caratterizzante del capitale sociale inteso non tanto
come ambiente istituzionale ma piuttosto come insieme di relazioni e di
interazioni tra agenti. Per questi autori, ad esempio, il capitale sociale
consiste essenzialmente nella “fiducia, norme che regolano la convivenza e i
networks di coinvolgimento
civico, e cioè elementi che migliorano l’efficienza dell’organizzazione
sociale promuovendo iniziative prese di comune accordo”. La fiducia è la
caratteristica essenziale del capitale sociale e cioè “l’aspettativa, che
nasce all’interno di una comunità, di un comportamento prevedibile, corretto
e cooperativo, basato su norme comunemente condivise, da parte dei suoi
membri”.
Concentrare
l’attenzione unicamente sull’inflazione e sugli equilibri macroeconomici,
come hanno fatto il Fondo Monetario e la Banca Mondiale, è non solo
insufficiente ma può rallentare invece che promuovere lo sviluppo. Una
condizione essenziale per l’avvio e la promozione d’ogni processo di
sviluppo è la fiducia. E’ proprio la fiducia che viene a mancare quando si
instaurano processi recessivi.
3.
Il “fallimento” delle politiche del Fondo Monetario Internazionale e della
Banca Mondiale.
L’esperienza
di molti paesi mostra con evidenza quali siano stati gli effetti recessivi
conseguenti alle politiche di aggiustamento strutturale (America Latina) e di
gestione delle crisi finanziarie (Russia, Sud-Est Asiatico) suggerite dal Fondo
Monetario e dalla Banca Mondiale. In quasi tutti i paesi in via di sviluppo la
crescita del reddito pro-capite ha subito, in seguito a queste politiche, un
netto rallentamento.
In
America Latina nel ventennio 1980-2000 il reddito è cresciuto solamente del 7%
(era cresciuto del 75% nel periodo 1960-1980). In Africa il reddito pro-capite
è diminuito del 15% (era cresciuto del 34% nel periodo 1960-80). La crescita è
avvenuta solo in quei paesi che non hanno adottato riforme di stampo liberista
come la Cina e l’India. La Cina mantiene un rigido controllo del cambio ed un
elevato grado di protezionismo. Il sistema bancario è ancora di proprietà
pubblica.
Il
rallentamento della crescita ha colpito prevalentemente i paesi a più basso
livello di reddito. Se si raggruppano i paesi per quintile di reddito si osserva
che il primo quintile ha sperimentato una diminuzione dello 0,5% all’anno nel
periodo 1980-2000 (di fronte ad una crescita del 1,9% nel periodo 1960-80). Nei
paesi che corrispondono al quintile intermedio la crescita si è ridotta a meno
del 1% all’anno (rispetto ad una crescita annua nel periodo precedente del
3,6%). Allo stesso modo si è verificato un peggioramento nella maggior parte
degli indicatori sociali (aspettativa di vita, mortalità infantile, livello
d’istruzione).
La
recente crisi in Argentina può essere considerata un esempio emblematico degli
effetti negativi delle politiche suggerite dal Fondo Monetario. La recente
svalutazione del peso nei confronti del dollaro (di ben il 41%) può essere
considerata l’effetto finale di una serie di errori compiuti nell’arco di un
decennio. Per dirla con Stiglitz non è che l’ultimo di una serie di
salvataggi guidati dal Fondo Monetario Internazionale che si sono conclusi con
uno sperpero di miliardi di dollari e che non hanno salvato le economie
che intendevano aiutare. Nei primi anni 90 in Argentina per combattere
l’iperinflazione era necessario adottare politiche che producessero un
mutamento di aspettative. L’ancoraggio del peso al dollaro (con una parità
unitaria) doveva servire a questo. La stabilizzazione suggerita dal Fondo
Monetario ha effettivamente abbassato l’inflazione, ma ha finito con il
bloccare la crescita. Se l’Argentina avesse adottato un sistema di cambi più
flessibile, o quanto meno un tasso di cambio che maggiormente riflettesse i
modelli commerciali del paese, la caduta delle esportazioni sarebbe stata meno
sensibile.
Il
processo di privatizzazione era stato sostenuto dall’afflusso di ingenti
capitali dall’estero. La privatizzazione del sistema bancario si era tradotta
in un sistema stabile ma inadeguato a sostenere la crescita delle imprese
nazionali, ed in particolare delle piccole e medie imprese. Le difficoltà ad
ottenere prestiti da parte delle industrie argentine furono aggravate dal rialzo
dei tassi di interesse conseguente alla crisi che a partire dal 1997 si era
andata sviluppando nel Sud-Est asiatico.
Proprio
in seguito alla crisi asiatica il valore del dollaro, al quale il peso argentino
era legato, cominciò ad aumentare. Nel frattempo il Brasile, paese confinante e
partner commerciale del Mercosur, ha consentito alla propria moneta di
svalutarsi in modo significativo. La caduta dei salari e dei prezzi interni non
è bastata all’Argentina per recuperare il suo grado di competitività a
livello internazionale. A ciò si aggiunga che l’esportazione di molti dei
suoi prodotti agricoli hanno subito un forte rallentamento a causa delle
politiche protezionistiche dei paesi industrializzati ed in particolare di
quelli europei (PAC).
Secondo
Stiglitz è il Fondo Monetario ad aver commesso “il suo errore fatale.
Incoraggiando una politica fiscale restrittiva, ha ripercorso la strada già
sbagliata nel Sud-Est asiatico, con le stesse disastrose conseguenze.
L’austerità fiscale avrebbe dovuto ripristinare la fiducia….qualsiasi
economista avrebbe previsto che le politiche restrittive avrebbero provocato un
rallentamento dell’economia, e che gli obiettivi di bilancio non sarebbero
stati soddisfatti”.
Sempre
secondo Stiglitz le lezioni da trarre oggi sono: 1) In un mondo di tassi
variabili, stabilizzare una singola valuta nei confronti del dollaro è
rischioso. Il paese perde infatti progressivamente di competitività.
Adeguamenti nel tempo dei tassi di cambio fanno parte del meccanismo di
reazione. 2) Se si ignorano i contesti sociali e politici lo si fa a proprio
rischio e pericolo. Qualsiasi governo persegua politiche che lasciano larghi
strati di popolazione disoccupata o sottoccupata fallisce nella propria missione
primaria. 3) Concentrarsi sull’inflazione, senza tener conto degli effetti
delle politiche sulla disoccupazione e sul tasso di crescita è
rischioso. La crescita richiede istituzioni finanziarie che possano
finanziare le aziende nazionali. Vendere la proprietà delle banche agli
stranieri, senza adeguate misure di salvaguardia, può bloccare la crescita e la
stabilità. 4) Raramente si ripristina la fiducia con politiche che provochino
situazione recessive. Sotto questo profilo il Fondo Monetario ha una grossa
responsabilità per aver insistito nel suggerire l’adozione di politiche
restrittive. 5) Le politiche di
stabilizzazione possono essere adeguate in determinate circostanze, ma finiscono
con il produrre effetti perversi qualora siano adottate in modo inappropriato
e/o siano perseguite troppo a lungo nel tempo. Queste esperienze segnalano
quanto sia urgente una riforma dell’architettura finanziaria
internazionale.
Anche
in Russia il Fondo Monetario ha insistito nel mantenere un tasso di cambio
sopravalutato favorendo la crescita dei tassi d’interesse (fino al 150%).
Queste politiche hanno finito con il favorire una crescita dell’indebitamenteo
verso l’estero ed a provocare una bolla speculativa a scapito degli
investimenti e dell’economia reale. Un rublo sopravalutato ha reso
artificialmente convenienti le importazioni a scapito delle esportazioni fino a
quando non si è giunti al suo collasso nell’agosto del 1998. La svalutazione,
d’altra parte, ha consentito alla Russia di rilanciare il settore industriale
che era stato a lungo stagnante, con effetti positivi sull’avanzo commerciale
della Bilancia dei Pagamenti.
Lo
stesso tipo di politica, ancora, è stata perseguita in Brasile nel 1998. Anche
in questo caso il tasso di interesse salì a più del 50%. Il paese riuscì ad
ottenere un elevato prestito dal Fondo Monetario con il risultato di ritardare
solamente di qualche mese il collasso della moneta.
Si
possono citare anche casi opposti e cioè di paesi che, non avendo seguito i
suggerimenti, del Fondo sono stati colpiti dalla crisi in modo più lieve. La
Malesia, invece di lasciar crescere il tasso di interesse, ha imposto controlli
sui flussi in uscita della propria moneta riuscendo a ridurre progressivamente
l’indebitamento nei confronti dell’estero.
4.
Dallo sviluppo economico allo sviluppo umano. L’insegnamento di
A.K.Sen.
A
partire dall’inizio degli anni ’90 si apre una nuova fase nel processo di
elaborazione delle teorie del sottosviluppo e conseguentemente delle politiche
da adottarsi da parte degli Organismi Internazionali. Da parte delle Nazioni
Unite viene accolta un’impostazione alternativa a quella tradizionale. Il
mutamento è alquanto radicale e diventa esplicito a partire dalla pubblicazione
del 1° Rapporto dell’UNDP. Questo Rapporto si
apre con la seguente affermazione: "Lo sviluppo umano è il fine, la
crescita economica il mezzo...Maggiore attenzione deve essere posta...alla
struttura e alla qualità della crescita, al fine di garantire che essa sia
diretta a sostenere lo sviluppo umano, riducendo la povertà, proteggendo
l'ambiente e assicurandone la sostenibilità".
Questo
mutamento di prospettiva richiede di individuare indicatori più significativi
del livello di benessere e del grado di deprivazione. In un’ottica, in qualche
misura, alternativa a quella tradizionale si sviluppa la nuova teoria dei
bisogni fondamentali (basic needs).
Negli anni 80 la teoria prevalente era la
teoria tradizionale dei basic needs,
che considerava come obiettivo principale dello sviluppo quello di assicurare un
reddito minimo adeguato a soddisfare i "bisogni fondamentali"
(alimentazione, vestiario, abitazione). Negli anni 90 si sviluppa una
“nuova” teoria dei basic
needs secondo la quale il tenore di vita è rappresentato non tanto
dal livello del reddito, bensì da altri indicatori di natura qualitativa in
grado di meglio cogliere quegli aspetti del benessere che non sono facilmente
monetizzabili come la salute, la longevità, il grado d’istruzione, il grado
di partecipazione alla vita sociale. Il reddito pro
capite deve essere considerato solo come un mezzo, tra gli altri, per
raggiungere un determinato livello di benessere e non come l’obiettivo
principale d’ogni politica di sviluppo.
Questa
impostazione, alquanto innovativa, riflette quella che Amartya K. Sen è andato
elaborando per più di un ventennio. La
dimensione etica e l'attenzione per la rilevanza sociale dei problemi economici
pervade tutta la sua opera. La gamma dei problemi trattati è molto ampia e di
vasto respiro. Sen rifugge dagli sterili tecnicismi ed è sempre attento alle
conseguenze sociali e politiche delle decisioni economiche anche se la sua
impostazione resta essenzialmente microeconomica e cioè rivolta all'analisi del
comportamento individuale. Le ingiustizie non sono considerate il risultato di
un conflitto tra classi sociali, ma sono interpretate come la conseguenza della
sostanziale eterogeneità degli esseri umani in relazione sia alle
caratteristiche personali che all'ambiente esterno.
Nei
numerosissimi contributi e scritti di questo autore sono ricorrenti alcuni
concetti chiave come quello di uguaglianza, libertà, capacità. L'
"eguaglianza di che cosa?" resta la domanda fondamentale alla quale
non è ancora stata fornita una risposta soddisfacente. Questa domanda si impone
a Sen bambino di nove anni in seguito ad un evento drammatico come la morte per
inedia di un uomo sui gradini della scuola nel villaggio del Bengala in cui
vive. A partire da questo momento sarà questa, e cioè‚ la ricerca delle
cause che rendono gli esseri umani così diseguali, uno dei temi che segneranno
il suo percorso intellettuale. Per dirla con lo stesso Sen sarà questa una
faticosa ricerca di "idee astratte" utili "per affrontare orrori
concreti" come le carestie.
Sottolineare
la naturale diversità degli esseri umani non solo consente a Sen di attribuire
al concetto di eguaglianza una valenza normativa particolarmente forte, ma
evidenzia il conflitto che può nascere tra diversi concetti di eguaglianza, e
cioè tra diversi spazi valutativi. Questa impostazione conduce a due importanti
considerazioni. Innanzitutto è impossibile dare una definizione assoluta di
eguaglianza in quanto essa può differire in base alla variabile assunta come
termine di riferimento. In secondo luogo non è sufficiente garantire identiche
opportunità ed eguali posizioni di partenza per assicurare un'effettiva
eguaglianza di risultati. Per assicurare ad ogni individuo, anche attraverso
adeguate politiche sociali, la "libertà di condurre l'esistenza che
ciascuno sceglierebbe di condurre" occorre eliminare i numerosi ostacoli
(culturali, religiosi, istituzionali) che creano discriminazione tra i diversi
individui in relazione alle caratteristiche personali (sesso, razza, presenza di
handicap) ed ambientali (malattie endemiche, inquinamento). Occorre ampliare la
gamma delle dotazioni iniziali possedute da ogni individuo includendo oltre a
quelle materiali o immateriali come il capitale umano, anche la disponibilità
di altre risorse come i beni relazionali, l'informazione i beni pubblici.
Per
Sen la libertà non resta un concetto astratto, ma assume un contenuto preciso e
cioè quello di capacità da parte dei singoli di scegliere consapevolmente ed
ottenere ciò cui attribuiscono valore. Non v'è dubbio che alcune libertà
fondamentali, come quella di partecipare attivamente alla vita sociale, siano
subordinate al soddisfacimento d'un livello minimo di benessere in relazione
alla struttura ed alla complessità del sistema economico d'appartenenza. Libertà
ed eguaglianza non sono nell'impostazione di Sen valori antitetici e
conflittuali, come accade nella gran parte delle teorie libertarie, bensì
complementari. "La libertà è uno dei possibili campi d'applicazione
dell'eguaglianza, e l'eguaglianza è una delle possibili configurazioni della
distribuzione delle libertà". La libertà deve essere il valore centrale,
e cioè il principio guida nella scelta dei piani di vita di individui che diano
importanza "all'agire libero e all'essere in grado di scegliere".
Per
Sen anche il concetto di sviluppo finisce con il coincidere con quello di libertà.
Ottenere una espansione delle libertà godute dagli esseri umani deve essere
l’obiettivo principale alla base d’ogni piano sviluppo. Uno sviluppo di
natura multidimensionale e cioè economico, ma anche morale, culturale e sociale
deve essere inteso come libertà. Il grado di sviluppo di un paese è
strettamente connesso al grado di espansione delle libertà godute dai singoli
individui ed assicurate dalle autorità. La libertà, in particolare ha una
duplice valenza e riveste due ruoli nel processo di sviluppo e cioè un “ruolo
costitutivo” ed un “ruolo
strumentale”.
La
libertà ha, innanzitutto, un “ruolo costitutivo” del processo di sviluppo.
Essa deve essere garantita e difesa dalle istituzioni appropriate (norme e
regole, meccanismi legali, strutture di mercato, servizi scolastici, sanitari e
mezzi di telecomunicazione) che caratterizzano i sistemi democratici. La sua
tutela, in altre parole implica l’esistenza e la creazione di quel capitale
sociale la cui importanza è stata sottolineata anche da Stiglitz.
Per
Sen la libertà riveste anche un “ruolo strumentale”. Intesa come
allargamento delle capacità di scelta diventa lo strumento per avviare e
sostenere un processo di sviluppo ed in particolare dello sviluppo umano. Il
superamento delle condizioni di povertà e di sottosviluppo si ottiene grazie
alla promozione delle libertà ed alle opportunità di scelta.
I
punti che nel pensiero di Sen hanno maggiormente attirato l’attenzione degli
studiosi, riguardano le critiche nei confronti di due
assunti tipici della tradizione utilitarista come la sostanziale identità
posta tra i due concetti di utilità e benessere e l'esistenza di una relazione
diretta tra quantità di beni posseduta e utilità totale ottenibile. Per Sen il
concetto di "persona" deve assumere un significato più ampio di
quello riconducibile alla sola attività di consumo. Il considerare l'utilità
come unica fonte di benessere è riduttivo poiché, nel migliore dei casi, esso
è soltanto un riflesso di una condizione più generale e non necessariamente
materialistica, alla cui determinazione non possono essere estranee motivazioni
e sentimenti morali. Al concetto di utilità Sen sostituisce quello di diritti,
ed in particolare della capacità da parte degli individui di esercitare i
propri diritti di libertà in tutte
le sfere, e cioè sia in quella sociale, che politica che economica. Tutti
devono poter isolare un nucleo minimale di scelte, quelle appartenenti alla
propria "sfera protetta", rispetto ai quali la volontà del singolo è
sovrana. La sfera puramente utilitaristica, su cui si fondano le impostazioni
tradizionali, risulta troppo ristretta, in quanto "l'utilitarismo vede le
persone come localizzazioni delle loro rispettive utilità". I diritti
d'altra parte, in quanto rappresentano aree di discontinuità, non possono
trovare spazio in una struttura teorica come quella utilitaristica che postula
la continuità.
In
un gruppo di lavori di natura propositiva Sen formula e progressivamente
arricchisce la teoria delle "capacità" (capabilities)
e dei "funzionamenti" (functionings).
Questa teoria costituisce una sorta di ponte per arrivare ad una teoria della
diseguaglianza, della povertà e dello sviluppo non convenzionale, e
politicamente molto rilevante. Al tradizionale concetto di "welfare"
Sen sostituisce quello di "well-being", il cui livello dipende dalle
capacità individuali di ottenere delle realizzazioni, ovvero di una vasta gamma
di capacità umane. La capacità di trarre beneficio dall'uso dei beni, o più
in generale di acquisire "funzionamenti" cui si attribuisce per
qualche motivo valore è strettamente condizionata dalla effettiva utilizzazione
degli stessi beni. La relazione tra consumo dei beni ed utilità non è più
diretta, ma mediata dalla capacità di trasformare le caratteristiche dei beni
in funzionamenti e realizzazioni in base ad
una specifica relazione funzionale tra il soggetto ed i beni stessi. Il
benessere individuale dipenderà allora dalla disponibilità dei beni, dalle
caratteristiche individuali (metabolismo, mancanza di handicap, livello
culturale) e cioè dalla specifica
relazione funzionale tra il soggetto ed i beni stessi, e dall’ambiente esterno
(caratteristiche istituzionali, forme di mercato, Welfare
State).
Il
concetto di "funzionamenti", a differenza dell'utilità è oggettivo
in quanto riguarda realizzazioni osservabili di una persona. In secondo luogo
consente di tenere conto delle differenze interpersonali e della diverse
esigenze (in termini di risorse, reddito e beni a disposizione) per raggiungere
medesimi obiettivi di "di fare e di essere". La metrica dell'utilità
appare particolarmente distorcente nei casi in cui il soggetto non può aspirare
a determinati traguardi, semplicemente perché non li può neppure immaginare, o
perché sono fuori dalla portata delle sue azioni. In questo caso solo
un'impostazione alternativa come quella basata sulle "capacità" è in
grado di evidenziare immediatamente la mancanza di libertà nell'ottenere anche
i funzionamenti più elementari.
Non
è sufficiente la titolarità dei diritti, occorre la reale possibilità di
esercitarli. Anche questo è un aspetto della libertà. Il valore della libertà’
dipende sia dal numero di opzioni offerte a ciascun individuo sia dalle
caratteristiche dei risultati che si possono raggiungere in termini di
funzionamenti. In altre parole una corretta ed esauriente valutazione del grado
di libertà goduto dagli individui, in una prospettiva economica richiede di
tener conto del tipo di processo adottato dagli individui per esercitare le
proprie scelte e del valore per l’individuo dei risultati ottenuti.
L'impostazione
delle capacità diventa particolarmente significativa quando si debba
"giudicare la diseguaglianza e l'ingiustizia lungo le barriere di classe,
genere e altre divisioni sociali". Proprio grazie a quest'impostazione, che
presuppone un allargamento della base informativa, è possibile meglio
interpretare quei fenomeni di diseguaglianza che sono riconducibili a diverse
forme di discriminazione sulla base della classe, del sesso o di ogni altro
tipo. La diseguaglianza e la povertà sono
riconducibili al diverso grado di partecipazione od invece di esclusione dalle
sfere economica e politico-sociale.
Ai
fini di un'analisi empirica dello sviluppo e delle corrispondenti politiche
basate sull’impostazione di Sen l'insieme informativo che si rende necessario
diviene piuttosto esteso ed
articolato. E' necessario, in particolare, definire dei criteri e delle regole
in base alle quali selezionare un insieme di funzionamenti (inevitabilmente
arbitraria) all'interno del quale potrà
poi essere riconosciuto un eventuale carattere di priorità per le funzioni
ritenute particolarmente rilevanti e che, come tali, potrebbero richiedere
specifiche forme di garanzia e tutela. Concettualmente questo punto non sembra
dissimile dal criterio di fissazione di una linea di povertà, intesa in questo
caso però come soglia minima di funzionamenti, al di sotto del quale si
manifestano condizioni di privazione.
Si
tratta di individuare una lista che sia invariante nel tempo per consentire
confronti internazionali ed indipendente dalle norme e dai costumi delle diverse
società. Essa dovrebbe essere comprensiva di alcuni funzionamenti primari come
mantenersi in vita, assicurare la riproduzione, essere ben nutriti, sottrarsi
alla morbilità evitabile ed alla mortalità precoce, ma anche "avere
rispetto di se stesso, essere in grado di prendere parte alla vita della comunità
". Si delinea così una concezione assoluta della povertà nello spazio
delle "capacità" (essenziali e quindi invarianti nel tempo e nello
spazio) e relativo nello spazio dei beni (diverso ammontare di beni e servizi e
risorse in relazione alle caratteristiche personali ed al contesto ambientale di
appartenenza). Se un individuo non riesce a soddisfare un bisogno fondamentale,
come quello dell'alimentazione o dell'abitazione, significa che è privo della
capacità minima necessaria, o, pur possedendola, non la utilizza in modo
adeguato. Occorre, in secondo luogo, identificare una serie di indicatori in
grado di fornire informazioni sul tenore di vita dei soggetti. Questi
indicatori di natura non monetaria, come l’aspettativa di vita alla nascita,
il tasso di mortalità infantile, il grado di alfabetizzazione, sono in grado di
riflettere l’effettivo progresso raggiunto da un paese meglio di quanto non
avvenga con il reddito pro capite. Il
valore degli indicatori sociali e demografici, anche se risulta da una media, è
significativo delle reali condizioni di vita e di sviluppo di un paese
contrariamente a quanto accade per il reddito pro
capite. È molto difficile, infatti, che la mortalità infantile si abbassi,
o la speranza di vita alla nascita cresca se contemporaneamente non migliorano
le condizioni di vita di gran parte della popolazione, e anche di quella più
povera. E questo per due ragioni. Esiste, in questo caso, un limite superiore di
natura fisiologica per ciascun individuo (contrariamente a quanto avviene per il
reddito), così che un miglioramento medio di questi indicatori segnala sempre
un miglioramento generalizzato delle condizioni di vita. Questi indicatori poi,
limitatamente alle classi ricche, hanno ormai raggiunto un buon livello in quasi
tutti i paesi. Ne segue che un eventuale miglioramento può risultare solamente
da un miglioramento anche per le classi più povere.
Il
livello d’istruzione, poi, è un indicatore non solo del livello di sviluppo,
ma anche e soprattutto delle potenzialità di sviluppo di un paese. Gli
investimenti in capitale umano (istruzione, salute) devono essere considerati
non solo come un obiettivo in sé, ma anche come un importante fattore di
sviluppo alla pari del capitale fisico. Basti sottolineare come le recenti
teorie della crescita endogena abbiano consentito di individuare nella dotazione
di capitale umano il fattore cui deve essere attribuito la variabilità (o
mancata convergenza) nei tassi di crescita dei diversi paesi. L’evidenza
empirica, del resto, mostra che il maggior successo, in termini di sviluppo e di
riduzione della povertà, sia stato raggiunto da quei paesi che hanno investito
in capitale umano.
Il
fallimento delle politiche tradizionali suggerisce di modificare il concetto di
sviluppo e sottosviluppo cui fare riferimento, tenendo conto
dell’interdipendenza che esiste tra i diversi obiettivi economici e sociali.
L’impostazione proposta da En non solo costituisce un importante contributo
analitico. Il considerare il sottosviluppo come inadeguatezza di reddito, di
condizioni sociali, demografiche ed ambientali a raggiungere determinati
funzionamenti, date le diverse capacità individuali, invece che semplicemente
inadeguatezza dei livelli di reddito indica significative linee guida per
l’elaborazione delle politiche economiche e sociali. Per
dirla con Sen " anche se può essere utile pensare ai bisogni primari sotto
forma di requisiti minimi di beni e servizi, la privazione associata alla povertà
non riguarda fondamentalmente i beni, ma piuttosto le funzioni per le quali tali
risorse costituiscono mezzi indispensabili".
Appendice
L’Organizzazione
delle Nazioni Unite
L’Organizzazione
delle Nazioni Unite comprende quasi tutti gli Stati del mondo ed è stata
costituita nel 1945. Le competenze di questo "organismo multilaterale"
sono molto numerose (mantenere la pace, promuovere la sicurezza internazionale,
garantire il rispetto dei diritti e l’autodeterminazione dei popoli,
promuovere la
cooperazione internazionale e lo sviluppo) e sono attribuite a
diverse Agenzie od Organi Sussidiari. Gli Organi principali sono l’Assemblea
Generale, il Consiglio di Sicurezza,
il Consiglio Economico e Sociale, la Corte Internazionale di Giustizia ed
il Segretariato Generale. L’Assemblea
Generale è costituita dai rappresentanti di tutti gli stati membri delle
Nazioni Unite; tali rappresentanti appartengono ai corpi diplomatici dei vari
paesi e sono gli ambasciatori all'ONU. Le decisioni vengono prese a maggioranza
secondo le regola "una testa, un voto", indipendentemente dal paese
rappresentato, anche se l'Assemblea non ha comunque il potere di rendere
operanti le proprie decisioni. In questa sede viene nominato il Segretario
Generale (che al momento è Kofi Hannan).
Gli
Organismi ed Agenzie che hanno competenze specificatamente in campo sociale ed
economico sono:
-
L’ECOSOC: è il più
importante organo di coordinamento per il lavoro dell’ONU sui temi economici,
sociali, culturali, dell’educazione, sanitari e in generale del rafforzamento
dei diritti umani. ECOSOC è affiancato nel suo lavoro da cinque Commissioni
economiche regionali tra cui la più nota è l’ECLAC (Commissione economica
per l’America Latina ed i Caraibi) con sede a Santiago del Cile.
-
L’ILO: (International
Labour Office) è stata la prima istituzione specializzata del sistema delle
Nazioni Unite. L'ambito d'interesse è costituito dalle problematiche del
mercato del lavoro (predisposizione di norme minime da rispettare nei diversi
campi come per esempio la libertà sindacale, l’abolizione del lavoro forzato
e l’uguaglianza di opportunità e di trattamento) L’ILO fornisce inoltre
assistenza tecnica ai diversi paesi nei settori della formazione professionale,
delle politiche del lavoro, del diritto del lavoro e delle relazioni
professionali, delle statistiche sul lavoro e sulla sicurezza e salute dei
lavoratori.
-
L’UNICEF (Fondo delle
Nazioni Unite per l’Infanzia): dal 1946 si occupa, su mandato dell’Assemblea
Generale dell’ONU, della protezione dei diritti dei bambini (Convenzione sui
Diritti del Bambino). Mobilita risorse per la protezione dei bambini più
svantaggiati ed aiuta i paesi, soprattutto quelli in via di sviluppo, a
promuovere politiche di sostegno ai bambini, alle donne ed alle famiglie
mediante la fornitura di adeguati servizi sociali.
-
L’UNDP
(Programma delle Nazioni Unite
per lo Sviluppo): è stato istituito nel 1965 ed è l’agenzia dell'ONU a
maggior diffusione territoriale (132 uffici nazionali). L'obiettivo principale
è quello di promuovere lo sviluppo umano
favorendo politiche di riduzione della povertà, basate sulla good
governance e sull’empowerment delle
fasce più deboli. I Rapporti sullo Sviluppo Umano, pubblicati a partire dagli
anni ’90, hanno avuto un’importanza via via crescente nel costruire una
nuova impostazione per affrontare i problemi del sottosviluppo e dello sviluppo.
-
L’UNCTAD
(United
Nations Conference on Trade and Development): istituita nel 1964
come conferenza intergovernativa permanente per discutere congiuntamente i temi del
commercio internazionale e dello sviluppo. Le conferenze ministeriali
(dei 188 stati membri) si riuniscono ogni quattro anni e delineano le politiche
da seguire. L'obiettivo è quello di migliorare la posizione relativa dei paesi
in via di sviluppo aiutandoli nel processo di integrazione internazionale, con
riferimento principalmente alle regole commerciali, alla tecnologia, agli
investimenti diretti esteri ma
anche allo sviluppo ecologicamente sostenibile.
-
La
FAO (Organizzazione delle Nazioni
Unite per l’alimentazione e l’agricoltura): creata nell’ottobre 1945 con
lo scopo di migliorare lo stato nutrizionale, il livello di vita e la condizione
delle popolazioni rurali. Le attività sono quelle di raccolta analisi e
diffusione delle informazioni
aiutando i governi in materia di pianificazione. Uno degli obiettivi è la
conservazione ed il mantenimento delle risorse naturali in un’ottica di
utilizzo di tecnologie appropriate, economicamente sostenibili e socialmente
accettabili.
-
L’OMS
(Organizzazione Mondiale della Sanità). istituita nel 1946 ha la sede
principale a Ginevra. Ogni paese membro collabora alle attività e nello stesso
tempo può accedere ai suoi
servizi. L’OMS ha compiti di promozione ed indirizzo delle politiche sanitarie
mondiali (prevenzione delle malattie e protezione della salute). Coopera
direttamente sia con i governi sia con le associazioni non governative nel
fornire programmi di assistenza anche per il rafforzamento dei servizi sanitari
nazionali.
-
L’UNESCO
(United
Nations Educational, Scientific and Cultural Organization): fondato nel 1946 ha
sede a Parigi. L'obiettivo principale di questo organismo è quello di
contribuire alla pace ed alla sicurezza mondiali attraverso la promozione
dell’istruzione. Tra le attività dell'UNESCO vi è il trasferimento di
conoscenza nei paesi in via di sviluppo sotto forma di cooperazione tecnica.
-
Chiappero Martinetti E., Lo studio della
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ed implicazioni per le politiche sociali, Dipartimento di Economia Pubblica
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