AEEE ITALIA

Associazione Europea per l'Educazione Economica
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RECENSIONI

 

Titolo: DELLA REALTÀ. FINI DELLA FILOSOFIA
Autore: Gianni Vattimo
Editore: Garzanti
Anno: 2012

recensione a cura di
Maurizio Canauz

Settembre 2012

Titolo: LA RAZIONALITÀ NELL'ECONOMIA
Autore: Vernpn L. Smith
Editore: IBL
Anno: 2010

recensione a cura di
Maurizio Canauz

Luglio 2012

Titolo: Adriano Olivetti, un secolo troppo presto
Sceneggiatura: Marco PeroniFranco Reviglio
Disegni: Riccardo Cecchetti
Editore: BECCO GIALLO
Anno: 2011

recensione a cura di
Maurizio Canauz

Aprile 2012

Titolo: Goodbye Keynes?
Autore: Franco Reviglio
Editore: Guerini e Associati
Anno: 2010

recensione a cura di
Maurizio Canauz

Febbraio 2012

Titolo: Lezioni di politica
(Volume Primo: Storia delle dottrine politiche)
(Volume secondo: Scienza della politica)
Autore: Gianfranco Miglio
Editore: il Mulino
Anno: 2011

  recensione a cura di
Maurizio Canauz

Dicembre 2011

Titolo: Mente Mercati Decisioni
Autore: Matteo Motterlini - Francesco Guala
Editore: Egea – Università Bocconi
Anno: 2011

recensione a cura di
Maurizio Canauz

Novembre 2011

Titolo:Tra Stato e mercato
Autore: (a cura di) Francesco Pulitini
Editore: IBL libri
Anno: 2011


recensione a cura di
Maurizio Canauz

 

 

Ottobre 2011

 

Titolo:Tu  non sei il tuo lavoro
(in Working for Paradise di Latronico Vincenzo,

Postorino Rosella; Valerio Chiara)

Autore:  Rosella Postorino
Editore:  Bompiani
Anno: 2009

recensione a cura di
Maurizio Canauz
Settembre 2011

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

DUE LIBRI PER L’ESTATE 2011

Titolo: Antologia delle prediche volgari. Economia civile e cura pastorale dei sermoni di San Bernardino da Siena

Autore : San Bernardino da Siena - (A cura di F. Felice e M. Fochesato).

Editore: Cantagalli
 

Titolo; Economia ed etica
La crisi e la sfida dell'economia civile

Autore : S. Zamagni (intervistato da N. Curci)

Editore: La Scuola

Anno: 2009

Ormai le vacanze sono prossime.
E’ quindi giunto il momento di preparare le valigie stipandovi tutto l’immaginario benché si dica che il bagaglio del semplice e del saggio sia composto da poco o nulla.
Io nel mio piccolo suggerisco due libri, apparentemente molto differenti tra loro, che hanno il pregio di riprendere alcuni argomenti che sono stati oggetto di opere precedentemente recensite.
Economia civile, felicità, nascita del mercato, rapporto tra religione e mercato.

Il primo libro, edito da Cantagalli, si intitola: Antologia delle prediche volgari - Economia civile e cura pastorale dei sermoni di San Bernardino da Siena ed è stato curato da Flavio Felice e Mattia Fochesato.
Si tratta di una raccolta di discorsi e prediche che San Bernardino da Siena all’inizio del 1400 aveva rivolto agli abitanti della città toscana.
Come è facile intuire si ritrovano qui certe suggestioni presenti nello scritto di Le Goff o in quello di Bruni precedentemente recensiti.
Al di là del forte afflato etico riscontrabile nelle parole di San Bernardino ciò che è possibile arguire da questi discorsi è la non opposizione allo spirito del capitalismo da parte di alcuni religiosi cattolici.
Non opposizione che non significa necessariamente accettazione di un mercato selvaggio ma comprensione di certe dinamiche sociali ed economiche che venivano a realizzarsi nel medioevo avanzato.
In questo senso Bernardino appare come un personaggio tipico della sua epoca e rappresentativo del modo di sentire e pensare di una comunità in un delicato momento di passaggio e trasformazione.
Questa, a mio avviso, è la chiave di lettura delle parole di Foschesato nella Prefazione, secondo cui il ricorrente utilizzo di metafore provenienti dall’attività dei mercanti mostra quanto Bernardino fosse vicino alle esperienze dei suoi contemporanei impegnati nel commercio: non per celebrare l’esistente (e anzi i testi contengono più di un’invettiva contro i vizi dei senesi), ma perché l’amore per l’altro implica in primo luogo uno sforzo di comprensione e partecipazione.
Logicamente essendo uomo di Chiesa e di Fede San Bernardino non può accettare l’esaltazione della ricchezza per la ricchezza, il piegare ogni regola e principio a quello dell’accumulo.
Al centro dell’orizzonte umano vi deve essere sempre Dio e l’amore per il prossimo.
Ma questo non necessariamente deve portare a una svalutazione del presente e dell’esistenza ma solo ad un modo diverso di vivere le relazioni con gli altri anche nelle transazioni economiche, non perdendo mai il senso escatologico che deve permeare la vita,
Proprio da questa diversa prospettiva deriva una specifica etica degli affari (legata al rifiuto di mentire all’acquirente o contraffare le merci), insieme a un modo davvero peculiare d’intendere la società che, vissuta dagli uomini, dipende, in ultima istanza, da Dio alla cui volontà e alle cui regole l’uomo non può e non deve sottrarsi.
Difficile stabilire se si possa parlare di capitalismo, sicuramente sembra che Bernardino riconosca l’esistenza di una forma di libero mercato e cerchi di disciplinarlo secondo dettami religiosi ed etici superando i costumi e le pratiche che si stavano formando.
Come è stato sostenuto quindi recentemente da alcuni storici e storici dell’economia, in base alle testimonianze fornite da testi come quello qui recensito, si dovrebbe rivedere la ricostruzione fatta, fino ad ora, della nascita del mercato e della matrice del capitalismo.
Nascita e matrice che, a differenza di quanto affermato da Weber e fino ad ora comunemente accettato, non si troverebbe solo nell’etica protestante, ma anche in quella cattolica specie se si considera il ruolo che negli ultimi secoli del Medioevo giocarono i banchieri e i mercanti delle maggiori città dell’Italia centro -settentrionale e delle Fiandre.
Un libro curioso che sicuramente porta nuovi elementi alle riflessioni sulla nascita del mercato e sul rapporto fede, etica economia che tanta influenza hanno anche nel dibattito odierno soprattutto da parte di chi ritiene insufficiente l’attuale sistema economico e propugna il suo superamento, magari, ponendo al centro l’uomo come portatore di un valore e di un significato che va oltre ogni criterio di mera efficienza.

In questa ottica si pone anche il secondo libro qui proposto e recensito: Economia ed Etica, di Stefano Zamagni edito da La Scuola.
Stefano Zamagni è senza dubbio uno degli economisti italiani che attualmente si impegna a proporre un modello economico che trascenda quello attuale ponendo l’uomo e il suo incommensurabile valore al centro di ogni riflessione e valutazione.
In questo scritto 1’illustre economista si lascia interrogare da Nicola Curci sulla crisi economica, sulla dimensione etica dell’economia (soprattutto alla luce della Enciclica Caritas in Veritate), sul superamento della visione individualista ed utilitarista dell’economia a favore di una concezione portatrice di valori collettivi e civili.
Il libro inizia affrontando e approfondendo il significato e l’importanza dell’enciclica di Benedetto XVI.
Tornano così temi e concetti, in un certo senso già noti, quali: reciprocità, dono, fraternità.
Concetti solo in apparenza anti - economici che tuttavia impongono una diversa visione dell’economia che, in un certo senso,si ricollega a quella di San Tommaso, San Bonaventura da Bagnoregio, Sant’Anselmo da Aosta, fino a San Bernardino da Siena (di cui si è ampiamente parlato precedentemente).
Una visione dell’economia non in rapporto con l’etica ma inserita nell’etica di cui, fin dall’origine sarebbe “solo” una parte.
Emarginare queste considerazioni storiche, filosofiche, teologiche porta, secondo Zamagni, ad una errata interpretazione della realtà e degli eventuali correttivi da applicare per combattere la crisi.
Come è stato sostenuto da Gian Cesare Romagnoli; “L’errore è l’esito di una falsa conoscenza della realtà. Diversamente, l’errore, secondo Spinoza, è una mancanza di cognizione.”
Prima, quindi, si deve comprendere il vero significato dei fenomeni per porvi dei rimedi.
Rimedi che non possono essere trovati all’interno del solco tradizionale del pensiero economico ma che devono aprirsi a nuove suggestioni recuperando anche quel pensiero cattolico in ambito economico non sempre adeguatamente considerato.
Secondo Zamagni le stesse teorie più recenti come quella dei giochi e le formalizzazioni matematiche avrebbero dimostrato la validità di questa nuova proposta economica evidenziando i limiti dell’assunto antropologico dell’homo oeconomicus.
I giochi come il “dilemma del prigioniero” o il “gioco dell’ultimatum” e altri similari avrebbero, per l’autore, mostrato che quello a cui hanno creduto gli economisti è sbagliato non essendo il self – interest l’unico movente dell’agire economico.
Partendo da queste considerazioni si dovrebbe ripensare l’economia venendo così a dare nuove risposte alle domande e ai bisogni delle persone, sempre più impellenti, in questo periodo di difficoltà.
Tra questi bisogni quello del lavoro.
Il periodo di crisi ha, infatti, prodotto in tutto il mondo avanzato un drammatico aumento della disoccupazione.
A questo problema non si deve però rispondere, per Zamagni, secondo ricette tradizionali ma attraverso interventi capaci di considerare e rispettare tutto l’uomo.
Rispettare tutto l’uomo significa contemperare le esigenze produttive con il progetto di vita che ognuno ha.
Questo si riflette su temi quali, ad esempio, l’orario di lavoro,la flessibilità, la tecnologia.
Aspetti questi che non sono autonomamente positivi o negativi ma che lo diventano a seconda di come si innestano con l’esistenza delle persone considerando sempre e comunque la centralità dell’individuo.
L’individuo diventa così il centro del ragionamento e il suo benessere (nonché il rispetto) diventa l’obiettivo finale.
Una nuova società in cui tutti possono vivere meglio basata sulla reciprocità e sulla solidarietà.
Sicuramente le considerazioni di Zamagni non possono che suscitare interesse e una certa condivisione, ma rimane forte il dubbio che chi governa i processi economici e quelli legati al lavoro sia, di fatto, lontano migliaia di miglia da esse.
Gli aspetti sociali, esistenziali psicologici del lavoro non sono mai stati così ricusati come in questo periodo.
Pensare che questa situazione possa cambiare è, probabilmente, un po’ azzardato.
Ciò non significa che non si debbano percorrere, anche solo idealmente, altre strade che possono, con il tempo fornire alternative al cammino che l’umanità ha intrapreso e che sta, in questi ultimi anni, mostrando notevoli difficoltà.
Zamagni ci prova anche in questo agile volumetto che in poco più di 140 pagine fornisce una summa gradevole del suo pensiero nonché interessanti spunti su cui riflettere.
Spunti di confronto spendibili anche sotto l’ombrellone, o all’ombra di un albero secolare magari affrontando un piacevole contraddittorio di idee e sogni per la costruzione di un mondo migliore con chi ci sta vicino

 Maurizio Canauz (Luglio 2011)

 
 

 

 

 


Titolo:Tutti gli errori di Keynes.
Autore: Hunter Lewis
Editore: IBL libri
Anno: 2010
 

Parafrasando il Don Abbondio manzoniano ci si potrebbe chiedere: “Keynes chi era costui?”
Domanda alla quale dare una risposta non è per nulla difficile (o perlomeno meno difficile di quanto lo fosse per il personaggio manzoniano ricordare chi fosse Carneade).
John Maynard Keynes è stato l’economista (o meglio uno degli economisti) più influenti del ventesimo secolo.
Le sue teorie hanno dominato per anni le politiche economiche dei principali Stati e i suoi discepoli hanno ricoperto importanti incarichi istituzionali e universitari dominando il pensiero economico per molti anni.
Non essere keynesiano era quasi considerato un peccato che portava alla emarginazione dal pensiero dominante e dai posti più significativi di istituzioni, università, banche.
Tale era la diffusione del pensiero di Keynes che lo stesso presidente degli Stati Uniti, Richard Nixon, avrebbe dichiarato all’inizio degli anni settanta: “Siamo tutti Keynesiani” (frase invero già attribuita a Milton Fridmann circa sei anni prima).
Poi, incapace di rispondere, secondo le attese ai problemi della società che si stava modificando, questa teoria ha iniziato a perdere il ruolo predominante per essere, in parte, sostituita da altre che sostenevano un diverso paradigma teorico e diversi valori ideali
Questo accadde all’inizio degli anni settanta quando molti paesi attraversarono quasi un decennio di stagnazione produttiva inaspettatamente accompagnato da inflazione (fenomeno che prese il nome di stagflazione).
Per quanto, in quell’epoca, non mancarono diversi studi e tentativi interpretativi anche importanti e dettagliati per rispondere alle sollecitazioni che provenivano dalla società la macroeconomia keynesiana non trovò una adeguata risposta ai nuovi problemi.
Da qui la nascita di nuove teorizzazioni con cui il pensiero di Keynes dovette confrontarsi.
Dapprima si contrapposero a Keynes e al suo pensiero le teorie dei monetaristi e poi quelle dei sostenitori della nuova macroeconomia classica che cercarono di dare, spesso riuscendovi, una spiegazione plausibile agli effetti degli shocks di offerta, di domanda, e delle variazioni degli strumenti di politica economica.
Tuttavia, come nota Von Hayeck in un saggio contenuto in un libro curato dal compianto Mario Talamona, (Mercato, pianificazione, sviluppo economico, Cisalpino, Milano 1984) le teorie economiche non subiscono una vera e propria validazione e non sono soggette al principio di falsificabilità popperiano.
Considerate fallaci in un periodo possono trovare nuovi sostenitori in un momento successivo avvicinandosi per questo più alle teorie filosofiche che a quelle scientifiche.
Così, nell’attuale periodo di crisi, ci si ritrova a rispolverare le teorie keynesiane anche perché, forse un po’ a sorpresa almeno per i non addetti bai lavori, si viene a scoprire che nei principali ruoli economici mondiali siedono ancora economisti che si ispirano al pensiero di Keynes.
Torna così prepotente l’annosa domanda: dalla crisi si può uscire tornando alla ricetta keynesiana oppure il grande economista di Cambridge è l'origine di tutti i mali economici del presente?
Una domanda draconiana, che separa decisamente il bene dal male, il giusto dall’ingiusto con quella nitidezza che non riguarda sempre le cose di questo mondo.
Una sfida per i sostenitori e gli oppositori di Keynes che senza farsi pregare si sono gettati nell’agone della contesa producendo una gran quantità di scritti sull’argomento.
Tra questi ricordiamo in queste righe il libro di Hunter Lewis :”Tutti gli errori di Keynes. Perché gli Stati continuano a creare inflazione, bolle speculative e crisi finanziarie” edito da IBL Libri.
Già dal titolo si comprende che Lewis può essere ascritto, a pieno diritto, tra i detrattori del pensiero di Keynes.
Nella sua copiosa analisi Lewis, economista e banchiere d’affari con l’hobby per la saggistica, dapprima espone i principali argomenti dello studioso inglese, individuando i passaggi più rappresentativi e collocandoli all’interno dell’opera complessiva.
Poi passa a sottolineare quelle che ritiene siano le incongruenze, gli errori logici e i sofismi di Keynes.
Un Keynes, in vero, piuttosto maldestro, che non soltanto rifiuta il buon senso del padre di famiglia (suggerendo, ad esempio, di affrontare le difficoltà economiche con un aumento delle spese e non contenendole come si dovrebbe fare i qualsiasi famiglia sana), ma soprattutto mischia tecnicismi, cattiva matematica, un uso improprio dei termini comuni e di altre strategie sofistiche.
In altre parole Keynes avrebbe cercato artifici logici e linguistici dove non era in grado di suffragare il suo pensiero economico con rigorose dimostrazioni e con un adeguato supporto matematico.
A ciò si deve aggiungere che Keynes avrebbe adottato solo una visione macroeconomica ignorando completamente la microeconomia e le diverse sollecitazioni che da essa provengono, per la comprensione dei problemi e della loro risoluzione.
La critica di Lewis è lunga e particolarmente approfondita e riguarda, tra l’altro, le teorie sul risparmio, sui tassi di interesse, sulla creazione di moneta, sui rischi di inflazione, sull’occupazione ma, soprattutto, come sottolinea anche Francesco Forte nella sua introduzione, sull’utilizzo di esperti nella direzione dell’economia suggerito da Keynes.
Esperti, che per lo studioso, devono operare in modo discrezionale per correggere gli errori del mercato con la sua (fallibile) mano invisibile.
La limitata fiducia nell’opera della mano invisibile e nei riguardi dei mercati e nella loro capacità di adattarsi alle differenti situazioni porta Keynes a pensare a un correttivo .
Correttivo fornito da degli esperti che hanno il compito di manovrare le leve che devono far funzionare l’intero sistema.
Un’idea questa suggestiva, che può essere considerata in modo virtuoso o aspramente criticata a seconda della bontà dei prescelti e dei valori personali che ognuno sostiene.
Una forma di meritocrazia esasperata non dissimile da quella, per esempio, ipotizzata da Platone sul buon governo.
Ci si avventura qui in un terreno minato dove scienza, filosofia e ideologia tendono a confondersi.
Ritornando all’aspetto economico dello scritto può essere interessante mostrare, in estrema sintesi e tenuto conto della semplificazione che una recensione richiede, come le idee di Keynes, sarebbero perniciose per il sistema economico.
Seguendo la ricostruzione fatta da Lewis, Keynes insegnava che per fronteggiare un periodo di crisi economica si dovesse sostenere la domanda a tutti i costi.
Sostenere a tutti i costi la domanda significa però penalizzare l'attitudine al risparmio.
Keynes proponeva di dare impulso ai consumi privati a debito, di fare spesa pubblica, di salvare le imprese in difficoltà per mantenere l'occupazione e perciò la domanda (politica questa adottata attualmente negli Staiti Uniti dove attualmente si sta nazionalizzando l'eccessivo debito privato al fine di riavviare i consumi.)
In caso di depressione economica inoltre per Keynes era compito dello Stato di aumentare la quantità di denaro e se ciò non fosse stato sufficiente a risollevare l'economia, doveva essere lo Stato a indebitarsi e a spendere in opere pubbliche.
Per Keynes le opere pubbliche sono da considerarsi, a conti fatti, sempre positive. Meglio, infatti, per il funzionamento del sistema economico, un cattivo investimento piuttosto che nessun investimento.
Di qui, secondo la ricostruzione e l’interpretazione fatta da Lewis, il paradosso che portò Keynes ad approvare i salari agli operai che scavano buche per poi riempirle in quanto comunque contribuiscono alla formazione del Pil.
A ciò va aggiunto in tema di salari che, per lo studioso inglese, essi non dovrebbero mai scendere, neppure in caso di recessione.
Se, infatti, diminuissero i salari si innesterebbe una spirale negativa per la quale vi sarebbero meno consumi con conseguente meno produzione che, a sua volta, genererebbe nuovamente salari più bassi e così via ad libitum.
Ma tali interventi e tali operazioni, a lungo andare si sono rivelate e potranno rivelarsi se fatte di nuovo, secondo Lewis, assolutamente nocive per il sistema economico portandolo verso un baratro dal quale non è facile fuggire con conseguenze devastanti.
Per quanto, invece, riguarda i tassi d’interesse, Keynes sostiene che la povertà della società deriva dal fatto che essi siano stati sempre troppo alti.
Conseguenza dei troppo alti tassi d’interesse è il fatto che i risparmiatori tendenzialmente non mettono a disposizione tutto il capitale accumulato.
Di conseguenza si ha scarsità di denaro da investire, interessi alti e sottoutilizzazione delle capacità produttive.
Keynes ritiene che per questo diviene importante l’intervento dello Stato che deve stampare moneta con il fine di abbassare i tassi di interesse fino a portarli a un livello pari a zero.
L’immissione di una nuova quantità di moneta, in questo caso, se ben dosata non necessariamente per Keynes genererebbe inflazione.
Ma anche in questo caso, secondo Lewis, la ricetta di Keynes sarebbe del tutto errata e se applicata deleteria.

Il libro per quanto denso di suggestioni e assai approfondito appare adatto a un lettore esperto che sappia porre in essere una lettura critica del testo.
Ogni intento divulgativo, che pareva essere uno degli scopi sostenuti dall’autore come dimostra la dedica fatta a Henry Hazlitt che fu a sua volta critico di Keynes e gran divulgatore del pensiero economico come ci ricorda lo stesso Lewis (pag. 60 e ss.), non mi sembra credibile sia per la mole dello scritto, sia per come sono affrontati gli argomenti, sia per la mancanza di coinvolgimento del lettore che si dovrebbe realizzare e che dovrebbe avere lo scopo di attrarre anche quelli meno esperti.
Forse sarebbe stato meglio affrontare una critica più mirata proponendo un libro più snello ancorché, logicamente, meno dettagliato.
Un testo con uno sguardo anche alla situazione attuale, meno accademico ma più ancorato alla realtà, capace di aiutare anche la comprensione del nostro presente travagliato.
Ma ognuno quando si appresta ad un lavoro, come quello di Lewis, segue le proprie stelle consigliere nella speranza che possano illuminare oltre che il proprio camino anche quello di altri, cercatori di verità.
Ai lettori il giudizio sul risultato ottenuto

Maurizio Canauz (Giugno 2011)
 

 

Titolo: Sei stato tu?
Autori: Gherardo Colombo – Anna Sarfatti
Editore: Salani Editore
Anno: 2009
 

 

Sarà perché sui balconi delle case sventolano ancora i tricolori, sarà perché l’eco delle note dell’inno nazionale, che hanno accompagnato i festeggiamenti per i centocinquanta anni dell’Unità d’Italia. non si è ancora del tutto persa, sarà, meno prosaicamente, perché mi è capitato tra le mani in quanto mia figlia lo ha letto in classe, ma questa volta vorrei soffermare la mia attenzione  su Sei Stato tu?, il libro scritto a quattro mani da Gherardo Colombo (ex magistrato e presidente della Garzanti) e Anna Sarfatti (insegnante di scuola primaria e scrittrice).

Un libro agile in cui la Costituzione viene avvicinata attraverso le domande dei bambini (esattamente degli alunni della V E della scuola Alice Sturiale di Impruneta in provincia di Firenze).

Il libro inizia con una breve introduzione in cui; Gherado Colombo, icona della magistratura milanese titolare di importante inchieste sul crimine organizzato, la corruzione e il terrorismo, usa la metafora della vita in società come gioco.

Ma prima di giocare, qualsiasi sia il tipo di gioco, si devono conoscere le regole.

Similmente «la Costituzione è un po’ come un libretto di istruzioni sulle relazioni del gioco dei rapporti con gli altri; le istruzioni della Costituzione indicano la via dello stare insieme armoniosamente senza prevaricare e senza essere prevaricati

Riconoscendo in ogni altro una persona e perciò rispettandolo come si rispetta se stessi.»  

E poi il gioco può iniziare.

Domanda e risposta, la più semplice ed esaustiva possibile.

Si inizia subito con il concetto di cittadinanza.

“Ma i bambini sono cittadini?”

Una domanda apparentemente innocente che porta a riflettere su come si diviene cittadini per capire cosa sia un cittadino.

Poi dalla cittadinanza si passa a i concetti di Stato, Nazione, Repubblica.

Si introducono così le forme di governo.

Già dopo aver letto queste prime pagine mi sovviene un dubbio.

Ma questi concetti, per quanto ci si sforzi di spiegarli con esempi anche tratti dalla vita di tutti i giorni, vengono compresi dai bambini?

O meglio i bambini sono in grado di comprenderli nella loro, apparente astrattezza?

Essere italiano, tedesco, o francese significa concretamente qualcosa?

Sarò pessimista ma penso che la nostra società non agevoli la riflessione sugli argomenti “pubblici”.

Lo stesso dubbio, semmai rafforzato, mi viene quando si affrontano i principi  posti (o meglio che sarebbero posti) alla base della carta costituzionale.  

Quei valori ispiratori che gli autori richiamano a pagina ventotto, ritengo siano per i bambini (e anche per ragazzi più grandi) totalmente astratti e difficilmente comprensibili.

Se ad esempio è possibile, e sottolineo possibile, che a livello di esperienza familiare e/o personale si comprenda cosa significa “cattolico”, quanti saranno i bambini che possono capire cosa significa “comunista” o “socialista”?

Le conoscenze storiche sono ancora troppo fragili, quelle ideali e filosofiche inesistenti, quelle derivate dall’esperienza personale o familiare  assenti o modeste (per la maggioranza dei casi) e allora?

Non potendo dare per scontanti questi concetti bisognerebbe approfondirli aggiungendo complicazione a complicazione e rallentando, enormemente, i tempi necessari per l’apprendimento.

Non si può, infatti, discorrendo di questi temi soffermarsi solo a slogan o a frasi fatte. 

Ma i tempi nella scuola sono già estremamente tirati e non permettono sempre i giusti approfondimenti necessari per la comprensione consapevole di quanto si afferma nel libro.

Prendiamo un altro esempio. Il lavoro

Affermare che quando la Costituzione è entrata in vigore «in Italia ancora tante persone vivevano senza lavorare. Sulla carta d’identità, accanto a “professione”, non avevano scritto il tipo di lavoro che facevano … ma possidente o benestante.»

La Costituzione avrebbe  introdotto l’obbligo (almeno morale non credo civile) di lavorare, di fare fatica (gli autori ci ricordano, tra l’altro che labor significa fatica).

Obbligo di non oziare vivendo, comunque, bene.

Ma siamo sicuri che i bambini comprendano questo ragionamento che si concentra sulla necessità di essere tutti uguali di fronte al lavoro che è (sarebbe) un aspetto imprescindibile della vita e non abbiano il dubbio sul perché spesso chi vuole lavorare per vivere non lo può fare?

Nasce spontaneo chiedersi perché la Costituzione non obblighi il governo a trovare una occupazione per tutti,

Magari per il babbo, lo zio, il cugino che non sanno come arrivare a fine mese.

Gli autori affrontano questa questione affermando che lavorare: «E’ un diritto, perché a nessuno può essere proibito di lavorare e  chi vuole farlo deve essere, nei limiti del possibile, messo nelle condizioni di farlo.»

Tuttavia mi sembra poca cosa rispetto al’entità del problema e come è vissuto oggi dalle famiglie. Anche l’affermazione:“nei limiti del possibile” mi pare vaga e inadatta a rispondere alle esigenze di molte famiglie e dello stesso apprendimento dei bambini.

Tutto sembra ridursi a una questione di principio che si declina in una (semplice) la affermazione: “anche i ricchi devono lavorare.”

Affermazione questa che mi sembra assai meno rilevante di quella per cui: “chi cerca lavoro deve trovarlo.”

Sarebbe poco interessante probabilmente dannoso continuare con una critica puntuale analizzando le tante risposte che vengono date seguendo il dettato costituzionale.

Lo sforzo fatto dagli autori è encomiabile ma a che frutti può portare?

Non sarebbe stato meglio affrontare in modo più asettico gli articoli della Costituzione magari approfondendone solo qualcuno attraverso una pluralità di argomentazioni che mostrano la diversità dei punti di vista e delle interpretazioni  possibili?

Spesso invece, mi pare che gli autori. confondano i piani del’essere con il dovrebbe essere o con il mi piacerebbe fosse.

I bambini hanno, spesso. la tendenza a idealizzare a sovrapporre il tutto con il possibile.

Mi domando, perciò, perché esaltare questo aspetto e non cercare di fornire loro strumenti per ricondurre le parole al reale?

Far credere che molti dei mali della società derivano dal non pagare le tasse (compreso la prostituzione) è una affermazione che mi sembra esagerata e banale.

Così come sostenere che tutti (o quasi) i rei possono essere recuperarti è una affermazione ottimistica.

E’ vero che l'articolo 27 della Costituzione enuncia "Le pene (...) devono tendere alla rieducazione del condannato", così sancendo il principio del finalismo rieducativo della pena, la cui giustificazione etica e logica, evidentemente, non può non fare riferimento alle specifiche esigenze specialpreventivo - risocializzative del condannato.

Tuttavia su come intendere la reclusione e come essa opera sugli uomini esiste un ampio dibattito, che non posso qui riassumere, ma che non può neppure essere riassunto solo nel pensiero espresso dagli autori.

Spesso nel libro non si spiegano le reali regole del gioco ma come si vorrebbe che si giocasse.

L’interpretazione si confonde in molte pagine, con l’oggettività della norma, dell’articolo della Costituzione.

Mi pare quasi, leggendo un certo numero di risposte, che esse siano molto più opinioni degli autori e dei loro ideali che non la spiegazione di una icona del nostro Stato quale è la Costituzione che appare oggi, purtroppo, un po’ sbiadita.

Logicamente vi saranno persone che condivideranno pienamente le opinioni espresse nel libro e altri che, al contrario, saranno più scettici sulle stesse.

Chi lo adotta in classe o lo regalerà probabilmente si troverà in sintonia con le affermazioni fatte, ma questo mi porta ad una ulteriore considerazione: fino a che punto è giusto proporre libri con forti connotazioni ideali ad alunni che non hanno ancora gli strumenti per discernere?

Quanto l’interpretazione data alle norme, anche con il solo scopo di spiegarle meglio, allontana la loro conoscenza dall’aspetto tecnico e “scientifico” al quale il diritto, anche quello costituzionale, aspira?

Un libro quindi che prima di essere adottato in classe o regalato merita una attenta riflessione sul contenuto, sui rimandi espliciti e su quelli impliciti, sulle scelte metodologiche.      

Meglio se il bambino o ragazzo che lo legge non sia lasciato solo ma sia guidato da un adulto così come il libro suggerisce di fare quando si naviga in internet.

«Si possono incontrare siti che fanno paura … altri che non si capiscono. Per questo è necessario che si navighi con i genitori o con qualche grande di cui ci si possa fidare.»

Bene, questo viaggio nella Costituzione è bene che i bambini e i ragazzi non lo facciano da soli ma, se devono farlo, con qualcuno in grado di interpretare i segni del cielo.

Maurizio Canauz (Aprile 2011)

 

 

Titolo: Storia economica
Autore: Tommaso Fanfani
Editore: McGraw - Hill
Anno: 2010
 

Storia ed economia hanno sovente intersezioni e punti di contatto.

Prima di Natale ci eravamo lasciati occupandoci del libro di Le Goff che affrontava le tematiche legate all’avarizia, al denaro e in senso lato all’economia nel periodo Medievale.

Ora il libro proposto, curato dal professore Tommaso Fanfani dell’Università di Pisa, è un classico manuale di Storia Economica che a detta dell’autore “offre una panoramica approfondita della materia“.

Pensato per i corsi universitari (e per questo redatto in modo da rispondere alle esigenze di rivisitazione dei contenuti disciplinari dovute alle recenti riforme degli ordinamenti dei corsi di studi universitari), non manca però di interesse per chi a vario titolo (tra cui l’insegnamento anche in contesti non universitari) si occupa dell’economia e dello sviluppo economico, foss’anche per una sana curiosità, cercando possibili risposte  alle crisi del passato e del presente.

Il testo nasce dalla collaborazione di diversi autori che hanno curato, in autonomia, un capitolo.

Tommaso Fanfani, si è occupato del capitolo iniziale: Il Mondo cresce. Percorsi di storia economica tra il XVIII e il XXI secolo; Franco Amatori, dell’Università Bocconi, ha composto il capitolo sull’Industria; Giuseppe Conti (Università di Pisa) ha realizzato il capitolo su Banca e Finanza; Daniela Felsini (Università di Roma Tor Vergata) si è occupata di Stato ed intervento Pubblico; Andrea Giustini (Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia) ha composto quello su L’energia, i trasporti, le comunicazioni;  Germano Maifreda (Università degli Studi di Milano) si è occupato del Lavoro e Giovanni Zalin (Università di Verona) ha scritto il capitolo sull’Agricoltura.

Un’ottima squadra chiamata a facilitare la comprensione dei complessi fenomeni economici.

Il libro, mi sembra, rientri in quella che potrei definire l’ortodossia classica della disciplina e per quanto il contributo di differenti autori propone sensibilità diverse e letture storiche ed economiche leggermente difformi, non si giunge mai ad una vera e propria originalità dei contenuti rispetto alla vastissima letteratura disponibile.

Valga come piccolo esempio la chiusura del capitolo di Fanfani in cui l’autore affronta, alla fine della ricostruzione delle linee generali dello sviluppo economico del mondo nostro fino ai giorni nostri, le tendenze e le prospettive future.

L’autore fa un breve accenno al problema dello sviluppo e dei suoi limiti.

Il tema è affrontato in poche righe in cui si oscilla tra la speranza  che la scienza e la tecnica con i loro progressi possano superare il rischio di depauperamento delle risorse naturali allontanando nel tempo il “punto di non ritorno” evocato da Ricardo e la preoccupazione per i mali dell’ambiente e del sistema naturale conseguenti alle scelte industriali e  produttive.

Non ci sono approfondimenti, nulla si dice della possibilità della decrescita o di una crescita controllata e si rimanda tutto a un comportamento morale di chi deve prendere le scelte strategiche nel campo del’economia.

Giusto l’accenno ma si rimane un po’ troppo a pelo d’acqua per soddisfare il lettore.

Similmente anche nel Capitolo dedicato al lavoro il dover condensare in poche pagine diversi modelli organizzativi e produttivi porta a volte a non approfondire le tematiche trattate.

A conti fatti questo può dipendere dal taglio volutamente manualistico che deve dare un quadro di insieme senza però “intasare” il lettore di nozioni.

La chiarezza espositiva e la necessità di contenere le pagine rendono necessarie delle scelte (anche) dolorose con conseguente accantonamento di informazioni spesso utili per la migliore comprensione dei tanti intrecci tra economia e storia.

Anche per questo, o forse soprattutto per questo, il volume è stato corredato di schede tematiche che approfondiscono nel dettaglio temi e figure di personaggi storici rilevanti per le tematiche affrontate.

Inoltre è stato creato, a supporto del libro, per migliorare la didattica e facilitare l’apprendimento, un sito web (http://www.ateneonline.it/fanfani ) in cui si possono trovare: approfondimenti testuali, schede tematiche, una bibliografia ragionata e una interessante appendice quantitativa che approfondiscono dettagliatamente alcuni argomenti rilevanti per garantire (secondo la speranza dell’autore) una trattazione completa ed esauriente.

Venendo agli aspetti positivi dello scritto oltre ad una indubbia chiarezza espositiva bisogna sottolineare il tentativo di arricchire la trattazione della disciplina storico-economica, non solo con riferimenti alla contingente attualità, ma anche nella prospettiva della evoluzione delle aree emergenti.

Diversi sono quindi i riferimenti fatti all’Africa e a vaste aree dell’Asia e dell’America del Sud aprendo un orizzonte di riflessione che in altre similari trattazioni non trova altrettanto spazio (come ampi sono i riferimenti anche all’esperienza socialista).

Un libro, dunque, pensato principalmente per gli studenti che tuttavia, per la bontà della sua realizzazione, può diventare uno strumento utile per chi vuole approfondire (senza esagerare) certe tematiche per meglio comprendere le dinamiche della vita economica, per riflettere sullo sviluppo e per ripercorrere il passaggio dalla società preindustriale alla società dell’innovazione e del terziario avanzato.

Pagini utili per la curiosità personale di chi vuole un quadro complessivo abbastanza dettagliato e non ha tempo o voglia di perdersi nei mille meandri del sapere specialistico.

Pagini utili per chi, a livello di scuola secondaria, vuole approfondire certe tematiche (magari interdisciplinari) trovando del buon materiale da cui trarre interessanti informazioni per degli approfondimenti didattici.

 

Maurizio Canauz (Febbraio 2011)

 

 

         

 

 

 

 

 

 

 

 

Titolo: Lo sterco del diavolo
Autore: Jaques Le Goff
Editore: Laterza
Anno: 2010

Si avvicina a grandi passi il Santo Natale.
Lo si avverte, anche, dalla frenesia di questi giorni.
Dai regali da comprare, da gli auguri da inviare, dai preparativi per pranzi e cene.
Sembra che la giornata si comprima e che il tempo venga come risucchiato da un folletto maligno che ci fa essere o sentire sempre in ritardo, vivendo nell’ansia di non riuscire a fare tutto quello che ci siamo, a volte un po’ presuntuosamente, prefissati.
Per questo cercherò di essere, insolitamente, breve.
Il libro che mi appresto a recensire non è propriamente natalizio e nasce dalla commistione si due saperi spesso collegati tra loro (e che si contaminano positivamente): economia e storia.
Mi riferisco a “Lo sterco del Diavolo” di Jaques Le Goff.
La scelta ricade su questo libro, di recente pubblicazione, perché ben riprende le tematiche legate all’avarizia, al denaro e in senso lato all’economia nel periodo Medievale di cui, in parte, si è già detto trattando il libro di Zamagni sull’Avarizia e quello di Luigino Bruni sull’ethos del mercato.
Presentare Le Goff potrebbe essere superfluo (e perfino irriguardoso), ritengo tuttavia utile ricordare, per favorire una migliore comprensione del testo, che si tratta di uno degli esponenti di punta, fin dagli Anni Sessanta, della «Scuola delle Annales».
Scuola che nata in Francia e facente capo alla rivista “Annales: èconomies, sociètès, civilisations, ha profondamente modificato il modo di fare storia della fine del XX secolo (per un approfondimento si rimanda a P. Burke, Una rivoluzione storiografica. La scuola delle Annales 1929-89, Laterza, Roma-Bari 1992).
Universalmente considerato un grande medievalista, Le Goff, ha sempre, nella sua opera, cercato di insegnare a guardare a un "lungo Medioevo", e un "Medioevo profondo" dei sentimenti e degli atteggiamenti mentali, costantemente riletto alla luce del rapporto fra storia e scienze umane.
L’attenzione per le scienze umane (e quindi anche per l’economia) risente della sua stretta collaborazione con, tra gli altri, Fernand Braudel storico e direttore dal 1946 al 1968, prima con Lucien Febvre e poi da solo, della Revue des Annales (sostituito proprio da Le Goff) e con l’antropologo Claude Lévi-Strauss.
La tesi presentata da Le Goff nello scritto è riassumibile nelle parole dello stesso autore: “Secondo Karl Polanyi, nella società occidentale l’economia non possiede una specificità autonoma fino al XVIII secolo. A suo avviso essa è incorporata (embedded) in quello che chiama (labirinto delle relazioni sociali). Ritengo che la sua tesi si applichi alla visione del mondo medievale, che non lascia spazio al concetto di economia, a parte l’accezione di economia domestica ereditata da Aristotele. In questo saggio ho cercato di dimostrare che lo stesso vale per il denaro.”
Le Goff ritiene altresì che errano gli storici che indicano nel Medioevo il periodo della nascita del mercato o del consolidarsi di vere e proprie teorie economiche attraverso il pensiero di teologi scolastici o degli ordini mendicanti, in particolare dei francescani.
In generale, nella maggior parte dei settori della vita individuale e collettiva, uomini e donne del Medioevo si comportano in modi che li rendono ai nostri occhi degli estranei e che obbligano gli storici a chiarire il proprio lavoro di ricostruzione alla luce dell’antropologia (si rimanda qui a quanto scritto della contaminazione della formazione e del pensiero di Le Goff con personalità come quella di Lévi-Strauss).
Sembra quasi che Le Goff voglia sottolineare come il Medioevo debba essere visto e analizzato attraverso uno sguardo non esterno (storico) ma cercando di comprendere dall’interno come farebbe uno studioso che si affida all’osservazione partecipante, cercando cioè di intuire il significato degli avvenimenti in base alle convinzioni di chi li vive (o nel caso specifico di chi li ha vissuti).
Uno sguardo (quasi) antropologico.
Cosi facendo si comprenderebbe, secondo Le Goff, come nel Medioevo, a differenza per esempio di quanto avveniva nell’Impero Romano, il denaro non era considerato importante né dal punto di vista economico e politico né da quello psicologico ed etico.
In un mondo con una forte connotazione religiosa risuonavano negli spazi ampi delle cattedrali e in quelli più umili delle chiese di campagne le parole dei monaci e dei frati che condannavano l'avarizia come peccato capitale e che elogiavano la carità ed esaltavano la povertà come ideale incarnato da Cristo.
Per Le Goff non c’è indulgenza nel Medioevo verso Mammona pur avendo la Chiesa, in alcuni casi, assunto un atteggiamento più indulgente rispetto al denaro.
Se, infatti, inizialmente gli usurai, a meno che restituissero il maltolto, finivano dritti, dritti all’inferno con il passare del tempo furono, in parte scusati.
I più fortunati avrebbero (addirittura) avuto a determinate condizioni anche la possibilità di finire nel purgatorio come anticamera del paradiso.
Doni, offerte, costruzioni di Oratori o cappelle (come la cappella costruita dagli Scrovegni a Padova affrescata da Giotto) potevano essere un lasciapassare per la vita eterna (a tal proposito è bene ricordare che mentre Dante condanna Rainaldo Scrovegni all’inferno assolve il figlio Enrico che pur continuando e arricchendo l’attività del padre legata al denaro sovvenzionò il lavoro di Giotto).
La Chiesa, in altre parole, adeguò in parte la sua valutazione morale del denaro e del suo uso al mondo che stava mutando anche grazie ad un incremento dei commerci e alla necessità di prestiti e di denaro.
Tuttavia afferma Le Goff: “Se anche il denaro ha progressivamente cessato di essere maledetto e infernale, per tutto il Medioevo esso è rimasto tuttavia quanto meno sospetto.”
Le Goff da bravo storico sostiene la sua tesi con precisione e profondità e lo fa anche con uno stile accattivante.
Il suo scritto potrebbe così scivolare veloce senza destare particolare attenzione se non fosse messo in relazione con altri studi sull’argomento.
Scrive a tale proposito uno storico come Roberto Lambertini: “L’intensificarsi dell’attenzione storiografica per le valenze etico - economiche delle riflessioni teologiche medioevali sul tema dello scambio, del giusto prezzo, del prestito ha avuto un andamento che si potrebbe dire - in metafora - esponenziale in questo ultimo decennio …”.
Tale affermazione trova conferma sia in alcune delle recensioni proposte in questo sito e già citate sia in alcune pubblicazioni relativamente recenti quali:
• A. A. Chafuen, Cristiani per la libertà. Radici cattoliche dell’economia di mercato, Macerata, Liberilibri 1999.
• M. G. Muzzarelli, Il denaro e la salvezza. L’invenzione del Monte di Pietà, Bologna, Il Mulino, 2001.
• G. Todeschini, I Mercanti e il tempio. La società cristiana e il circolo virtuoso della ricchezza fra Medioevo ed Età Moderna, Bologna, Il Mulino 2002.
• O. Nuccio, Chiesa e denaro dal XVI al XVIII secolo, in Chiesa e denaro tra Cinquecento e Settecento, a cura di U. Dovere, Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo 1994, pp. 11-85.
• O. Bazzichi, Alle radici del capitalismo. Medioevo e scienza economica, Cantalupa (To), Effatà Editrice 2003;
• O. Bazzichi, Dall’usura al giusto profitto. L’etica economica della Scuola francescana, Cantalupa (To), Effatà Editrice 2008.
• L. Bruni - A. Smerilli, Benedetto di Norcia e Francesco d’Assisi nella storia economica europea, Roma, Città Nuova editrice 2008 (con prefazione di Zamagni).
• P. Prodi, Settimo non rubare. Furto e mercato nella storia dell’Occidente, Bologna, Il Mulino 2009.

In molti di questi testi si sostiene, in contrasto con quanto fatto da Le Goff, che non corrisponde al vero l’immagine di una chiesa medievale in difficoltà di fronte alle conseguenze della cosiddetta “rivoluzione commerciale” ed ancorata a proibizioni che le rendevano malagevole la comprensione delle nuove dinamiche del mercato e del credito (quali che fossero poi le prassi economiche effettivamente adottate dalle chiese locali e dalla Chiesa di Roma).
Anzi in molti studiosi si sta diffondendo la persuasione che vi sia una connessione profonda tra riflessione etico - economica della Chiesa, ed in particolare di alcuni ordini quali i francescani, e dinamiche economiche, anche se, ovviamente, sulla natura della connessione esistono varie interpretazioni (a tale proposito ricordo un articolo dal titolo un po’ provocatorio: Chiesa e libero mercato. Il capitalismo l’ha inventato san Francesco . rinvenibile su web all’indirizzo:
URL: http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/6975. )
Sembra quasi che gli storici (e in parte anche gli economisti che si avvicinano a questi temi) invece di cercare di documentare ciò che era modellino il passato secondo le loro idee quasi fossero degli artigiani che piallano e levigano il legno per dargli la forma voluta.
Rubando il titolo ad un opera di Watzlawick e riadattandolo alla bisogna si potrebbe parlare di “Storia Inventata” (nel senso di costruita dalla nostra mente).
In base alle proprie convinzioni si interpretano i fatti e si incasellano giungendo, a volte, ad adattare anche tessere che non combaciano perfettamente con il mosaico proposto.
Perché avviene questo?
Personalmente non credo per malafede.
Penso più a un sano convincimento e soprattutto alla volontà di cercare nel passato giustificazioni del presente.
Si cerca di dimostrare che ciò che è adesso è frutto del passato dal quale è nobilitato.
Il dibattito, compreso quello storico e anche economico, diviene allora luogo di scontro anche risoluto di idee avverse che si confrontano non con lo scopo di raggiungere una possibile verità condivisa ma per sopraffarsi anche a discapito della bontà scientifica delle tesi proposte.
Diventa allora necessario per il lettore che si interessa di questi temi (o che ne è solo incuriosito) leggere più testi per cercare di costruirsi una propria idea (una propria verità).
Lettura critica, confronto tra testi diversi, analisi per poter formarsi una propria opinione.
Tra questi testi lo scritto di Le Goff, a parere di chi scrive, merita di essere annoverato.

Maurizio Canauz (Dicembre 2010)

 

 

 

 

 

 

Che cos'è la globalizzazione. Rischi e prospettive della società planetaria

• Autore: Ulrich Beck
• Editore: Carocci Editore
• Data pubblicazione: 2009
• Pagine: 197

Che cos'è la globalizzazione. Rischi e prospettive della società planetaria (Ulrich Beck)

Termine sconosciuto fino a qualche decennio fa, quello di globablizzazione, è diventato ultimamente un vocabolo molto usato e qualche volta abusato.
Come spesso accade più un termine viene usato più la sua definizione perde di precisione, si confonde e i contorni si fanno incerti.
Proprio per questo è bene non considerare come scontato e acquisito il suo significato ma può essere utile spesso riprenderlo in considerazione per aggiornarne il senso cercando di giungere ad un significato e ad una interpretazione condivisa o almeno meno equivoca.
Si deve cioè indicare, per ottenere una miglior comunicazione condivisa ed efficace, cosa si intende con un vocabolo e, possibilmente in chiave sociale, quali ambiti della vita dell’’uomo vengono interessati dallo stesso.
In questo senso particolarmente interessante appare la (ri)proposta della casa editrice Carrocci che (ri)pubblica un testo sulla globalizzazione di Ulrich Beck considerato uno dei più attenti osservatori della società contemporanea occidentale.
Beck è attualmente professore di Sociologia presso la Ludwig Maximilians Universität di Monaco di Baviera e la London School of Economics e ha pubblicato diversi studi sulla modernità, problemi ecologici, individualizzazione e globalizzazione, oltre ad aver introdotto nuovi concetti nella sociologia, quali l'idea di una seconda modernità e la teoria del rischio.
I suoi libri, dopo un vasto riconoscimento mondiale, sono stati tradotti e pubblicati in Italia da molte delle più prestigiose case editrici.

Ma procediamo con ordine
Qual è il significato della parola globalizzazione per Beck?
Per lo studioso tedesco la globalizzazione è: "un processo in seguito al quale gli Stati nazionali e la loro sovranità vengono condizionati e connessi trasversalmente da attori transnazionali, dalle loro chance di potere, dai loro orientamenti, identità e reti".
Proprio partendo da questa definizione risulta abbastanza evidente su quale aspetto Beck concentra la sua attenzione: Sul rapporto potere politico vs. potere economico.
Mentre, infatti, il potere economico con la globalizzazione è cresciuto esponenzialmente quello politico si è fatto assai meno influente.
Gli Stati che un tempo dominavano e indirizzavano il mondo interagendo fra loro hanno perso molto della loro influenza riducendosi ad essere, soprattutto, delle agenzie protettive monopolistiche (tese cioè a tutelare l’ordine pubblico e i diritti fondamntali dei cittadini) (1).
Tale processo si sarebbe compiuto principalmente grazie, da un punto di vista teorico. a quanto propugnato dai sostenitori del pensiero liberale, mentre, da un punto di vista pratico, questo spostamento a favore dell’economia e a discapito della sovranità dello Stato sarebbe avvenuto, soprattutto, attraverso l’attività delle multinazionali che hanno operato con l’unico scopo di massimizzare i profitti incuranti degli effetti collaterali al loro agire.
Un esempio piuttosto evidente di questo modo di fare delle multinazionali è rinvenibile nello spostamento della produzione nei Paesi dove questa costa meno o meglio, dove il costo del lavoro è più basso.
Questa possibilità di produrre dove la manodopera costa meno, comporta necessariamente una modifica dell’azione e del modo di governare degli Stati.
Proprio la volontà (necessità) degli Stati di attrarre le multinazionali con l’ intento di creare nuovi siti produttivi e posti di lavoro, comporta l’adozione di politiche benevole nei confronti delle aziende al costo di creare "zone franche" in cui i diritti umani non siano garantiti o lo siano solo parzialmente (1).
Conseguenza diretta di questo nuovo rapporto tra Stati e imprese multinazionali è il ridimensionamento del Welfare State .
Lo Stato sociale, frutto di un lungo periodo di negoziazioni e di accordi tra imprenditori e lavoratori, viene ormai ritenuto troppo costoso da mantenere, anche perché molte imprese di dimensioni contenute non sono in grado di internazionalizzarsi e falliscono o sono costrette a chiudere senza poter così più poter contribuire allo sviluppo dello Stato.
La chiusura delle aziende medio piccole (e di un gran numero di artigiani) porta ad un aumento della disoccupazione,
A loro volta i disoccupati diventano un ulteriore costo per lo Stato sociale che deve garantire loro sussidi al reddito.
Per poter garantire questi sussidi alla fine lo Stato non può che aumentare le tasse e i contributi.
Ma l’aumento delle tasse e dei contributi è ciò che le multinazionali non vogliono tese come sono a migliorare il loro profitto.
È un circolo vizioso creato dall'individualizzazione, che ha spinto ad abbandonare la politica per cercare la realizzazione personale.
Individualizzazione che, in un certo senso, è già fortemente presente nei Paesi anglosassoni e, in particolare negli Stati Uniti, dove per molti anni si è esaltato il singolo e si è considerato il comunitario e lo Stato più come un male necessario che come una risorsa.
Mentre sull’analisi sulla globalizzazione e sui suoi processi (che non si può pensare abbia una dimensione solamente economica, il cosiddetto globalismo, impossibile da influenzare da parte del potere politico nazionale) convergono diversi studiosi, esistono molte differenze sulla sua interpretazione e soprattutto sull’impatto che questo fenomeno ha e ancor di più avrà, sul mondo e sull’umanità.
Per alcuni ciò si è tradotto e ancor più si tradurrà, in un peggioramento delle condizioni di vita per la maggior parte degli individui.
Al contrario per altri la globalizzazione è e sarà, invece, un cambiamento epocale ma non necessariamente una “sciagura”.
Ci che necessariamente cambia e deve cambiare, è il modo di osservare la società.
E’ ora necessario uno sguardo cosmopolita.
E’ necessaria, secondo Beck, una specie di rivoluzione gnoseologica.
Rivoluzione alla quale le scienze sociali dovrebbero sottoporsi per giungere ad abbandonare quella sorta di “nazionalismo metodologico” che è stato, fino ad ora, il loro riferimento spaziale.
Chi si occupa delle scienze sociali dovrebbe, in altre parole, escludere la sola visione “nazionale” come presupposto di ogni comprensione delle realtà sociali. Questa posizione non implicherebbe una diminuzione della capacità interpretativa della realtà effettuale ma comporterebbe, al contrario, un maggiore realismo che, pur tenendo in considerazione l'esistenza di quei confini politici, giuridici e sociali che caratterizzano il vivere in comune, consentirebbe di eluderne il “carattere vincolante”.
Personalmente mi sembra che in Beck vi sia come una forma di accettazione del processo di cambiamento in atto che deve, però, essere vigilato con una migliore visione da parte e degli studiosi, degli analisti e, perché no, della gente comune che deve imparare a vedere e valutare il mondo e le sue dinamiche (soprattutto quelle economiche e sociali) in modo diverso. (2)
Si potrebbe parlare di un necessario ripensamento degli strumenti ermeneutici che
devono essere usati per comprendere e descrivere il mondo e il suo divenire
Sarebbe probabilmente esagerato pensare che nell’idea di Beck vi sia una realtà già conciliata o conciliabile in senso assoluto.
La nuova realtà post- nazionale viene anzi presentata come una “società globale del rischio”, dove il confine tra guerra perpetua e pace perpetua viene a rappresentare l'orizzonte stesso imposto alla “seconda modernità”.
Ma non necessariamente ci si deve arrendere di fronte a questi cambiamenti o ritenerli assolutamente negativi.
Se vi sono rischi che possano minacciare la società mondiale, e su questo Beck sembra convenire, si deve operare per mobilitare nuovi energie sociali e politiche, promuovendo, nel lungo periodo, uno sviluppo razionale della condizione umana e favorendo la nascita di una "seconda modernità”.
Sicuramente in questo processo il modo tradizionale di fare politica appare decisamente superato e tutta la scienza politica deve essere in grado di rinnovarsi.
I confini nazional - statuali, che per alcuni sono stati veri e propri limiti allo sviluppo, sono ormai da considerarsi superati e ciò comporta necessariamente una radicale modifica sociale .
Ma la nuova società che nasce ha caratteristiche assai diversa da quella precedente.
Una di queste caratteristiche peculiari è la sua im-politicità.
Im-politicità della società globale che nasce soprattutto dal suo deficit di rappresentatività apertosi una volta varcati i confini dello stato-nazione.
Non vi è più vincolo tra chi detiene realmente il potere e un qualsivoglia popolo di riferimento.
Ciò aumenta decisamente l’indeterminatezza dell’agire politico anzi a guardar bene l'indeterminazione diviene la condizione stessa del fare politica. L'orizzonte del politico, svincolato della logica dell'appartenenza nazionale, diviene capace non soltanto di agire e determinare scelte collettive all'interno di un sistema di coordinate definite ma può ambire a creare le condizioni stesse del suo agire proprio in virtù dell'assolta impoliticità dello spazio globale.
Il libro di Beck nel suo insieme appare decisamente interessante e offre una originale chiave di lettura di quanto sta avvenendo e di quanto potrebbe avvenire attraverso il processo di globalizzazione.
Processo che da un lato costringe a ripensare lo spazio dell’azione sociale, politica ed economica e che dall’altro chiede di riconsiderare gli strumenti ermeneutica che devono interpretare e sovrintendere a questo processo.
Forse, se proprio si deve cercare un appunto, in alcuni casi la voglia di spiegare e far comprendere al lettore, il suo approccio teorico, portano Beck a mitigare la drammaticità di alcuni processi legati alla globalizzazione
Ma forse il compito dello studioso è anche quello di saper leggere gli avvenimenti senza enfatizzarne (eccessivamente) i toni.
 

NOTE

(1) Si consideri, ad esempio che il potere dello Stato viene fortemente limitato dalla possibilità di “pagare le tasse dove costa meno”, giocando sulla sede fiscale delle aziende e dei singoli.

(2) La seconda modernità inoltre vede lo stato e le istituzioni classiche inadeguate a contrastare la potenza degli attori transnazionali. Spesso non è sufficiente l’intervento del pubblico per contrastare gli interessi delle multinazionali.
Per farlo vengono utilizzato nuovi strumenti come il boicottaggio possibile però solo in certe circostanze e con l’apporto dei Media.
Media, che in una situazione globalizzata, assumono una influenza decisiva motivo per cui la loro regolamentazione diviene necessaria e decisiva per la libertà dei singoli individui.
 

Maurizio Canauz (Novembre 2010)

 

Avarizia. La passione dell’avere.
Autore: Stefano Zamagni
Editore: il Mulino
Anno: 2009

Esistono ancora peccati e peccatori?
Nel caso la risposta fosse affermativa dove sono finiti?
Come scrive su Repubblica Natalia Aspesi: “In televisione, naturalmente, trasformati i primi in nuove simpatiche virtù, i secondi in amabili maestri del nuovo galateo, della nuova morale. Per questo forse ci sono parole scivolate via, che non viene più in mente di pronunciare perché obsolete, irragionevoli: peccato e vizio, certo, poi di riflesso anche colpa, rimorso, vergogna, penitenza, punizione, espiazione, non hanno più senso né spazio dove è obbligatorio il sorriso.”
Proprio per questo diventa meritevole il tentativo compiuto dalla casa editrice il Mulino, di realizzare una “minicollana” sui vizi capitali (in sette agili volumi), diretta da Carlo Galli.
Per raccontare ed approfondire i sette vizi si sono scelti sei filosofi e un economista,: Laura Bazzicalupo e la Superbia, Francesca Rigotti e la Gola, Sergio Benvenuto e l´Accidia, Stefano Zamagni e l´Avarizia, Giulio Gioriello e la Lussuria, Remo Bodei e l´Ira, Elena Pulcini e l´Invidia.
I loro scritti, agili e dotti, si prefiggono, soprattutto, di mostrare l´universo della colpa, il regno funesto dell’ immoralità così come lo immaginavano il mondo greco e poi giudaico -cristiano, raccontando come si è trasformato nei secoli, evocando i suoi demoni e i suoi eroi, scivolando sino alle nebbiose considerazioni dell’oggi.
Il testo qui recensito è quello di Stefano Zamagni sull’ Avarizia,: “vizio capitale che raramente si appalesa in quanto tale, indossando di volta in volta i panni dell’avidità, della cupidigia, della bramosia, dell’usura, della concupiscenza, della fame dell’oro, della taccagneria, della grettezza”. (pag 7.)
Come nota Zamagni l’avarizia nel corso dei secoli è stato oggetto di molte riflessioni e considerazioni ed è stata l’argomento di diverse opere letterarie.
Chi non ricorda, ad esempio, il ricco usuraio Shylock nel Mercante di Venezia di Shakespeare o il facoltoso Arpagone nell’Avaro di Molière o ancora il freddo e vecchio Ebeneezer Scrooge nel Canto di Natale di Dickens? (Per altre suggestioni letterarie si rimanda a pag. 18 del libro recensito).
Soprattutto la figura di Scrooge riappare spesso nel periodo natalizio specialmente nella versione animata di Walt Disney.
In questa fortunata trasposizione cinematografica e televisiva il personaggio dell’Avaro non può che essere rappresentata, da quello che ormai universalmente può essere indicato come il simbolo, l’icona dell’avarizia: Paperon De’ Paperoni.


Il papero che fa il bagno in una vasca piena di dollari d’oro, che si tuffa nelle sue monete, che risparmia sul mangiare, che scrocca un pranzo al poverissimo nipote Paperino sfruttandolo senza remore sotto la minaccia di diseredarlo.
L’avaro per eccellenza.
Walt Disney, Dickens così come Shakespeare e Molière utilizzano esprimono il concetto dell’avarizia facendo ricorso alla loro arte e alla loro forma espressiva letteraria.
Zamagni utilizza a sua volta una forma espressiva e un linguaggio che più gli è congeniale.
Un linguaggio colto e raffinato che impiega per realizzare un notevole excursus storico-filosofico dell’avarizia.
Excursus che inizia con l’elencazione dei vizi capitali fatta da Evagiro Pontico, monaco ed eremita nel deserto egiziano nel suo scritto Pratktikos risalente alla metà del IV secolo e che giunge con diverse tappe fino ai nostri giorni.
In questo percorso Zamagni mostra come l’avarizia si sia palesata in diversi modi avvertendo fin da subito che: “se se ne vuole comprendere la natura specifica, è necessario guardare in trasparenza i suoi molti stili e prendere in considerazione le sue semantiche, così come esse si sono andate articolando nel corso del tempo.”
Proprio questa capacità camaleontica dell’avarizia la rende un vizio assai pericoloso e difficile da valutare.
Inizialmente, infatti, l’avarizia era considerata una dei peggiori vizi (per alcuni addirittura il peggiore, “la radice di tutti i mali” come sostiene, ad esempio, San Paolo) ma con il passare del tempo questo giudizio inappellabile sembra essersi mitigato tanto è vero che non sono mancati, nel corso dei secoli, pensatori che non hanno considerato l’ avarizia neppure come vizio.
Zamagni ricorda a tale proposito, tra gli altri, il pensiero di Poggio Bracciolini che fu, per lunghi anni, segretario apostolico della Curia romana (1423 – 1453).
Proprio a Poggio Bracciolini (e più in generale agli illuministi laici) si deve, secondo l’autore, la reinterpretazione radicale del concetto di avarizia. (p. 77)
Nel suo celebre De avaritia (1428), Poggio Bracciolini sostiene, a chiare lettere, che “l’avarizia non è contro natura” giungendo perfino a descrivere gli avari come uomini “forti, prudenti, industriosi, severi, temperati, d’animo grande e di grandissima saggezza”.
Con Bracciolini e gli umanisti in genere, si assiste ad un superamento del concetto di bene comune e ad una esaltazione dell’individualità.
L’avarizia, come ricorda Zamagni (p. 78), viene allora vista con occhi nuovi, con occhi capaci di comprendere la necessità di favorire investimenti produttivi, la crescita delle città, il mecenatismo per diffondere il bello.
Scrive Bracciolini: “E’ ovvio che l’avarizia è non solo naturale ma utile e necessaria agli esseri umani.”
Si assiste quindi ad una rivalutazione dell’avarizia, della bramosia di denaro che, in un certo senso, viene considerata motore dello sviluppo economico.
Come nota Zamagni questa concezione tende a mantenersi nel tempo, fino ad essere seme che diviene frutto nel pensiero di altri studiosi, soprattutto, nel periodo illuminista
Autori quali Bernard de Mandeville prima e Jeremy Bentham giungono così a sostenere che l’avarizia sia, di fatto, una virtù.
Bentham, come è noto, fu uno dei massimi teorici e propugnatori dell’utilitarismo.
Con l’utilitarismo scrive Zamagni: “C’è un nuovo modo di concepire la motivazione umana all’azione. La spinta alla divisione del lavoro e le caratteristiche del nuovo modo di produzione avevano portato a considerare gli individui come parti integranti di un tutto interdipendente, ma atomo sociali alle prese con le forze impersonali del mercato. Per la concezione individualista, l’essere umano è concepito già pienamente costituito come individuo prima ancora della sua entrata in società.” (p.97)
Per Bentham qualsiasi motivazione umana in ogni tempo e luogo, può ricondursi ad un unico principio: massimizzare l’utilità.
Bentham sostiene, inoltre, che gli esseri umani sono egoisti.
Edonismo ed egoismo sono i pilastri secondo cui per Zamagni si basa il pensiero di Bentham e più in generale l’utilitarismo.
Non è difficile quindi per gli utilitaristi, stante le premesse del loro pensiero, considerare l’avarizia come un aspetto connaturato con la natura umana.
Si assiste quindi ad un radicale cambiamento della concezione dell’uomo proietta verso un nuovo avvenire economico basato sulla produzione e sui commerci.
Zamagni sottolinea in questo caso, come del resto fa in tutto il suo lavoro, come vi sia una stretta interdipendenza tra la società, il suo modello economico e il pensiero teorico di riferimento.
L’avidità diviene allora parte integrante del tutto e la sua valutazione si relativizza rispetto ai valori e alle concezioni dominanti in un certo momento storico.
Più l’aspetto sociale e comunitario è esaltato più l’avidità viene considerata negativamente, più l’aspetto individuale è ritenuto significativo più l’avidità viene considerata benignamente.
Ancora oggi esistono molte scuole di pensiero e indirizzi dottrinali che tendono a privilegiare la concezione individualistica ed egoistica.
Non mancano, infatti, economisti, che tendono ad accreditare l’idea della avidità come un vizio, tutto sommato, minore e comunque facilmente correggibile con l’impiego di schemi adeguati di incentivo.
A tale proposito lo stesso Zamagni nota che in molti “testi di economia, da quelli più raffinati a quelli di più ampia divulgazione, mai si parla di comportamento avaro. In tali lavori neppure si considera dotata di senso la domanda se le preferenze dell’homo oeconomicus siano avare o meno. Questi deve solamente pensare a comportarsi in modo razionale, massimizzando, sotto opportune condizioni, l’interesse proprio, quale che esso sia”.
Purtroppo come nota l’autore: “A differenza di quanto accade nelle scienze naturali, la scienza economica è fortemente sotto l’influenza della doppia ermeneutica, tesi secondo cui le teorie economiche sul comportamento incidono, tanto o poco, presto o tardi, sul comportamento dell’uomo.
Quanto a dire che la teorizzazione in ambito economico mai lascia immutato il suo campo di studio, dal momento che essa plasma non solo le mappe cognitive degli operatori economici, ma indica anche loro la via che deve essere seguita se si vuole conseguire in modo razionale lo scopo.
Ora, se quest’ultimo è l’accumulazione sempre più spinta di cose o denaro e se, come è ovvio , lo scopo di un’azione prescrive quali debbano essere i mezzi richiesti per realizzarlo il cerchio ermeneutico è presto chiuso”. (p.118).
In base a questa riflessione Zamagni nota come il pensiero fortemente individualista sostenuto da Ayn Rand e Alan Greespan (p.120) e più in generale dalla destra americana, per cui l’avidità è il meccanismo che regola l’ordina sociale e che è un male contenerla, sia stato il motivo primo della attuale crisi finanziaria ed economica.
Scrive Zamagni: “è un fatto che da quando ha iniziato a prendere forma quel fenomeno di portata epocale che è la globalizzazione, la finanza non solamente ha via, via accresciuto la sua influenza economica, ma ha progressivamente contribuito a modificare il sistema di valori delle persone e con esso le loro mappe cognitive. E’ a quest’ultimo aspetto che si fa riferimento quando, nel linguaggio corrente, si parla di finanziarizzazione dell’economia, vera e propria ideologia - travestita da presunta scientificità - secondo cui a partire dall’assunto antropologico dell’ homo oeconomicus, cioè dall’assunto di comportamento avido, si arriverebbe alla conclusione che tutti i mercati (inclusi quella finanziari) sono assetti istituzionali in grado di autoregolarsi e ciò nel duplice senso, sia di assetti capaci di darsi da sé le regole del proprio funzionamento, sia di farle rispettare”.
Presupposti questi errati che hanno portato a risultati assai negativi che, ora, sono estremamente evidenti.
Proprio per questo partendo da una riconsiderazione dell’avarizia e del comportamento del singolo nasce, secondo Zamagni, la necessità di recuperare il legame tra democrazia e mercato e soprattutto di ricondurre un mercato dominato dall’avidità dell’homo oeconomicus, nell’alveo della ragionevolezza e al rispetto di regole condivise e sociali
Zamagni richiama quindi il pensiero di Adam Smith, soprattutto quando”insisteva che un ordine sociale autenticamente liberale ha bisogno non di una, ma di due mani per durare nel tempo: invisibile l’una - quella di cui tutti parlano, anche se spesso a sproposito … - e visibile l’altra, quella dello Stato che deve intervenire in chiave sussidiaria, come diremo oggi, tutte le volte in cui l’operare della mano invisibile rischia di condurre verso la monopolizzazione dell’economia e, più in generale, verso la produzione di effetti perversi”.
Non per nulla, Zamagni, da anni, teorizza la necessità di un’economia civile. Per un verso, ricostruendo genealogie intellettuali che affondano le radici nell’umanesimo civile italiano e, per l’altro, lavorando intorno a un’economia della reciprocità, capace di assegnare alla qualità della relazione sociologica con l’altro un “valore” in grado di influire sulla scelta economica, di regola, puramente quantitativa. E dunque tutto il contrario di un’economia dell’avarizia, che invece sembra assegnare un ruolo determinante alla sola ricerca individuale del profitto per il profitto.
L’avaro, per Zamagni, non può e non deve essere, inoltre, il prototipo dell’uomo oltre che per ragioni etiche anche perché l’avaro non è un uomo felice né ragionevole.
“Non è felice perché l’avaro è posseduto dalle cose”, scrive Zamagni, “non possiede, conserva ma non usa. Possiede ma non condivide. Ce lo insegnano Dickens e Verga.”
Inoltre è un uomo fallito perché se, come sostiene l’autore, la felicità sta nella condivisione, l’avaro è esistenzialmente sconfitto in quanto l'economia si fonda non sulla ricchezza, ma sulle relazioni e sulla capacità di scambio. E queste non sono possedute neppure in minima parte dall’avaro.
Il libro di Zamagni, non è a mio avviso, un testo di facile lettura.
E’ un libro denso di citazioni, di rimandi, di richiami al pensiero di filosofi, economisti, teologi che, a volte, invece di arricchirlo ne spezzano il ritmo costringendo il lettore a un supplemento di fatica.
Alcune tesi sono note, altre che meriterebbero un maggiore spazio sono condensate in poche righe.
E’ un testo “totalmente intellettuale” che si basa su una comunicazione cervello – cervello senza nessuna concessione al cuore.
L’autore cerca di convincere solo con ragionamento che l’avarizia è sbagliata ma non inserisce nulla nel suo scritto che possa colpire il lettore costringendolo ad osservare ciò che è o che fa un avaro (come del resto fa lo stesso Vangelo quando tratta questo tema, ad esempio, nella parabola di Lazzaro e del ricco, Vangelo di Luca 16, 19 e ss. o in quella dell’Avarizia e del ricco stolto, Vangelo di Luca, 12, 16 e ss.).
Probabilmente quello emotivo non è il registro comunicativo priveliegiato da Zamagni che sperimenta un’altra via, sicuramente a lui professore di economia, più consueta e abituale.
Il risultato è quello di un libro per dotti che hanno il piacere dell’approfondimento e dell’erudizione.
Agli altri lettori il consiglio di affrontarlo solo se si è disposti ad sfidare un percorso faticoso che potrebbe richiedere una particolare attenzione e una cospicua dose di tempo in apparente contrasto con il numero, relativamente esiguo, di pagine.

Maurizio Canauz (Settembre 2010)

 

 

 

 

 

DIARIO DI SCUOLA
Autore: Pennac Daniel
Editore: Feltrinelli
Anno: 2008

Metà giugno.

Le meritate vacanze ormai si avvicinano.

Si prepara la valigia e nella valigia perché non infilarci un libro

da leggere?

Un libro che si intoni sia con le oziose e pigre ore da passare sotto l’ombrellone di una assolata spiaggia cullati dallo sciabordio di ritmiche onde sia con la fresca quiete di un luogo di montagna seduti ai piedi una quercia secolare dopo aver fatto, magari, una salubre passeggiata .

Un libro che faccia riflettere senza richiedere eccessivi sforzi intellettivi, che possa scivolare leggero ma, che non sia, solo, frivolo.

Insomma un buon libro.

Personalmente credo che quello qui proposto lo sia .

Inoltre ha un ulteriore pregio: parla di scuola.

Proprio la scuola rappresenta il fil rouge che lega questo scritto agli altri precedentemente recensiti.

Ma andiamo con ordine. 

Daniel Pennac è un celebre scrittore francese.

Daniele Pennacchioni è uno studente svagato.

Daniel Pennac scrive in maniera fluente.

Daniele Pennacchioni scrive lettere improbabili alla madre farcite di errori (si veda p. 34). Così farcite da errori, sottolineati con un posteriore “sic”, da risultare imbarazzante al limite del patologico.

Daniel Pennac vince premi per la sua opera letteraria.

Daniele Pennacchioni vince se un suo compito in classe si avvicina alla sufficienza.

Sarebbe mai possibile pensare che David Pennac e Daniele Pennacchioni siano la stessa persona?

La domanda è retorica. Daniel Pennac e Daniele Pennacchioni sono, udite, udite, la stessa persona.

Come nella celebre favola il brutto anatroccolo si trasforma in un bellissimo cigno.

Lo studente tardo e dai voti imbarazzanti si tramuta prima in un professore, con buona pace del padre, e infine in uno scrittore.

E’ bene notare, come per esempio fa Hillman nel suo Codice dell’Anima (Adelphi, Milano 1997), che queste trasformazioni non sono rare.

Esploratori celebri come Robert Peary o Vilhjalmur Stefansson, erano bambini timorosi e incapaci di lasciare la gonna della madre.

Lo stesso Ghandi, ci ricorda Hillman, era un bambino gracile, pauroso e malaticcio, che si spaventava per un non nulla.

Niente quindi di sorprendente che anche Pennac subisca questo processo di trasformazione (sulle cui cause si rimanda all’opera di Hillmann o a quelle di Freud e Adler).

Tuttavia Pennac, mentre molti giovani fragili e manchevoli diventati uomini di (quasi) successo, una volta intrapreso il loro cursus honorem, tendono a dimenticare le tappe precedenti della loro vita, non si dissocia dal suo passato di “somaro” (termine usato dall’autore che vien qui ripreso e usato in tono bonario quasi affettuoso) ma anzi lo analizza attentamente, mischiando sapientemente pathos e ironia.

Così ironizza sulle sue difficoltà ad imparare l’alfabeto.

“Invece di formare le lettere dell’alfabeto, disegnavo omini che scappavano sul margine del foglio e lì creavano delle bande. Eppure all’inizio mi applicavo, rifinivo le lettere meglio che potevo, ma pian piano le lettere si trasformavano in quegli esserini allegri e saltellanti che se ne andavano a folleggiare altrove, ideogrammi della mia voglia di vivere,” (pp.25 – 26).

Così ricorda con dolcezza le ansie della madre o l’imperturbabilità del padre che lo accompagnarono per tutta la vita scolastica fino al titolo di professore. (p.36)

Così ricorda i suoi pensieri, la sua profonda frustrazione per ciò che non riusciva ad apprende e a fissare nella memoria, il suo senso di emarginazione.

Buio, baratro, derisione, dramma.

Si sentiva come un naufrago che lentamente perde le forze e la speranza di salvezza.

Nessuna isola all’orizzonte o terra ferma, nessun relitto a cui aggrapparsi con le ultime forze.

Poi, inaspettatamente, alcune mani benevole che lanciano un salvagente a cui cercare di aggrapparsi.

Nel caso di Pennac quelle mani erano quelle di alcuni professori che, superando la sua apparente incapacità, credettero in lui innescando così un processo virtuoso.

La fiducia dei professori e dell’ambiente in cui si trovava aumentò la sua autostima personale e questo nuovo clima, questa nuova visione di sé, lo condusse verso una possibile, quanto inaspettata, resurrezione scolastica.

Troppo facile sarebbe, però, pensare che dietro ad un “somaro” ci sia sempre uno studente pieno di potenzialità, troppo facile, altresì, ritenere che un “somaro” sia sempre e solo un “somaro”.

Lo stesso Pennac ha difficoltà a spiegare come in dieci anni sia passato da somaro  a professore.

Tanto da domandarsi: ”Come si compie la metamorfosi da somaro a professore? E, a latere, quella da analfabeta a romanziere?”

Non so come ma mi torna alla mente Kafka o a maggior ragione, anche per la somiglianza dell’animale in cui si trasforma il personaggio principale Lucio, Apuleio.

In questo caso però, come in un gioco di specchi, la trasformazione avviene nel senso inverso: da animale a uomo.

Trucco, magia, chimica, biologia, fisiologia?

Come scrive Pennac; “la tentazione di non rispondere è forte” (p.73)

Artificio letterario che consente salti nello spazio e nel tempo senza spiegazioni dettagliate degli avvenimenti

Tuttavia, come spesso avviene nelle metamorfosi letterarie, il soggetto rimane legato ai suoi ricordi,

Pennac ricorda così il sentimento principale di quei tempi, che è comune ai ragazzi con scarsa volontà e bassa resa, e cioè la paura, il terrore che lo attanagliava quando si trovava d’avanti agli insegnanti.

Terrore della sconfitta, terrore di quella sconfitta scolastica che può diventare definitiva nella vita.

Proprio per questo diventa importante l’aiuto per evitare che i perdenti, i pessimi scolari: della scuola siano gli adulti che porteranno le cicatrici di una vita scolastica zeppa di insuccessi.

Ma il libro non è solo un hamarcord della giovinezza, un diario romanzato dell’esperienza di uno scolaro poco brillante.

E’ un viaggio a tutto tondo nella scuola.

Così dopo aver affrontato le esperienze da studente, Pennac passa a ricordare la sua esperienza di professore.

Come è stato Pennac come professore e soprattutto quale è stata la sua attenzione per gli ultimi?

Daniel Pennac ha, infatti, insegnato per venticinque anni in una scuola per studenti "difficili".

Come risponde la scuola alle sollecitazioni dei cosiddetti “somari”?

Come ha risposto lui quando alcuni studenti necessitavano di un aiuto?

Il suo è stato solo un aiuto professionale, legato solo alla materia di insegnamento, o ha cercato di prestare attenzione anche ad altri aspetti, aspetti di frontiera, legati alla biografia dei suoi studenti che diventavano cause di difficoltà di apprendimento? (In questo senso si veda, ad esempio, l’episodio di  Jocelyne p.99)

Come si è comportato in classe? Ha sempre tentato di motivare gli allievi di stimolarli o si è lasciato assorbire dalla routine?

Pennac non si fa troppi sconti.

Come insegnate è stato capace di aiutare gli studenti in difficoltà?

Non ha mai fallito?

Ha fallito e lo sa anche se cerca di dimenticarlo.

Non sempre si può far emergere le qualità dello studente.

Non sempre gli insegnanti sono abbastanza motivati per spronare gli alunni o meglio per appassionarli allo studio.

Non sempre lui è stato sufficientemente motivato per far innamorare, appassionare gli studenti al sapere.

Ma come provare a farlo?

Pennac riflette e propone.

Di fatto questo aspetto lo aveva già affrontato, anche se da una diversa prospettiva, nel suo scritto: Come un romanzo (Feltrinelli, Milano 2003). 

Come fare a trasmettere la passione per la lettura ad una legione di ragazzi che non intendono appassionarsi? Pennac risolveva il problema elaborando un decalogo che tra gli altri, riportava in calce il “Diritto di non leggere”. In sintesi; non si può imporre la lettura, solo mostrarne il piacere. 

Similmente l’insegnante dovrebbe mostrare il piacere del sapere che congiunto alla volontà dello studente, una volta superata la paura del fallimento, dovrebbe portare al recupero di molti casi difficili.
Ma i professori a volte sono lontani, distaccati, assenti.

Non trasmettono amore per il sapere, non ricevono i segnali degli alunni in difficoltà

Il suo diventa alloro non  un elogio della scuola perfetta bensì una messa in discussione dei sistemi di insegnamento superati del disamore che a volte avvolge la professione dell´insegnante.

Pennac non si ascrive a nessuna scuola di pensiero pedagogico e insegue un percorso individuale anche se, mi pare, che nel scritto faccia capolino spesso l’idea del docente facilitatore di apprendimento tipica di alcuni orientamenti didattici.

Secondo alcuni lettori (specie insegnanti i cui commenti, molte volte non troppo benevoli, sono rintracciabili in rete) e secondo alcuni critici Pennac peccherebbe di romanticismo o forse di buonismo.

Con il passare del tempo si tende a guardare con indulgenza aspetti del passato verso cui in precedenza si era stati molto critici e si rimuovono quelli dolorosi, fino ad una vera e propria dissociazione.

Nulla è esattamente ciò che era, così come con il tempo si è modificato lo stesso soggetto che ricorda.

Ciò accadrebbe allo stesso Pennac portato involontariamente a migliorare i suoi ricordi.

L’esperienza in collegio, drammatica per molti, diviene così per lui sopportabile e utile per la sua formazione, la costanza dell’applicazione se ben motivata diviene allora una delle vie per il successo scolastico.

L’insegnante deve stimolare, aiutare, far capire a tutti (o quasi tutti) i soggetti che impegnandosi possono farcela.

Come si dice: l’impegno non garantisce il successo ma il non impegno garantisce il fallimento. 

Comunque sia, a mio parere, il libro ha un pregio fondamentale per un’opera letteraria: è scritto bene.

Anche l’alternarsi di due piani, uno più contemporaneo nel quale lo scrittore, ormai affermato, si guarda indietro con una visione prospettica e distaccata ed uno calato nella memoria in cui Pennac si immerge come fosse allora, ricordando volti e accadimenti del tempo passato e proponendo episodi della sua adolescenza scolasticamente difficile, aiutano a renderlo vivo e non noioso.

Non si tratta certo di un saggio di didattica e pedagogia, più che altro di una ricerca sul campo, di una osservazione partecipata di derivazione sociologica, in cui il soggetto osserva dall’interno e interagisce con l’oggetto osservato.

Proprio come in una ricerca basata sull’osservazione partecipante Pennac cerca di dare una descrizione e una interpretazione della realtà degli studenti difficili senza dare risposte esaustive e definitive e soprattutto, senza cercare di confermare una tesi preconcetta.

Probabilmente il fatto che Pennac sia stato e non sia più, un insegnate diviene il suo punto di forza.

Uscito da un ambiente, dai suoi riti, dai suoi piccoli compromessi, ne diviene un osservatore meno indulgente e più attento, capace di penetrare a fondo dinamiche apparentemente ignote o trascurate,

Fornisce così un quadro d’insieme con lo scopo di invitare a riflettere.

Vorrei a tale proposito permettermi una digressione.

Come ho già scritto non sono mancati al libro di Pennac commenti e riflessioni.

Basta inserire il titolo in un motore di ricerca e scorrere alcuni siti per constatare che nel web si possono trovare molteplici opinioni su questo libro,

Specialmente i docenti si sono sentiti chiamati in causa e hanno espresso, in molti casi, la loro opinione sul contenuto del libro. 

Molti gli apprezzamenti ma non sono mancate certo le critiche.

Alcuni lettori lo hanno trovato uno scritto sdolcinato e idealista lontano dalla trincea quotidiana.

I “somari” sono “somari” si argomenta, e per uno che si redime novantanove rimangono tali per quanti sforzi si faccia.

Mi ricorda un po’ la dinamica del medico e l’ammalato.

Il medico molto spesso tende con il tempo a considerare l’ammalato uno dei tanti.

Un caso, da affrontare professionalmente senza un (eccessivo) coinvolgimento umano.

L’ammalato invece si sente unico e considera il suo caso come speciale.

Le prospettive sono difficilmente conciliabili.

Similmente lo scrittore focalizza la sua attenzione su uno o pochi casi approfondendone storia e sentimenti.

La paura di uno studente per l’insuccesso diviene così LA PAURA per antonomasia., una vicenda sfortunata diviene IL DRAMMA attraverso il potere moltiplicatore ed esaltatore della parola.

Meccanismo questo di esaltazione del caso singolo che riesce soprattutto se ad usare la parola è un esperto scrittore come Pennac che la conosce approfonditamente e sa come presentarla al meglio al lettore suscitando in lui emozioni, pathos o empatia per il “povero somaro”.

D’altronde i docenti non devono arroccarsi in una sorta di impermeabile autoreferenzialità in base alla quale l’unica visuale corretta della scuola e degli studenti è la loro senza accettare il confronto con altri portatori di esperienze differenti, ma non per questo meno ricche e utili.

Atteggiamento questo che sancisce l’inutilità del confronto e che limita ogni apporto proveniente dall’esterno.

Il libro di Pennac invita proprio a considerare diverse possibili visuali per cercare di operare al meglio nell’interesse dello studente che dovrebbe essere il vero e unico obiettivo di tutto il sistema scuola, 

In definita un libro godibile sia come scritto in sé, da leggere velocemente senza troppi problemi e senza altra pretesa che quella di trascorrere un po’ di tempo immersi in una lettura piacevole, sia come insieme di spunti su cui riflettere, senza cercare colpevoli o colpe ma utile per confrontarsi con prospettive e visuali nella e della scuola (come quella dello studente dell’ultima fila) non sempre considerate con attenzione nelle ambasce dell’anno scolastico. 

Maurizio Canauz (Giugno 2010)

 

 

 

 

Titolo: L’Ethos del mercato
Autore:  Luigino Bruni
Editore:  Bruno Mondadori
Anno: 2010

Si dice che l’assassino torni sempre sul luogo del delitto.
Vi è come attirato, risucchiato da una forza oscura che, come una calamita, l’attrae verso il magnete.
Questo sembra il destino di Bruni che ripercorrendo strade a lui consuete torna, in questo libro edito da Bruno Mondadori, ad affrontare i temi del mercato e della comunità, dell’economia civile, del dono e della ferita nell’incontro con l’altro.
Sembra quasi che l’autore dopo aver brillantemente approfondito a lungo il pensiero dei grandi economisti come storico del pensiero economico, si sia convinto della bontà di alcune idee passando prima alla loro teorizzazione per poi diventarne un instancabile divulgatore.
Non più quindi il suo un approccio teorico e dottrinale ma qualcosa di più e di diverso come se si fosse convinto che la sua ricerca debba andare oltre alle aule universitarie diventando materia concreta con un forte legame con l’esistenza quotidiana.
I problemi economici perderebbero quindi il loro significato, per Bruni, se vengono considerati soltanto come problemi teoretici concernenti realtà a cui la loro impostazione o risoluzione risulti estranea e i quali non abbiano sull’uomo che li pone o che li risolve se non una influenza ipotetica e indiretta.
Bruni quindi concentra sempre più la sua attenzione sull’uomo e sulla sua esistenza.
Il suo punto di partenza non può quindi essere che l’antropologia.
E’ l’individuo posto alla base della teoria economica che deve essere studiato perché è dalle fondamenta che la costruzione deve essere modificata.
La scelta di Bruni è sicuramente interessante e controcorrente visto che a partire dagli anni Ottanta si e delineata, all'interno della disciplina antropologica, una progressiva caduta d'interesse nei confronti delle teorie “forti”. “Collasso” teorico che si è verificato in una congiuntura storica caratterizzata dal crollo delle ideologie con un probabile collegamento fra i due fenomeni.
In questo panorama frammentato tuttavia Bruni cerca e trova un riferimento per la sua riflessione nel pensiero di Roberto Esposito.
Esposito, così come in Francia ha similmente sostenuto Jean-Luc Nancy, basa la sua iniziale riflessione su un pensiero espresso mirabilmente da una citazione dai Titani di Friedrich Hölderlin: «È bene reggersi/ ad altri. Nessuno sopporta solo la vita».
Ogni uomo necessità quindi della Communitas in cui domina il reciproco volgersi l'uno all'altro in un obbligo donativo, nel munus come «ufficio» e «dono».
Essere nelle Communitas non è un avere ma, al contrario, un debito, un dono da dare.
I soggetti che fanno parte della Communitas sono uniti da un dovere che li rende non totalmente padroni di loro stessi.
Entrando nella Communitas gli uomini rinunciano alla propria proprietà iniziale (fondamentale) e cioè alla loro soggettività.
Rinuncia questa assai forte che comporta conseguenze impegnative per il destino dell’uomo che perde la sua specificità per entrare in una collettività di uguali.
Concezioni queste di Esposito piuttosto radicali che Bruni riprende quando asserisce che: “La comunità è una ferita che espone l’altro ad un legame rischioso: la fraternità.”
In molte culture, secondo l’analisi che viene proposta, l’individuo è stato assorbito dalla comunità, a volte in modo esclusivo.
Si pensi alla Comunità Sacra ma anche, per Bruni, a quella Greca dove la philia cioè l’amicizia crea la polis come comunità di eguali e non di diversi.
Lo stesso avviene negli ordini religiosi come, ad esempio, nell’ordine francescano.
Poi, con l’avvento della modernità, il concetto di fraternità entra in crisi e si passa, con la teorizzazione del contratto, ad un nuovo modo di stare insieme in cui ogni aspetto agapico viene relegato ai margini se non proprio cancellato.
Colpevole di questa trasfornazione soprattutto Hobbes che ha basato l’unione degli individui non sull’amore ma sulla paura.
Idee quelle del filosofo inglese che non sublimano il rapporto tra gli uomini ma tendono a limitarlo.
Per Bruni con Hobbes :”la società europea si è ritrovata dalla comunità senza individui all’individuo senza comunità.”
Da questa visione individualistica legata probabilmente, anche se Bruni non lo dice, all’idea sostenuta dal protestantesimo dell’individuo (attore principale del suo destino e fortemente autonomo) e della società deriva la centralità del mercato in cui le categorie tipiche sono non l’amore ma l’estraneità e l’indifferenza.
Il mercato è quindi il luogo dove la relazionalità è bandita, così come è bandito il dono e la logica che lo sottende.
La società Occidentale ha così, con il tempo, operato una scelta economica che è diventata anche valoriale preferendo una visione egocentrica ed egoistica dell’uomo ad una visione basata sul’incontro e sulla fraternità, sul riconoscimento del prossimo come uguale.
Eppure in questo apparente conformismo ideale non sono mancate, a parere di Bruni, eccezioni capaci di recuperare la relazionalità sacrificata dal mercato.
Si tratta, ad esempio, della economia civile secondo la cui visione. mercato, impresa, economia sono in sé luoghi anche di amicizia, reciprocità, gratuità, fraternità.
Soprattutto Bruni richiama il pensiero di Genovesi secondo cui, lo sviluppo dei mercati doveva essere considerato una espressione della “assistenza reciproca”: “Uno de’ bei tratti della Divina Provvidenza, fa che gli uni dipendano dagli altri, e che vi sia prima tra famiglia e famiglia, e appresso tra villaggio e villaggio, e medesimamente tra città e città, e ultimamente tra nazione e nazione uno scambievole legame di perpetuo interesse, primo fondamento delle civili società e quasi di tutti gli ordini civili”.
In altre parole la socialità, in questa diversa concezione del mercato, torna ad essere fraternità.
Diviene quindi chiaro l’obiettivo di Bruni, tipico della sua ultima produzione: “La grande operazione che ci attende è andare oltre questa economia di mercato senza rinunciare alle conquiste di civiltà che tale sistema economico e sociale ha consentito di raggiungere negli ultimi secoli”.
Per farlo la ricetta è quella di recuperare la “fraternità senza la quale la vita, individuale e sociale, non fiorisce”.
Onestamente se osservo il mondo intorno a me, soprattutto in questo periodo, mi sembra che questa ipotesi vada oltre l’utopia.
Per realizzarla, infatti, non basterebbe neppure il già difficile richiamo ad una etica condivisa, ma sarebbe necessario costruire un ethos, cioè un ambiente, uno stile di vita, un modo di concepire i rapporti economici con una strategia in grado di arricchire insieme i singoli e la comunità.
E’ plausibile?
Al lettore la risposta.
In conclusione un libro che si concentra su tematiche note per chi segue il lavoro e la ricerca di Bruni, scritto con il solito impegno teorico e la solita voglia di comunicare con un’ampia cerchia di lettori
Forse, il limite di una produzione così intensa, che gravita sugli stessi argomenti sia pur affrontati con dosaggi diversi, porta il libro a peccare un po’ di originalità, rischio questo ovvio che tuttavia può passare in secondo piano se l’obiettivo ultimo è quello, non di essere originali, ma di arrivare a nuovi lettori proponendo nuovi testi con case editrici diverse.

Maurizio Canauz (Maggio 2010)
 

 

 

 

TEATRANTI PRECARI

Autore: Libera Stroppa
Editore: Giraldi
Anno: 2008

Di precariato e flessibilità mi sono già occupato recensendo il libro di Luciano Gallino; Il lavoro non è una merce.
Sono temi questi così attuali che forse meritano una particolare attenzione come del resto ci ha ricordato anche di recente Benedetto XVI. (1)
Difficilmente però, si va al di là del pensiero razionale, dell’analisi sociale od economica.
Eppure già Pascal ci avvertiva che esistono ragioni che la ragione non conosce…
Oltre a i numeri, alla coerenza deduttiva e induttiva, alla logica esiste altro nell’umanità.
Cuore, sangue, sudore… paure, ansie, speranze, delusioni.
Aspetti emotivi e, a volte, irrazionali che mal si adattano al saggio e che rimandano invece ad altri tipi di componimenti letterari ad altre forme espressive non per questo meno utili alla comprensione di un fenomeno complesso come quello del lavoro o non lavoro flessibile,
Difficilmente, però, si ascolta la voce a chi è il vero e unico attore del precariato: il precario.
Ultimamente, in verità, alcuni scrittori, sceneggiatori e artisti hanno cercato la loro ispirazione in questo ambito, tentando operazioni in cui si cerca di penetrare oltre l’apparenza, oltre la massa per evidenziare storie, biografie di persone che lottano per sopravvivere nella giungla del mercato del lavoro.
La visuale privilegiata è quella dal basso, quella di chi sta alla base della piramide sociale.
Mi riferisco, ad esempio, alle opere di Ascanio Celestini (1), di Giovanni Calamari (2) di Andrea Bajani (3) e di Marco Paolini (4) in Italia e i celebri reportage di Barbara Ehrenreich (5). negli Stati Uniti.
Similmente questo (quasi) vuoto, questa (quasi) mancanza attrae lo sguardo dell’autrice Libera Stroppa, che con il suo agevole testo cerca di presentare il mondo del precariato dall’interno, utilizzando storie, annunci di ricerca e offerta di lavoro,
Ne risulta così un mondo rutilante o meglio un sottobosco in cui ironia, dramma e assuefazione alla criticità si fondono con la normale banalità e routine del vivere giorno dopo giorno.
Routine e banalità che non riguarda però chi non ha un testo fisso, una parte certa da recitare.
Chi si alza dal letto senza alcuna sicurezza su come andrà la giornata, chi si deve scoprire artista o prestigiatore per inventarsi il pranzo e la cena.

Il testo, in settantotto pagine dense di spunti, si propone come copione teatrale, con rimandi anche agli spettatori, fatto però non di armonie ma di discontinuità di “intramuscolari” così veloci da non dare a volte il tempo di recepirne appieno il senso.
Siamo abituati a sentire giornalmente, tra radio, televisione, amici e parenti discorsi e dialoghi tra precari in attesa del rinnovo di un improbabile contatto ma, ora, quelle parole svolazzanti, che leggere spesso ci sfiorano senza lasciare traccia, vengono fissate su carta, inchiodate e noi non possiamo più voltare lo sguardo, o mettere la testa sotto la terra come si dice facciano gli struzzi quando percepiscono avvicinarsi il pericolo.
Si sentono così le voci, ora flebili ora vigorose dei giovani che si ritrovano catapultati nel mondo del lavoro senza alcune certezze o dei cinquantenni che perdono il lavoro e si trovano a “mendicare” un posto senza che la loro pregressa professionalità abbia un valore o un riconoscimento.
Storie di commesse senza contratto regolare, di mutui, di lavori a progetto di colloqui di lavoro e di discussioni in famiglia con genitori che non riescono ad aiutare i figli a comprendere una realtà che a loro stessi è sconosciuta.
Storie che, penso, possano essere ben riassunte in queste citazioni in bilico tra poesia e aforismo:
“Parole Precarie
No/ Si/ Forse/ Vedremo/ Le diremo/ Ora è troppo presto/ Dobbiamo lavorare/ Le capacità ci sono/ Bla, Bla Bla.” (pp. 33-34),

“CV”
CV INVIATO IL 25/0372007:
26/03/2007 h. 10,20 calma, piatta
27/03/2007 h. 11,00 calma, piatta
28/03/2007 h,13,00 calma, piatta
3/04/2007 h. 16,00 calma, piatta
5/04/2007
Calma apparente.
(pag. 60)

Un testo diretto, che usa un registro linguistico semplice e giovanile, anche se a volte, a mio giudizio, eccessivamente piatto ed ordinario.
Un libro che ritengo possa essere utilizzato anche in classe per superare l’universalità astratta della teoria per introdurre concetti quali comprensione e solidarietà umana che consentono di mostrare la struttura coesistenziale dell’esistenza e porre una base per la creazione di un’etica condivisa basata sulla natura dell’uomo.
Inoltre può, facilmente essere utilizzato come parte di un percorso sul tema del lavoro e della flessibilità.
Il suo utilizzo, a tale proposito, può assumere forme diverse.
Può, ad esempio, essere “stazione di partenza” per fare emergere i saperi spontanei, le esperienze degli studenti e il loro stato d’animo sia in riferimento al loro futuro lavorativo si in riferimento alla loro situazione familiare.
Oppure come “stazione d’arrivo“ una volta affrontare teoricamente i temi del mercato del lavoro, di offerta e domanda, di disoccupazione.
Oppure semplicemente come spunto per una discussione e un confronto sull’economia il lavoro la società e il benessere magari scegliendone solo qualche passo, qualche storia, qualche annuncio.
Materiale grezzo su cui lavorare ma che aiuta a storicizzare il sapere superando ogni forma di accomodamento verbale, di ogni irrisolutezza speculativa,
Un modo per dare colore e sostanza ai numeri i dati, per far capire che le decisioni economiche prese hanno un impatto sulle vite delle persone, per rendere esistenziale l’economia politica.
Non è, come ho già ricordato, l’unico testo possibile ma la sua forma espressiva, il suo tono amaro ma non tragico, la possibilità di evitarne parti (anche per assecondare il tempo tiranno) senza perdere il senso del tutto ne fanno un testo gradevole e alla portata di tutti, non noioso e utile per focalizzare esperienze di precariato che ultimamente investono molte famiglie italiane.

Un ultima annotazione: perché nel titolo l’autrice parla di teatranti ? Perché fingere una rappresentazione teatrale?
Probabilmente perché la vita, l’esistenza è da considerarsi, secondo l’autrice, poco più di uno spettacolo con i luoghi ridotti a scenari e gli uomini a maschere che recitano una parte di un copione scritto un po’ maldestramente.
Spesso in questo melodramma che è la vita purtroppo, gli uomini sono chiamati a recitare una parte da sconfitti senza redenzione.

“Ogni grande trucco si svolge in tre atti: il primo è chiamato la promessa e l’illusionista mostra qualcosa di molto comune ma ovviamente non lo è; il secondo è chiamato la svolta: la cosa comune diventa qualcosa di straordinario e se cercate il segreto non lo troverete. Ed ecco il terzo atto, il gioco di prestigio, che mostra qualcosa che non si è mai visto prima”.

(dal film “The prestige, 2006- citato a pag. 60 ).


Maurizio Canauz
(Aprile 2010)




NOTE
(Ma anche un breve itinerario tra alcune delle opere artistiche che si confrontano con il mondo del precariato)


(1) Si veda a tale proposito il testo dell’Angelus, ripreso tra l’altro da tutti i principali giornali italiani, del 18 marzo 2010 in cui si afferma tra l’altro che; “il lavoro è un bene per l’uomo, per la famiglia e per la società, ed è fonte di libertà e di responsabilità.”
 

(2) In particolare Ascanio Celestini ha prodotto sulla precarietà il documentario “Parole Sante” presentato alla Festa di Roma nella sezione Extra nel e prodotto da Fandango (anno 2008 anche con testo scritto).
In questo documentario (acquistabile e quindi utilizzabile in classe) si narra la storia di quattromila lavoratori precari che attraversano ventiquattro ore al giorno il portone di un’anonima palazzina, una fabbrica di occupazione a tempo determinato che sembra un condominio qualunque.
Tra loro alcuni operatori telefonici hanno organizzato scioperi, manifestazioni, scritto un giornale e presentato un esposto all’Ufficio Provinciale del Lavoro.
Si sono autorganizzati, hanno rischiato e sono stati licenziati..
Come scrive Celestini: Qualcuno poteva salvarsi e accettare un lavoro pagato 550 euro al mese, ma “noi non siamo mica il Titanic – mi dicono- non affonderemo cantando”. Parole sante! Rispondo io.

PAROLE SANTE - Scritto e diretto da Ascanio Celestini - Direttore della Fotografia Gherardo Gossi - Montaggio Alessandro Pantano
Musiche di Roberto Boarini, Matteo D'Agostino, Gianluca Casadei e Ascanio Celestini - Prodotto da Fandango (http://www.fandango.it/default.asp?idlingua=1&idContenuto=1902)

(3) Giovanni Calamari è autore del documentario "Debito di Ossigeno" che racconta come una ragazza madre di Legnano e una famiglia di
Torino affrontano il rischio della perdita di lavoro.

Fulvia, trentasettenne romana, vive nella provincia milanese
col figlio di otto anni e campa con i contratti a termine che
riesce a trovare (più che altro nei call - center).
 

La madre è lontana, abita infatti a Barcellona e può aiutarla solo saltuariamente.
Così Fulvia si appoggia su una famiglia di tunisini che le tengono la figlia quando lavora. Una vita senza certezze, in cui l’oggi è una battaglia il domani un enigma.

Daniele e Sabrina, anche loro con un figlio all'asilo, si trovano con un mutuo da pagare nel bel mezzo di una ristrutturazione aziendale di cui ignorano l'esito: licenziamento o riassunzione?
Daniele è un ingegnere.
Forse aveva maturato che il suo titolo di studio e la sua professionalità lo avessero posto al riparo dai rovesci dell’economia e della crisi.
Ma così non è stato e questo ha catapultato nel vortice dell’incertezza tutta la famiglia.
La moglie si è trovata un impiego saltuario e lui si è trasformato in un uomo di casa pronto però a rientrare in azienda appena se ne presentasse l’occasione.
Lui sa che ha sempre fatto il suo dovere ma si accorge che questo non basta.
Amaro il confronto con il padre che ammette di non poter aiutarlo più di tanto.
Il padre desolato gli spiega che non capisce più questo mondo lui che ha lavorato per 35 anni filati in una sola azienda.
C’era fiducia e voglia di fare ma ora? Il mondo del lavoro sta cambiando troppo velocemente e i riferimenti anche di un passato prossimo non sono più validi.

Un documentario interessante che mostra la vita dei precari, la loro quotidianità e attraverso le immagini e le loro parole i loro sentimenti.
Anche questo documentario può essere utile per integrare un lavoro sul mercato del lavoro aggiungendo l’aspetto sociale e la sua ricaduta a quello economico e legale

(4) Andrea Bajani, scrittore, ha pubblicato per Einaudi sul mondo del lavoro: Cordiali saluti (2005), Se consideri le colpe (2007, Premio Mondello, Premio Recanati, Premio Brancati, Premio Lo straniero), il reportage sul lavoro precario Mi spezzo ma non m’impiego (2006) e Domani niente scuola (2008). Per il teatro è coautore di Miserabili, Io e Margaret Thathcer uno spettacolo di Marco Paolini.
(5) Barbara Ehrenreich è famosa per alcuni suoi scritti sul mondo del lavoro negli Stati Uniti,
Mondo che descrive dall’interno assumendo (anche per alcuni mesi) i panni dei lavoratori che vuole raccontare (similmente a quanto avviene in una ricerca sociologica qualitativa basata sull’osservazione partecipante).
La domanda a cui cerca di rispondere in uno di questi suoi lavori è la seguente: come vive (o meglio non vive) chi fa le pulizie nelle case, chi serve al bar, chi svuota i cassonetti e spazza le strade, chi stipa di merci nottetempo gli scaffali dei supermercati, chi accudisce i vecchi negli ospizi? In altre parole: di cosa è fatta la quotidiana lotta per la sopravvivenza ai gradini più bassi della piramide sociale?
Domanda alla quale sembra facile rispondere ma alla quale, in realtà, pochi sanno trovare una soluzione perché spesso, niente e più nascosto di quanto sta sotto gli occhi di tutti. La sua indagine, un'indagine sul campo anzi meglio sul posto di lavoro, in bilico tra giornalismo, sociologia ed economia è stata realizzata, per la rivista Harper's. ed è poi divenuta un libro edito in Italia da Feltrinelli con un titolo assai significativo: Una paga da fame. Come (non) si arriva alla fine del mese nel paese più ricco del mondo (Feltrinelli, 2002)

A questa indagine nel 2006 Barbara Ehrenreich ha affiancato un’altra ricerca che ha portato alla pubblicazione del libro:Bait and Switch. (Owl Books; New York, 2006).
Lo scopo di questo libro è dimostrare che nell’America di inizio ventunesimo secolo il numero dei salariati che fanno fatica ad arrivare a fine mese non fa che crescere e che quanti sono coinvolti in questo fenomeno oggi non sono i lavoratori che storicamente hanno occupato solo il fondo della scala sociale, ovvero, negli Stati Uniti, gli immigrati, i neri, gli operai, o i lavoratori con un basso tasso di scolarizzazione, ma sono anche i lavoratori più istruiti che svolgono professioni di carattere manageriale, Tra questi lavoratori una parte sempre più grande è costituita da donne.

In breve, lo scopo di Bait and Switch (purtroppo non ancora tradotto in Italiano) è rispondere ad una semplice domanda: che ne è delle possibilità lavorative delle donne istruite nell’America contemporanea?
Domanda che rimanda a sua volta a quella più generale: è vero l’assunto, sostenuto da diversi economisti, secondo il quale l’economia statunitense producendo ricchezza a tassi esponenziali arricchirà col tempo anche i più poveri, “sfortunati”, “sfaticati” o anche “incapaci” (i quali dovranno avere solo un po’ di pazienza per il loro riscatto)?
O a quella ancora più generale che si interroga sulla bontà della economia di mercato.
E’ corretto sostenere, dati i risultati storici che l’economia di mercato quanto più è libera, tanto più è in grado di produrre e distribuire benessere crescente per tutti?
Domande alle quali non dovremmo (ne potremmo) sottrarci (anche in classe) in un periodo come quello che stiamo vivendo non di espansione e ricchezza ma di crisi che colpisce soprattutto i più poveri e i più sfortunati e in cui molti assunti teorici non sembrano trovare una validazione fattuale e storica.
 

 

 

 

Ripensare la FIAT a Melfi
Autore: Vincenzo Fortunato
Editore: Carocci
Anno: 2008

A molti spesso piace visitare siti archeologici, monumenti, chiese, musei.
Ad alcuni piace visitare luoghi più recenti testimonianze del recente passato industriale d’Italia.
Ad altri ancora piace visitare luoghi dove ancora si produce, dove la materia si trasforma diventando beni di uso comune.
A molti piace essere guidati in queste visite da una guida esperta.
Con questo libro Vincenzo Fortunato ci offre, proprio, la possibilità di entrare in una fabbrica come osservatori.
Non in una fabbrica qualunque ma nello stabilimento FIAT di Melfi.
Di fatto, la storia ci racconta che, fino a non molto tempo fa, Melfi era solo la fertile terra dell’Aglianico protetta dalla fierezza del Vulture.
Era la città dei Normanni, con il castello federiciano particolare per l’irregolarità della sua forma.
Era il covo strategico del re falconiere Federico II di Svevia che, nel 1231, scelse proprio Melfi per dettare e promulgare le sue "Constitutiones", una raccolta di leggi elaborata dal giurista e scrittore Pier delle Vigne.
Per troppo tempo confusa con Menfi, surclassata da Castel del Monte per il suo castello federiciano più funzionante e "regolare", oggi Melfi riesce a recuperare una sua visibilità apparendo su qualche libro o su qualche giornale grazie alla costruzione in loco dell’ultimo stabilimento dell’impero Fiat, il castello feudo eretto nella piana di San Nicola.
Uno stabilimento che secondo il progetto dei suoi costruttori e di chi ne aveva pianificato l’organizzazione del lavoro sarebbe dovuto diventare una fabbrica modello: la fabbrica integrata.
Una fabbrica basata sul just in time e sulla pace sociale.
A questa fabbrica e al suo start up, Fortunato, dedicò, già in passato, una ricerca che fu pubblicata da Rubbettino nel 2001: Il sindacato snello. Relazioni sindacali, organizzazione del lavoro e produzione snella: i casi Fiat di Melfi e Rover di Swindon.

Da allora sono passati alcuni anni.
Ora l’azienda è cresciuta, l’organizzazione si è parzialmente modificata e anche i rapporti tra lavoratori e azienda si sono fatti meno idilliaci e più conflittuali. (1)
In questa azienda Fortunato ci accompagna per farci conoscere da vicino, come in un tour virtuale, la sua reale organizzazione del lavoro.
Non quindi solo teoria ma come la teoria si sia concretamente realizzata nella pratica.
Prima di iniziare il tour però Fortunato, sapientemente, fornisce ai lettori un kit base di notizie utili per comprendere meglio cosa significhi organizzazione del lavoro e della produzione e come essa si sia evoluta, almeno teoricamente, negli anni.
Il primo capitolo, infatti, ricorda brevemente i principali modelli teorici che si sono susseguiti fino all’attuale WCM.
Taylorismo, fordismo, modello giapponese, fabbrica integrata sono le forme organizzative che Fortunato descrive rapidamente nel primo capitolo del suo lavoro per avvicinare i visitatori al WCM.
Di fatto per Fortunato il WCM (a cui dedica il secondo capitolo del suo lavoro) non sarebbe altro che un altro nome per identificare la produzione snella di derivazione toytista.
Superate le spiegazioni iniziali il portone dello stabilimento si apre e si possono scorgere gli operai e i tecnici che operano nella fabbrica.
L’autore non si limita però a mostrarli al visitatore, a farne vedere il lavoro, i compiti e le mansioni (soprattutto nel quarto capitolo) ma cerca di dar loro una voce attraverso una serie di domande proposte con dei questionari.
Come considerano i dipendenti di Melfi l’azienda ?
In questo momento fanno resistenza passiva rispetto alla richiesta di partecipare al miglioramento continuo del processo di lavoro. Non si identificano con l’azienda, danno un consenso forzoso, determinato più che altro dalla “collaborazione forzata nei team e nelle Ute, dalle strategie di gestione delle risorse umane, dalle nuove e più sofisticate forme di controllo”.
L’entusiasmo iniziale di chi per la prima volta ha varcato la soglia di un complesso così strutturato ed organizzato, capace di dare lavoro in una regione dove di fatto non esistono alternative, sta ora scemando, mettendo in crisi quel rapporto partecipativo necessario nel sistema organizzativo applicato.
In questo senso è interessante notare quanto emerge tra ciò che è percepito come importante dai lavoratori e quanto lo è per l’azienda (p.96) .
Vi sono differenze assai rilevanti soprattutto, come nota Fortunato, per quanto riguarda i temi strategici della crescita professionale, della partecipazione attiva e del coinvolgimento dei lavoratori, della qualità, dei rapporti di lavoro.
Come si può notare si tratta proprio di quegli aspetti che incidono profondamente sulla motivazione degli individui e di conseguenza sul loro rendimento, con conseguenze significative sulle performance aziendali.
Gli operai di Melfi che incontriamo sono quindi piuttosto demotivati e poco propensi a seguire le indicazioni organizzative dell’azienda.
Se li interrogassimo troveremmo che circa un cinquanta percento di loro ha ancora un atteggiamento fiducioso verso l’azienda, mentre l’altra metà affermerebbe di essere sfiduciata, demotivata e indifferente (soprattutto tra chi ha tra i 30 e i 40 anni) (pag. 105 -106).
Tuttavia sarebbe errato ritenere che il rapporto in una fabbrica riguardi solamente e direttamente il lavoratore e la direzione aziendale.
Questo per quanto attualmente, sempre in base ai dati raccolti da Fortunato, il lavoratore di Melfi sia un lavoratore che definisce pragmaticamente e utilitaristicamente i propri obiettivi secondo un ordine ben preciso che ha al suo vertice la soddisfazione dei bisogni individuali di benessere e sicurezza del sé e alle soddisfazioni in ambito professionale (pag 91).
In fabbrica, infatti, accanto al lavoratore hanno anche un loro spazio aggregati e gruppi che mediano tra i singoli e la direzione aziendale: i sindacati.
Fortunato, come nel suo precedente scritto già ricordato sul sindacato operante nella prima fase dell’attività della fabbrica di Melfi , anche in questo caso misura la qualità e quantità dell’impegno sindacale nonché la soddisfazione dei lavoratori per quanto realizzato (con particolare riguardo alla FIM-CISL) .
Il quadro che viene delineato è per certi versi contraddittorio. (Si veda soprattutto il sesto capitolo)
Il sindacato, infatti, sembra ancora riconosciuto importante dalla maggioranza dei lavoratori ma sembra incapace di intercettarne umori e necessità.
La principale lotta su cui si concentra è quella della difesa dei posti di lavoro tralasciando però la richiesta di riconoscimento della professionalità e di formazione proveniente da un numero sempre crescente di lavoratori.
Soprattutto il sindacato si dibatte nel dubbio amletico tra partecipazione e conflitto.
Quale la via migliore per confrontarsi con l’azienda?
Il dilemma viene risolto in modo diverso dalle diverse confederazione sindacali.
Semplificando: la FIOM- CGIL sembra propendere per la via conflittuale mentre la FIM - CISL sembra adottare un sistema maggiormente partecipativo che sarebbe di fatto, secondo Fortunato, quello preferito dai lavoratori.

Dopo questo excursus sul sindacato al visita di conclude e i portoni della fabbrica si chiudono alle spalle del visitatore – lettore.
Siamo così giunti al momento dei commenti.

Il libro risulta essere estremamente interessante per la mole dei dati raccolti e per la chiarezza delle tabelle riassuntive presentate.
Dati che possono essere utilizzati per verificare concretamente una situazione determinata ma che non possono, a mio parere, essere generalizzati per l’assenza di ogni altro riferimento a stabilimenti che adottano una simile organizzazione del lavoro.
Un approfondito studio di un caso, che consente di trarre delle ipotesi, da verificare con altri casi, sia sul rapporto lavoratore – azienda, sia sulla salute (malferma) del sindacato.
Un'unica annotazione.
Il libro, proprio per l’argomento trattato, risulta non essere di facile lettura ed è consigliabile soprattutto per chi ha già qualche conoscenza in materia.
Libro, dunque, più di approfondimento organizzativo e di verifica della bontà dei nuovi modelli organizzativi che d’introduzione alla materia trattata.
Libro utile a chi si occupa di sindacato e che cerca dati per verificare il suo stato di salute e le aspettative che possono ancora avere i lavoratori. (2)

Maurizio Canauz
Febbraio 2010



NOTE

(1) Mi riferisco ad alcune condizioni imposte da FIAT e che penalizzano i lavoratori quali: l’introduzione delle gabbie salariali, attraverso l’escamotage della differente denominazione (Sata), la deroga al divieto del lavoro notturno per le donne, con la truffa della "partecipazione operaia" alle decisioni aziendali.
(2) In particolare emerge con forza la domanda di crescita professionale, di formazione e di qualità dei rapporti di lavoro che non sempre risulta essere recepita dall’azienda ma neppure dal sindacato concentrato per lo più sulla contrattazione salariale o sulla difesa, pur estremamente importante, dei diritti acquisiti dai lavoratori..
 

 

 

Il lavoro non è una merce

Autore:  Gallino Luciano
Editore:  Laterza
Anno: 2008

Ogni epoca ha dei cantori.
Cantori di gesta eroiche, cantori di disgrazie individuali o collettive, cantori di lotte o guerre.
Non so, se uno studioso di chiara fama come il Professor Gallino (1) può essere ascritto in questa categoria ma è indubitabile, come ben dimostrano i suoi scritti, che sia una cantore della anti - flessibilità del lavoro e delle dolenze che, a suo parere, questa pratica arreca all’umanità.
Il libro che mi propongo qui di recensire rientra perfettamente tra quelli che cercano di affrontare, a tutto tondo, questa tematica.
Anzi come qualcuno ha scritto: “il testo rappresenta una sorta di ricapitolazione di quanto Gallino è andato scrivendo nel corso di questi anni, in libri, articoli e conferenze, sulle tematiche occupazionali, che rappresentano da sempre una delle sue maggiori preoccupazioni di studioso e, credo di poter dire, anche di cittadino cresciuto ad una scuola importante come quella di Adriano Olivetti, che aveva ben chiaro come la disoccupazione involontaria fosse una delle massime disgrazie che può capitare ad un essere umano.” (Lorenzo Gaiani)

Non servono molti dati per notare come l’instabilità del lavoro stia diventando ormai una caratteristica del sistema produttivo della società capitalistica.
L’Italia inserita nel contesto Europa e più in generale nel mondo globale non può (o non vuole) sfuggire da questa logica.
Il risultato?
E’ presto detto.
Circa 8 milioni: sono gli italiani che hanno un lavoro instabile.
Tra 5 e 6 milioni sono precari per legge, ossia lavorano con uno dei tanti contratti atipici che l'immaginazione del legislatore ha concepito negli ultimi quindici anni
A questi vanno poi aggiunti i lavoratori del sommerso.
Spesso i numeri, soprattutto i grandi numeri, non suscitano nell’ascoltatore o nel lettore la dovuta attenzione, né le giuste emozioni.
Si tende spesso a catalogare il dato senza soffermarsi sulla sua reale implicazione sociale, sul suo vero significato concreto.
Tredici milioni di italiani, almeno insicuri alzandosi la mattina di avere ancora a sera il proprio lavoro.
Ma come si è arrivati a queste cifre?
Soprattutto perché le imprese hanno chiesto (o imposto) la flessibilità del lavoro in misura sempre crescente, quasi fosse la panacea per tutte le loro difficoltà organizzative, produttive e commerciali.
Secondo Gallino, alla base di tutto, c’è l’idea della possibilità di pianificare l’utilizzo del lavoro umano come quello delle altre voci del bilancio d’azienda, di fatto riducendolo a merce (che è esattamente quanto i testi internazionali e quelli nazionali, a partire dalla Costituzione repubblicana, raccomandano di non fare), ampliandone la domanda nei momenti in cui cresce la domanda del prodotto finito e diminuendola nel momento in cui la domanda decresce.
In particolare Confindustria (e i rappresentanti politici ad essa collegati), ha da molti anni espresso la convinzione che l'unica spinta al perseguimento di un obiettivo di modernità possa concretizzarsi nell'avere la mano libera sui rapporti di lavoro.
Poco importa quali siano le ricadute che le scelte legislative (vedi le leggi 196/1997, 30/2003, 276/2003) hanno sui lavoratori ed in generale sulla società intera.

In realtà su queste ricadute il dibattito è ancora aperto.
Secondo alcuni la flessibilità avrebbe portato a un incremento di posti di lavoro.
Come si suol dire: tra nulla e qualcosa è sempre meglio qualcosa.
Parafrasando: non sapere se e per quanto manterrò il posto di lavoro è sempre meglio che sapere con certezza di non averlo.
Più persone sarebbero, grazie alla flessibilità, entrate nel mondo del lavoro.
Tuttavia Gallino non ne sembra convinto.
Gallino afferma, infatti nel suo scritto, che è del tutto inadeguato il sistema statistico utilizzato, che identifica come lavoratore occupato quel lavoratore che nella settimana di riferimento per l'indagine ha lavorato almeno un'ora.
E' del tutto evidente per il sociologo torinese che, anche se l'indagine è scientificamente corretta e verificata, una impostazione di questo tipo di parametro come discriminante per identificare un lavoratore occupato da un lavoratore disoccupato non può in alcun modo essere rappresentativa dei modelli sociali del nostro paese, perché è naturale che un lavoratore che soddisfi quella caratteristica non può in alcun modo ritenersi occupato
Quindi è incerto se la flessibilità ha quantitativamente migliorato la condizione dei lavoratori.
Ma è certo, secondo Gallino che l’abbia peggiorata da un punto di vista qualitativo. limitandone la progettualità di vita e la possibilità di pianificarsi un futuro relativamente certo.
Tra l’altro Gallino sottolinea l'aspetto psicologico legato alla precarietà del lavoro.
In base a diversi studi, editati anche recentemente, i bambini cresciuti all'interno di famiglie con genitori precari mostrerebbero assai più facilmente disturbi comportamentali che andrebbero dalla resa incondizionata alla rivolta senza motivo.
Comportamenti questi che possono essere ricondotti allo status dei genitori, manifestandosi assai più di rado nei bambini che vivono in famiglie i cui genitori non sono soggetti alla flessibilità lavorativa.
Peraltro è inevitabile che persone che come prima attività hanno quella di cercare un posto di lavoro costantemente non siano nelle condizioni di sviluppare la loro presenza autonoma nella società costruendosi una famiglia, oppure decidendo di uscire dal nucleo familiare d'origine.

Gallino non si sofferma, tuttavia, su una riflessione solo generale sulla flessibilità o sull’impatto sociale da essa generata (pur tenendo conto da scienziato sociale qual è che l’aspetto economico, quello politico e quello sociologico dei fenomeni sociali di vasta portata sono necessariamente interconnessi, e solo prendendo atto di tale interconnessione è possibile affrontarli) ma cerca di addentrarsi più specificatamente nella sua analisi.
In questo senso cerca di definirne il concetto.
Riprendendo pensieri e riflessioni già note, ad esempio, afferma che sarebbe un errore considerare la flessibilità come un concetto unico.
Gallino ritiene, infatti, che sotto la stesso termine posano essere ricondotti due distinti fenomeni: la flessibilità dell'occupazione e la flessibilità della prestazione.

Nel primo con flessibilità si intende la possibilità per una azienda di aumentare o diminuire a piacimento la forza lavoro a seconda delle proprie esigenze tecniche ed organizzative.
Per fare questo l'azienda deve avere la massima libertà di azione nel procedere ai licenziamenti a seconda della propria necessità del momento. E' la legislazione del lavoro che negli ultimi anni è stata piegata per dare risposte adeguate a queste esigenze aziendali, sapendo che questo tipo di flessibilità è certamente quella più appariscente e che ha suscitato maggior interesse anche da parte di economisti ed opinionisti; non a caso è principalmente su questa che Gallino sviluppa le sue considerazioni.

La seconda flessibilità, invece, consente all'azienda di agire con la massima libertà sulle distribuzioni orarie dell'attività lavorativa, aumentando il monte ore nel periodo di picco lavorativo e diminuendolo conseguentemente nel momento in cui l'attività rallenta; in questo tipo di flessibilità si ragiona delle e sulle norme inserite nei contratti nazionali di lavoro che possono definire modalità di orario differenti a seconda della categoria e del settore in cui si lavora.

Tuttavia sarebbe limitante per l’autore rinchiudere la flessibilità all’interno (angusto?) dell’azienda.
La flessibilità avrebbe, infatti, in entrambi le accezioni sopra ricordate un collegamento con la globalizzazione.

Gallino stravolge però i soliti termini del rapporto tra flessibilità e globalizzazione.
Solitamente, infatti, si ritiene che esistendo un processo mondiale denominato globalizzazione, questo abbia automaticamente comportato l'ampio utilizzo nelle organizzazioni aziendali della flessibilità, mentre per Gallino la globalizzazione è derivata dalla flessibilità che le imprese hanno applicato nei processi produttivi.
Proprio il ricorso esasperato alla flessibilità diventato un mito, un totem a cui ispirarsi e da perseguire con ogni forza ha portato alla destrutturazione dell'azienda e la creazione di un sistema aziendale reticolare con unità produttive piccole ed autonome.
Unità produttive facili da delocalizzate dove il costo del lavoro è più basso o la conflittualità dei lavoratori è meno sviluppata.

Le aziende possono così produrre in nuovi spazi rompendo ogni legame con il territorio e ponendo ai lavoratori condizioni di precarietà spesso superiori a quelle strettamente necessarie avendo come fine ultimo e unico il profitto.
Ciò non fa altro che peggiorare le condizioni di lavoro e di sicurezza e soprattutto torna a porre al centro il problema di considerare e definire il lavoro.

Riecheggiano così le parole poste a titolo dello scritto oggetto di recensione che rientrano nella dichiarazione sugli scopi e sugli obiettivi dell'organizzazione stessa e sui principi che devono ispirare l'azione degli Stati che ne fanno parte approvata a Filadelfia il 10 maggio 1944 dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL).
All'articolo 1 del testo emanato in quella sede trova, infatti, spazio un principio basilare secondo cui "il lavoro non è una merce".
Gallino sceglie quelle parole non tanto e non solo per ribadirle (e ribadire il concetto da esso espresso) ma per sottolineare come la società (nella sua interezza) si stia allontanando da esse.
Logicamente Gallino sa che non basta che un singolo Stato operi in modo virtuoso per limitare i danni della flessibilità.
I “giochi” non si fanno più (o quasi più) a livello nazionale ma a livello sopranazionale.
Di conseguenza se la flessibilità è strettamente legata alla globalizzazione è evidente che le norme e le tutele dei lavoratori debbano scaturire da azioni coordinate a livello internazionale.
Tuttavia perché ci sia attenzione al problema è necessario che vi sia una forte sensibilizzazione, anche a livello locale, affinché certe posizioni teoriche di economisti, ed opinionisti vengano messe in discussione nell’interesse dell’uomo e della sua qualità di vita.
A che serve produrre sempre di più se pochi soltanto possono godere della aumentata produzione e per gli altri non c’è certezza neppure del domani?
Al lettore la risposta.

Maurizio Canauz
Dicembre 2009




NOTE
(1) Luciano Gallino è professore emerito di Sociologia all'Università di Torino. Ha pubblicato, tra l'altro, Se tre milioni vi sembran pochi (Torino, 1998), L'impresa responsabile. Un'intervista su Adriano Olivetti (Torino, 2001), La scomparsa dell'Italia industriale (Torino 2003), Dizionario di Sociologia (Torino 2004), L'impresa irresponsabile (Torino, 2005) e Tecnologia e democrazia (Torino 2007).
Per Laterza; Disuguaglianze ed equità in Europa (1993), Il costo umano della flessibilità (2005), Globalizzazione e disuguaglianze (2007) e Italia in frantumi (2007).
 

 

 

IL VOTO NEL PORTAFOGLIO
di Leonardo Becchetti (con Monica Di Sisto e Alberto Zuratti)

Il Margine, Trento 2008

Chi avesse letto il libro di Luigino Bruni recensito in questo spazio e lo avesse trovato interessante e piacevole non dovrebbe negarsi la lettura di questo scritto realizzato da Leonardo Becchetti, professore ordinario di Economia Politica presso la Facoltà di Economia dell’Università Tor Vergata nonché Presidente del Comitato etico di Banca Etica, in collaborazione con i giornalisti ed esperti di commercio equo – solidale Monica Di Siesto e Alberto Zoratti.
Nel libro si ritrova, infatti, la stessa atmosfera, la stessa voglia di modificare “gentilmente”, senza prevaricazioni, il sistema economico e forse lo stesso concetto di Economia già presente in Bruni.
Una rivoluzione in punta di piedi per consentire al mondo e alla sua popolazione di essere più felice e di vivere oltre la soglia della povertà.
Tuttavia, come si sa, ogni rivoluzione anche la più soft porta con sé, purtroppo, delle vittime.
Qualcuno rimane sempre esangue sul terreno con gli occhi sbarrati e lo sguardo livido.
In questo caso, nella rivoluzione di Becchetti, chi per primo soccombe è l’Homo Oeconomicus.
Scrive a tale proposito Becchetti: «La riduzione antropologica è semplice: nella scienza economica è invalso un modo di vedere la persona come soggetto che massimizza il proprio interesse individuale. L’unico movente dell’azione umana sarebbe quello dell’autointeresse.
Di fronte a questa visione già Amarthya Sen in un famoso articolo ha definito l’Homo oeconomicus un “folle razionale” (rational fool) osservando come, oltre all’autointeresse esistano altri due moventi nell’agire della persona che sono la simpaty (cioè la passione per l’altro) e il committment (il dovere morale).»
La visione razionalistica, secondo Becchetti, non sarebbe infatti capace di spiegare alcune delle azioni che compiamo tutti i giorni e che attuiamo non per nostro autointeresse (come ad esempio la beneficenza a favore di persone che non conosciamo).
Becchetti non si accontenta anzi…
Dopo aver eliminato l’Homo Oeconomicus posto a guardia della cittadella dell’economia classica, la Camelot economica dove, intorno alla Tavola Rotonda, siedono i cavalieri del liberalismo, inizia a vacillare.
Un leggero tremito, quasi impercettibile per i sensi umani, ne mina le fondamenta e ne sgretola alcuni palazzi.
Ma non c’è tempo per rimpianti o nostalgie.
Nuove costruzioni sorgono dal nulla (o quasi).
Palazzi che si chiamano: imprese socialmente responsabili, il microcredito, la banca etica, i fondi etici…
Becchetti si sforza di mostrare, allora, la suggestione e la bellezza di alcune di queste esperienze.
Esperienze concrete, storicamente visibili, che possono mostrare la portata “rivoluzionaria” e la potenzialità di queste istituzioni per rendere il mondo migliore (o comunque più vivibile).
Ecco allora le pagine che descrivono la storia del MAG (Società Mutua per l’Autogestione) nata a Verona come supporto, amministrativo, fiscale, legale ai lavoratori della SELEGRAF e poi diventata il primo caso italiano di finanza etica (pag. 128) o quella di Muhammed Yunus “capostipite della banca del microcredito” economista insignito del premio Nobel nel 2006 per la sua intuizione.
«Yunus sceglie di prestare denaro a persone senza garanzie collaterali. Fino a quel momento la banca aveva dimostrato di poter fare prestiti solo a chi avesse garanzie ulteriori, pari o superiori agli importi chiesti in prestito. Non riusciva, cioè, a realizzare fino in fondo la sua missione: far incontrare le persone che avevano idee produttive con quelle che avevano i soldi per realizzarle.
Yunus avanza per tentativi, incoraggiato a proseguire quando con soli 27 dollari statunitensi prestati a un gruppo di donne del villaggio di Jobra (vicino all'Università di Chittagong) che producevano mobili in bambù riesce a liberarle dal circolo vizioso che le vedeva costrette a vendere i prodotti a coloro dai quali avevano preso in prestito le materie prime a un prezzo da essi stabilito.
Tale tipo di transazione riduceva drasticamente il margine di guadagno di queste donne e le condannava di fatto alla povertà. D'altra parte, le banche tradizionali non erano interessate al finanziamento di progetti tanto piccoli che offrivano basse possibilità di profitto a fronte di rischi elevati.
Soprattutto non avevano alcuna intenzione di concedere prestiti a donne, tanto più se non potevano offrire garanzie.
«Yunus e i suoi collaboratori cominciano a battere a piedi centinaia di villaggi del poverissimo Banesh, concedendo in prestito pochi dollari alle unità, somme minime che servivano per attuare iniziative imprenditoriali.
Tale intervento avvia un circolo virtuoso, con ricadute sull’emancipazione femminile perché sceglie di far leva sulle donne affinché fondino cooperative che coinvolgano ampi stati della popolazione.
Yunus si lancia in questa avventura e riesce a costruire una banca la Grameen Bank che oggi vanta oltre 400 mila dipendenti ed è considerata la terza banca del Paese perché serve più di tre milioni di clienti» (pag.115).

Esperienze quelle descritte da Becchetti sicuramente molto intriganti, gratificanti e suggestive che hanno il compito di mostrare al lettore tangibilmente, soprattutto se avvezzo di economia, la bontà e la fattibilità di questa “nuova economia”.
Ma Becchetti non si accontenta.
Se la suggestione non basta a convincere il lettore ecco allora ritornare alle “armi pesanti”.
L’arma definitiva ha il nome di James Tobin.
Scrive Becchetti: «Nel mondo di chi è più impegnato nel sociale c’è un forte pregiudizio nei confronti della finanza .» (p.146)
«L'ostilità di oggi nei confronti della finanza dipende dal fatto che essa gestisce quantità enormi di soldi per attività che hanno nei fatti utilità sociali molto basse.
Il vero scandalo, insomma, è che a metà 2008 il valore nazionale della finanza derivata era 48 volte il Pil mondiale, mentre per concedere un prestito di microfinanza o per finanziare un'adozione a distanza possono bastare poche centinaia o migliaia di euro.
O, detto in altro modo, considerate le ingenti somme in gioco, l'efficienza sociale delle stesse è veramente bassa.
Per questo è stata avanzata da molte parti !'idea della Tobin Tax, con l'obiettivo cioè di indirizzare una parte di questi flussi finanziari verso iniziative di una qualche utilità più generale, come la cooperazione allo sviluppo o lo stato sociale.» (p.146)
Di fatto più la situazione economico – finanziaria mondiale è difficile, più ipotesi come quella avanzata da Tobin e riproposta nel libro oggetto di recensione, trova vigore.
Anche per questo oggi il pensiero di Tobin ha una grande eco nel mondo moderno.
E proprio ispirandosi a quanto ipotizzato da Tobin alcune esperienze sono state pensate o realizzate da gruppi di studio ed istituzioni economiche, anche se non mancano resistenze a livello mondiale che producono per Becchetti, e non solo per lui (in questo senso anche Jena Zigler - p.152), effetti assai negativi per le popolazioni in via di sviluppo.
Resistenze che appaiono evidenti anche in contesti ufficiali come, ad esempio, la Conferenza di Roma della FAO del maggio del 2008 in cui gli interessi dei forti, a parere dell’autore, limitano ogni importante intervento economico e sociale a favore dei più deboli.
Personalmente da buon scettico (dando al termine il significato filosofico originario derivante da skeptikòs e cioè colui che osserva e non quello derivato nel linguaggio comune di incredulo e diffidente) preferisco sospendere ogni giudizio.
Compito di chi recensisce è, soprattutto, quello di incuriosire il lettore se il libro lo merita e di suggerire possibili percorsi di lettura non necessariamente quello di esprimere giudizi personali spesso legati alla propria esperienza e ai propri saperi sulla bontà o realizzabilità delle tesi proposte.
Difficile risulta, ad esempio, valutare la realizzabilità di queste teorie (o meglio di questo approccio) al di fuori di “oasi” protette .
Difficile, se non proprio difficilissimo, ipotizzare un comportamento altruistico del consumatore soprattutto in un periodi di crisi come quello attuale.
Possiamo essere certi o comunque ragionevolmente sicuri, liberandoci da ogni ipocrisia o “buonismo”, che la maggior parte dei consumatori acquisti (o acquisterebbero) un bene non solo per il suo prezzo ma anche (se non soprattutto) per la sua qualità ambientale e sociale (su come è stato prodotto e in che modo) orientando la propria scelta verso quelle aziende all’avanguardia in tema di sostenibilità?
Questa domanda mi consente di giungere a quello che a mio giudizio è l’aspetto più critico dello scritto qui recensito.
Becchetti insiste sul concetto di economia etica e di imprenditori etici.
Ma cosa si intende per etico?
Quando un comportamento può considerarsi etico?
Su questo tema l’autore non mi sembra si soffermi adeguatamente.
Forse lo dà per scontato, forse dichiarandosi contrario ad ogni eccessiva specializzazione dei saperi che impedisce analisi complete (pag. 17 e ss.) ritiene sia inutile dilungarsi in disquisizioni filosofiche.
Scrive a tale proposito Becchetti contro la specializzazione eccessiva dei saperi: «La reciproca incomunicabilità tra saperi nasce dal fatto che la vecchia sapienza rinascimentale, nella quale si era esperti un po' di tutto, è saltata con quel «Big bang» che Luhmann ha definito «specializzazione funzionale», e che ha prodotto ai nostri giorni una situazione non dissimile da quella della Torre di Babele: ciascuno parla una lingua che gli altri non capiscono.
Mentre la specializzazione è ottima quando si vanno ad analizzare singoli problemi, studiando nel dettaglio le caratteristiche di alcuni frammenti della realtà, non funziona quando si devono trovare ricette di politiche generali che, al contrario, presuppongono elementi di conoscenza complessiva». (p. 17)
Tale limite alla specializzazione dei saperi non è nuova ma, ad esempio, era già stata postulata in Italia da Emanuele Severino il quale non si limita solo a sottolineare e criticare la incomunicabilità tra i saperi ma tende a sottolineare come in una società fondata sul pensiero debole, la tecnica (e quindi in un certo senso anche la ricerca e l’innovazione) sia «destinata a diventare il principio regolatore di ogni materia, la volontà che regola ogni altra volontà».
La tecnica (specialistica) non ha scopi trascendentali o escludenti ed una sua concretezza, poiché è forma della produzione reale.
E’ azione che non ha altro scopo della sua realizzazione e della sua crescita di potenza.
Essa diviene pertanto autoreferenziale e non ha di fatto nessun interesse a risolvere problemi generali ma solo a preserrvare se stessa.
Non opera più per risolvere i problemi ma ne crea sempre di nuovi per poterli risolvere e accrescere la sua potenza.
Perciò la ricerca, per evitare di divenire fine ultimo, deve sempre ricordare quel è la sua missione iniziale, il suo scopo precipuo e cioè il benessere dell’uomo e avere ben presenti i valori che la promuovono e per questo deve (dovrebbe) accettare senze reticenze la contaminazione anche con altri saperi.
Tuttavia Becchetti non sembra, di fatto, adoperarsi in questo scritto per indicare un possibile percorso per recuperare l’unitarietà del sapere per il bene comune.
Liquida, infatti, la riflessione filosofica e soprattutto quella etico - morale in poche frasi, giungendo a considera l’etica, forse un po’ provocatoriamente, un prodotto che può essere comprato e venduto
Scrive a tale proposito: «La provocazione che emerge con forza da queste poche pagine è legata alla vera, grande novità del sistema economico di questi ultimi anni. A portata di carrello tutti noi abbiamo a disposizione un nuovo “prodotto” possiamo comprare e vendere l’etica.»
Senza dilungarmi vorrei solo ricordare che l’eccessiva semplificazione spesso conduce a vicoli ciechi.
Due sole osservazioni.
Parlare di etica (di valori) di giudizio morale apre scenari complessi.
A quale etica si riferisce l’autore?
Di etiche diverse e contrapposte ve ne sono molte.
Personalmente una contrapposizione forte e utile per gli argomenti trattati nello scritto qui recensito penso sia quella tra l'etica che ruota intorno ai principi e quella che, al contrario, tiene conto delle conseguenze dell' azione.
Si tratta di una distinzione che è centrale, ad esempio, nella riflessione di Max Weber, che se ne è valso non tanto per distinguere due tipi diversi di etica quanto piuttosto per richiamare l'attenzione su due piani diversi della vita etica: quello proprio dello studioso di etica che fa appunto appello alla rilevanza dei principi (wert – rational) e quello di chi, come il politico o chi sia comunque impegnato in una dimensione tecnico-pratica e dunque l’economista invece, movendosi nel quadro di un'etica della responsabilità, deve badare principalmente alle conseguenze dei diversi corsi di azione in cui si impegna (zweck –rational).
Dietro queste due diverse strategie si cela un diverso modo di considerare il rapporto mezzi - fini nella vita pratica (e che tanto interessa l’azione dell’homo hoeconomicus).
Le distinzioni potrebbero poi continuare.
Sono state presentate concezioni deontologiche dell'etica diversamente strutturate. Avremo così diversi tipi di etiche dei principi a seconda che pongano al loro centro uno o più principi, e a seconda che concepiscano tali principi o come assoluti e aprioristici o come ricavati dall'esperienza e in generale rivedibili.
È così chiaro che l'etica kantiana si presenta come un' etica deontologica che ruota intorno a un solo principio di fondo, assoluto e a priori, dato dall'imperativo categorico, e le diverse formulazioni offerte, dell'imperativo categorico, non presentano in realtà principi diversi.
Nel caso di alcune etiche del comando divino (come ad esempio l'etica cristiana o cattolica) vi è invece una tendenza a presentare come costitutivi della vita morale diversi principi tutti assoluti (i vari comandamenti divini o le norme che costituiscono la legge naturale).
Becchetti avrebbe dovuto, pertanto, fare chiarezza su quale sia la concezione etica presa a riferimento nel suo scritto.
Avrebbe dovuto inoltre, e questa è la seconda osservazione, soffermarsi maggiormente su come intende coniugare economia e filosofia laddove la seconda, come, scrive Aldo Masullo, si fonda su un “atteggiamento teoretico” non inerente ad alcuno scopo pratico naturale ossia non utilitaristicamente finalizzato anzi fondato sulla sospensione (epoché) volontaria di qualsiasi prassi al servizio della dimensione naturale.
Riflessione solamente teorica per per la filosofia, teorica ma anche pratica per l’economia.
Linguaggi diversi da armonizzare con riflessioni epistemologiche e approfondimenti dottrinali e non con una “battuta”.
Forse sono andato troppo oltre.
In conclusione si tratta di un libro interessante, pur presentando alcuni limiti che ho cercato di evidenziare, che permette di conoscere mrglio un nuovo approccio e un nuovo modo di interpretare l’economia tentando di trasformarla in un sapere più vicino alle vere necessità dell’uomo e al miglioramento della sua qualità di vita.
Maurizio Canauz
Settembre 2009

 


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LA FERITA DELL’ALTRO

Luigino Bruni

Il Margine, Trento 2007

Luigino Bruni (1), per chi ha avuto la fortuna di incontrarlo, risulta essere una persona estremamente gentile e appassionata del suo lavoro e delle sue idee.

In un mondo dove essere fingitori e opportunisti pare essere la regola Bruni sembra, al contrario, voler testimoniare le sue idee (e perché no, i suoi valori e la sua fede) sia attraverso la sua attività di docente universitario, sia attraverso una costante e incessante attività di conferenziere sia, infine, per mezzo di una prolifica attività di scrittore e saggista.

Tra le sue ultime fatiche voglio qui soffermarmi su La ferita dell’altro (ll Margine, pagine 212, euro 14). 

Prima di tutto un’avvertenza.

Chi si accosta a uno scritto come questo deve liberarsi da ogni rigido schematismo per seguire l’autore lasciandosi trasportare dalla corrente lungo il tragitto, a volte ripido, del suo ragionamento.

Il viaggio inizia da una considerazione: l’Altro (il prossimo) esiste ed è necessario al mio vivere (al mio essere), ma necessariamente è un limite alla mia volontà di possedere.

Non posso raggiungere la pienezza, la realizzazione di me se non entro in contatto con l’Altro ma questo contatto può essere foriero di dolore.

In una sua intervista Bruni afferma a tale proposito: «Ho preso spunto (per la realizzazione del libro N.d.R.) dall’immagine dello scontro tra l’Angelo e Giacobbe, nel libro della Genesi. Giacobbe combatte con l’Angelo, e viene ferito. Ma al tempo stesso chiede la benedizione al messaggero di Dio. Cosa significa per noi oggi? Che le relazioni umane sono dolore e benedizione allo stesso tempo. Cosa accade invece nella modernità? Vediamo che l’economia di mercato vorrebbe essere una promessa dove c’è solo la benedizione, senza la ferita. E invece il mercato sempre di più ci impedisce di entrare in contatto con l’altro. Con l’impresa burocratica, con le nuove tecnologie, non siamo più accanto all’altro: non ci facciamo male, non entriamo mai in uno scontro diretto. Ma così non riceviamo nessuna benedizione» (2).

Riecheggia qui, in forma laica, il concetto aristotelico per il quale nessun individuo può bastare a se stesso, ciascun individuo ha bisogno degli altri per sopravvivere e per essere felice.

Un concetto caro a Bruni che lo aveva già ampiamente espresso nel suo: L' economia la felicità e gli altri. Un'indagine su beni e benessere (Città Nuova, 2004).

Un concetto in apparenza quasi ovvio (così anche Zamagni nella sua recensione apparsa sull’Avvenire (3)) ma che in realtà non sempre e non da tutti viene sostenuto con lo stesso convincimento e che spesso noi stessi rifiutiamo nel nostro vivere quando pensiamo che la solitudine o i soli rapporti formali siano spesso meglio di un eccessivo coinvolgimento con coloro con i quali veniamo in contatto, sia nei nostri rapporti familiari e domestici sia soprattutto, in quelli lavorativi ed economici.

Anche da un punto di vista ideale, inoltre, non mancano e non sono mancati, pensatori che considerano l’uomo se non proprio anti-sociale almeno a-sociale, costretto a vivere con gli altri di cui però diffida (penso in particolare ad Hobbes ma anche per certi versi a Rousseau e a Nietzsche).

Lo stresso Bruni deve tuttavia ammettere, come ho in precedenza ricordato, che l’Altro non è solo benedizione ma è anche (o può essere anche) dolore e sofferenza.

Analizzando più da vicino il rapporto tra due (o più) soggetti Bruni sottolinea che esso può assumere diverse forme.

Esso può essere, infatti, di reciproca disponibilità, cioè di reciproco riconoscimento della singolarità personale, oppure di reciproca sfida (o minaccia).

Logicamente le conseguenze saranno diverse a seconda del modello di relazioni interpersonali che prevale.

Fino a questo punto il percorso ci tiene discosti dall’ambito economico.

Ma come in una commedia che prepara nel primo atto quanto avverrà nel secondo, Bruni prepara i concetti che dovrà utilizzare nel momento in cui deve affrontare l’aspetto economico, vero obiettivo del suo scritto.

A questo punto l’azzardo si fa più forte (fa quasi “scandalo” se si usa il termine nel senso del Vangelo).

Bruni cerca, infatti, di trasporre la dualità sofferenza-benedizione all’ambito propriamente economico.

Per farlo parte da una considerazione.

ll mercato, così come pensato da Adam Smith, ha fallito e sta fallendo sotto vari aspetti.

Tale fallimento, secondo Bruni, è da imputarsi sia ad alcuni aspetti teorici presenti nella concezione smithiana sia perché operativamente non è stato in grado di rispondere in modo soddisfacente alle necessità di benessere economico e di giustizia sociale espresse dalla società contemporanea.

Per quanto riguarda Smith il suo errore nasce dal convincimento secondo il quale il mercato sia l’unico luogo dove l’uomo può incontrare l’altro in modo anonimo e in una situazione di parità.

Scrive Bruni: «In sintesi, Smith ricorre alla mediazione del mercato (e in certo senso la inventa, quantomeno teoricamente) perché, a suo dire, la relazione non mediata è sinonimo di relazione incivile, feudale, asimmetrica e verticale. L'altro mi ferisce perché è un potente o un padrone che mi domina, perché non combatte alla pari con me. Il mercato, quindi, consente di evitare questa relazione immediata incivile e di costruirne una umanamente più alta. Quando il mendicante riesce a entrare nel negozio del macellaio con del denaro in mano, quando cioè riesce a scambiare alla pari con il venditore, quella relazione - proprio perché mediata dal mercato - è per Smith più umana rispetto alla relazione di dipendenza propria del mondo senza mercati.

Smith non nega, evidentemente, che nella vita privata ci possa essere una relazionalità immediata faccia a faccia, ma solo nella sfera privata appunto, nella famiglia e nelle ristretta cerchia di amici. Nella vita civile, mercato incluso (solo da questo punto di vista il mercato è, per Smith, civil society), è bene incontrarsi in modo anonimo perché l'altro con un volto non è un "fratello" come me, ma un superiore (o un inferiore).» (p.43)

A questo andrebbe poi aggiunto, secondo Bruni, un secondo aspetto erroneo nella concezione del mercato e delle relazioni tra uomini presente nel pensiero di Smith.

«Nella sua Theory of moral sentiments, Smith ci ricorda che: «La beneficenza è meno essenziale della giustizia per l'esistenza della società. La società può sussistere, sebbene non nel modo migliore, senza beneficenza; ma la prevalenza dell'ingiustizia la distrugge senz'altro». […]

Una tesi importante e apparentemente condivisibile, in realtà, in essa si nasconde un'insidia, rappresentata dall'idea che la società civile possa funzionare e svilupparsi anche senza gratuità (che può essere vista come un sinonimo di beneficence), ovvero che il contratto possa essere un buon sostituto del dono: una tesi, questa, che guadagna sempre più consenso oggi nella società globalizzata. Il dono e l'amicizia sono faccende importanti nella sfera privata, si dice, ma nel mercato e nella vita civile possiamo farne tranquillamente a meno;anzi, è bene farne a meno, proprio per la loro carica di dolore e di ferita, come abbiamo visto.» (pag.44)

Ma secondo Bruni è fin troppo evidente che l’idea di Smith sia smentita dalla solitudine e dall’infelicità presenti nella nostra società.

«Una società senza grautuità non è un luogo vivibile»

Tuttavia essa è stata costruita su queste fondamenta.

Proprio partendo da queste basi fallaci, infatti, nascono un mercato economico totalizzante e disumanizzante nonché una società civile incapace di essere felice e ingabbiata nel paradosso dell’infelicità opulenta. (pag. 139)

Deve, perciò, cercarsi una soluzione diversa a questi problemi, soluzione che si deve trovare al di fuori del mercato.

Si deve, allora, cambiare prospettiva.

Una prospettiva che non si basi più sui soli rapporti simmetrici, contrattuali ma secondo una logica fondata anche sul dono e la gratuità, sulla asimmetria dei ruoli.

Bruni cerca, quindi, di dare testimonianza concreta e non solo teorica della possibilità che  un tipo di economia come quella da lui pensata e proposta sia possibile (4).

Un’economia dell’asimmetria che si contrappone a quella del profitto.

Dove le imprese non recitano solo un ruolo di “accumulatori di ricchezza” ma abbiano anche un ruolo sociale.

Bruni critica a tale proposito la frase di Friedmann secondo cui: «L'idea che i manager e i dirigenti abbiano una “responsabilità sociale" che va oltre il servire gli interessi degli azionisti o quelli dei loro membri è andata guadagnando un ampio e crescente consenso. Una tale visione tradisce un fondamentale fraintendimento del carattere e della natura di una economia libera. In una tale economia, esiste una e una sola responsabilità d'impresa: usare le proprie risorse e impegnarsi in attività orientate all'aumento dei propri profitti nel rispetto delle regole del gioco, vale a dire impegnarsi in una concorrenza aperta e libera, senza inganno o frode».

Altro deve essere il ruolo dell’impresa capace di creare benessere anche per la società in cui opera superando la contrapposizione errata (o almeno insufficiente) tra economia e bene comune. (5)

Nasce, però, spontaneo domandarsi se una tale economia è valida e realizzabile anche per chi opera secondo valori diversi da quelli dell’autore.

E’, in altre parole, un sistema, una esperienza esportabile e generalizzabile anche al di fuori dell’ambito cattolico?

Si può ancora parlare di economia o siamo “salpati” verso un “nuovo mondo” basato su valori e regole diversi dal precedente? (6) 

Immane, ciclopica, improbabile (per non dire impossibile) mi sembra sia l’idea di convincere, in una società pluralista come la nostra basata su principi o non – principi spesso assai diversi se non proprio conflittuali tra loro, chi detiene le risorse e il potere che starebbe meglio (lui e il suo prossimo) se ci fosse maggiore distribuzione della ricchezza e un sistema economico basato non solo sul profitto ma (anche) su rapporti di dono e reciprocità.

Situazione questa che sarebbe assai diversa se ci fosse, al contrario, consenso e condivisione di valori e una visione maggiormente escatologica della vita. (7) 

Eppure, a conti fatti, qualcosa non mi convince del tutto nelle considerazioni molto affascinanti e coinvolgenti di Bruni.

Troppo forte è, infatti, il ronzare delle api di Mandeville (che proprio Bruni mi ha fatto ascoltare più attentamente durante una sua lezione) operanti nell’egoismo e troppo assordante il loro silenzio quando nell’alveare regna la virtù per non credere che economia ed etica non sempre vanno di pari passo.

O segui Dio o Mammona.

Aut – aut come sostiene Kierkegaard, non sono (almeno apparentemente) possibili compromessi. O doni la tua tunica o la vendi e a seconda del tuo comportamento ti poni dentro o fuori dell’economia classica.

Ma per donare la tua tunica, per amare il tuo prossimo come te stesso, per seguire, in altre parole gli insegnamenti del Vangelo, devi iniziare , necessariamente, dal credere in Dio.

Come scrive Zamagni nella sua recensione: «Ogni sguardo prospettico ha le sue radici. Bisogna pur sempre partire da un luogo per esplorare quanto si offre allo sguardo. Nessuno abita in nessun luogo.

Il carisma dell’unità del movimento dei focolari e l’esperienza aurorale dell’economia di comunione sono, per Bruni, questo luogo».

L’esperienza di Bruni impegnato fortemente in una scelta di vita non è però l’esperienza di molti lettori che seguendo altri percorsi e avendo esperienza di altri luoghi potranno avere difficoltà a ritrovarsi totalmente nei ragionamenti dell’autore (che pure ha per loro una attenzione particolare, cercando di rendere il suo argomentare valido per tutti, sostenendolo con ampie argomentazioni teoriche basate sempre sulla ragione e senza mai indugiare nel personale, nell’esperienziale o nell’irrazionale).

Un libro che nel suo complesso risulta, tuttavia e al di là di ogni dubbio, assai interessante, pieno di spunti di riflessione e di approfondimenti che nell’accettazione o nel rifiuto interroga il lettore.

Lo interroga non solo nella ragione ma anche nel cuore esemplificazione concreta della asserzione di Pascal: “Il cuore ha ragioni che la ragione non conosce… “. 

Maurizio Canauz (Luglio 2009)

 

NOTE 

(1) Luigino Bruni è professore Associato di Economia Politica, presso la Facoltà di Economia, Università di Milano-Bicocca.

Vicedirettore del centro interuniversitario di ricerca sull'etica d'impresa Econometica (www.econometica.it).

Vicedirettore del Centro interdisciplinare e Interdipartimentale CISEPS (http://ciseps.cilea.it/workshops.htm).

Direttore del Master "Economia civile e non-profit", Milano.

Co-editor della International Review of Economics (IREC).

Membro del comitato editoriale delle riviste: "Nuova Umanità", "Sophia" e "RES"Membro del comitato etico di Banca Etica.

Per ulteriori informazioni sulle sue pubblicazioni e sul suoi interessi di ricerca si rimanda a:

http://dipeco.economia.unimib.it/persone/bruni/brunihp/

(2) Tratto dall’intervista apparsa su "L'Adige" del 14 ottobre 2007 e ora sul sito :

http://www.trentoardente.it/tna/discorsi/Bruni_feritaltro_adige.htm

(3) S. Zamagni, “La nuova sfida cattolica: l’economia di mercato e quella della felicità” Avvenire, 10 gennaio 2008.

(4) Tra l’altro in questo sua “percorso” economico Bruni trova conforto nel pensiero italianissimo e forse un po’ troppo trascurato di Antonio Genovesi già allievo di Giambattista Vico, ed insegnante prima di Metafisica all'Università di Napoli e poi dal 1744 primo titolare, in Europa, di una cattedra di "commercio e meccanica" a cui era giunto perché accusato, per il suo pensiero filosofico, di ateismo e razionalismo.

(5) Contrapposizione che appare ancora più evidente e stridente se si considera che i mangers delle imprese operano in modo difforme e in base a principi diversi a seconda se agiscono per conto dell’impresa o personalmente.

Da qui nasce una netta distinzione tra impresa come istituzione economica (che ha come scopo la massimizzazione del profitto degli azionisti), e l'individuo che privatamente può essere generoso - es. la Microsoft (istituzione) promuove il bene pubblico vendendo i prodotti che il mercato richiede, Bill Gates (individuo- filantropo) lo promuove donando una parte della sua ricchezza ai paesi più poveri. Durante l'attività economica, però, non c'è spazio teorico perché l'imprenditore possa prefiggersi il Bene Comune come obiettivo della propria azione.

(6) Mi riferisco qui a un concetto espresso (tra l’altro) da Carl Schmitt giurista e filosofo politico tedesco che nel suo scritto: Terra e mare. Una riflessione sulla storia del mondo, (Adelphi, Milano, 2002) parlando della Repubblica di Venezia e della sua trasformazione durante il corso dei secoli afferma che tali furono i cambiamenti intercorsi nella struttura politica e sociale della città costrettavi per adattarsi alle modifiche dei commerci e del dominio dei mari che Venezia, pur sotto lo stesso nome, si trasformò fino ad essere totalmente altro da ciò che era originariamente.

Altro ed estranea totalmente, così come mi appare l’economia di Bruni rispetto all’economia classica dalla quale parte per la sua riflessione e con la quale si confronta (criticamente) puntualmente per quasi tutto il suo scritto.

(7) Per come sia necessaria una visione escatologica e cioè una  riflessione che si interroga sul destino ultimo dell'essere umano e dell'universo si rimanda a J. Guitton, Paolo Sesto segreto, San Paolo Edizioni, 2002.

Da questo libro emerge chiaramente che l'escatologia non è pura astrazione ma è strettamente legata al vivere presente in quanto le aspettative ultime dell'uomo (di solito legate alla vita oltre la morte) possono influenzare in modo significativo la sua visione del mondo e il suo comportamento quotidiano.

 

 

 


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COSTRUTTIVISMO E RIFLESSIVITA’
(a cura di) M. Colombo e A. Varani
con scritti di
P. Ardizzone, F. Benussi, M. Canauz, A. Carletti, P. Cattaneo, M. Colombo,
R. Dell’Oro, A. Garavaglia, A. Ostinelli, D. Valente, A. Varani.

Edizione Junior, Bergamo 2008

Molte persone avranno sicuramente incontrato nelle loro esperienze scolastiche qualche insegnante dotato di particolare carisma.
Insegnanti capaci di suscitare l’interesse nei discenti, di spingerli a volere imparare, ad essere curiosi di e del sapere.
Viceversa molti avranno incontrato insegnanti monotoni capaci di trasformare in pura noia anche gli argomenti più interessanti.
Che cosa rende un docente capace di suscitare interesse e di saper gestire gli avvenimenti quotidiani in classe sempre con prontezza mentre un altro risulta incapace di coordinare la classe lasciandosi travolgere dalle situazioni senza saperle amministrare?
Solo un fatto genetico?
Una particolare predisposizione strettamente legata all’individuo e impossibile da replicare?
Domande che aprono una serie di dubbi e che fanno riflettere anche sulla validità delle scuole che insegnano ad insegnare e alle quali molte teorie della conoscenza (anche di quelle che vanno per la maggiore) non danno risposte adeguate.
Prima, tuttavia, di giungere a rispondere alla domanda se si può insegnare ad insegnare o almeno aiutare l’insegnante a migliorare bisogna però chiedersi: cos’è l’insegnamento?
Secondo una definizione data da Fisher l’insegnamento è un “mestiere impossibile”.
La sua impossibilità deriverebbe dalla necessità per l’insegnante di agire con urgenza, decidere nell’incertezza, operare senza avere il tempo di meditare di fronte a problemi complessi, inediti, unici, spesso connotati da conflitti etici e valoriali.
Senza filosofeggiare eccessivamente non credo sia errato affermare che il passato e il futuro non hanno valore in sé in quanto, in realtà, essi esistono solo come funzioni del presente. Il passato rivive nel presente riveduto e rivalutato in base alle conoscenze attuali di un individuo; il futuro, non ancora accaduto, esiste solamente sotto forma di ipotesi fatte nel presente.
Possiamo immaginare, in una visione lineare del tempo, il tempo stesso rappresentato su una linea retta, dove il presente è una variabile che si può muovere verso sinistra (ma questa è solo una convenzione), verso il passato cioè, e in questo modo attua la funzione del RICORDARE, oppure si può muovere verso il futuro, verso destra, e in tal modo attua la funzione del PROGETTARE.
In effetti, ammesso che il tempo si possa rappresentare in modo lineare, per ogni istante dato esiste solo la funzione presente, che si può muovere in direzione di un tempo più o meno “passato” o più o meno “futuro”; è rarissimo il caso in cui la funzione presente sia tutta concentrata nell’istante presente: il presente è il punto-zero, sempre mutevole dei due opposti passato e futuro.
Ma proprio l’unicità del momento in cui si deve agire e della situazione vissuta (che nella sua singolarità è impossibile da rivivere) rende non sufficiente per chi la vive ricorrere alla pura esperienza acquisita o all’utilizzo di teorie o protocolli d’azione codificati.
Questo comporta o che si agisca senza riferimenti secondo l’estro del momento (o le proprie capacità innate) o che si costruisca in situazione una nuova conoscenza pratica.
Il concetto di conoscenza pratica è stato proposto ed elaborato da Donald Shon più di venticinque annI fa.
Come scrive Andrea Varani: «E’ una conoscenza contestualizzata, fatta di azioni, di linguaggi, di repertori, costruita insieme ad altri colleghi in una comunità di pratica.
Ma la pura esperienza non è sufficiente, per trasformarla in conoscenza consapevole, ci dice ancora Shon, occorre imparare a riflettere nell’azione e sull’azione.
Si configura quindi il profilo di un insegnante riflessivo, un insegnante ricercatore nell’ambito della pratica didattica e che solo nella scuola può trovare questo tipo di conoscenza.»
In questa direzione si orienta il volume curato da Maddalena Colombo, professoressa associata di Sociologia dei processi culturali presso la Facoltà di Scienze della formazione dell’Università Cattolica di Milano (1) e da Andrea Varani (2) nel quale si cerca di fornire un modello pedagogico di formazione degli insegnanti (estendibile, a parere dei curatori, anche ad altri ambiti formativi).
L’insegnante apprende e può migliorare nel suo agire solo imparando a riflettere sul suo comportamento, ma questa riflessione non può avvenire (solo) a posteriori ma può essere anche esercitata nel momento dell’azione stessa.
Come spesso avviene ciò che teoricamente appare possibile (se non proprio facile) diviene concretamente difficile (se non proprio impossibile).
Proprio per sfuggire a questa contrapposizione tra teoria e pratica il libro raccoglie oltre ad alcuni contributi teorici di esperti del settore (nella prima parte) anche una qualificata e nutrita serie di scritti di docenti (nella seconda parte) che descrivono e analizzano alcune delle loro esperienze maggiormente significative con riguardo al tema della riflessività, offrendo vari di spunti di meditazione su un mondo, come quello della formazione, alla continua ricerca di possibili progressi per riuscire a rendere migliore il processo educativo in una società variegata e complessa come quella attuale.
Le esperienze formative riportate nella seconda parte si riferiscono, soprattutto, alle attività realizzate nelle Scuole di Specializzazione per l’Insegnamento Secondario aventi come scopo principale il tentativo di sviluppare le capacità e la sensibilità riflessiva dei nuovi docenti.
Di queste esperienze si sottolineano gli aspetti teorici ma, principalmente, si forniscono modelli di intervento, spunti operativi e proposte di attività (schede-laboratorio) sui temi dell’osservazione, della scrittura autobiografica, della comunità di apprendimento, degli ambienti virtuali.
Può, ad esempio, la scrittura autobiografica aiutare il docente nel suo percorso formativo – riflessivo?
Le comunità virtuali aiutano i docenti a sviluppare la capacità riflessiva?
Domande a cui il libro cerca di dare delle risposte che appaiono spesso convincenti.
Scavando un po’ più a fondo alla ricerca delle linee guida che trasversamlmente attraversano gli scritti del libro mi sembra che in molte parti, soprattutto quando si approfondiscono percorsi ed esperienze collegiali verso l’acquisizione di una maggiore riflessività, riecheggi l’idea costruttivista già sostenuta da von Glasersfeld, secondo cui l’apprendimento è sempre frutto di un lavoro di costruzione avente l’obiettivo di elaborare azioni e concetti viabili, cioè appropriati ai contesti in cui vengono usati, e non di scoprire una realtà ontologica di cui produrre copie o immagini mentali.
Idea questa che si trova oggi sempre più legata a quella di apprendimento come processo dialogico, sociale e culturale, di creazione ed elaborazione congiunta di significati, in cui il singolo, in quanto facente parte di un gruppo, riceve sostegno motivazione all’interno della sua “zona di sviluppo prossimale” ( concetto introdotto e sviluppato da Vygotskij).
Da alcuni contributi emerge chiara l’idea che l’apprendimento e l’intelligenza non sono titolarità esclusiva del singolo individuo che apprende, ma emergono piuttosto dall’interazione sociale in cui gruppi di individui intrattengono rapporti di natura collaborativa finalizzati alla costruzione di conoscenze comuni e condivise (in questo senso mi piace ricordare il contributo di Doris Valente).

Passando ad un discorso più generale ritengo che le raccolte di saggi, che pure hanno un tratto comune nel tema affrontato, presentino alcuni vantaggi e alcuni svantaggi per il lettore.
Da un lato il materiale presentato è assai vario e consente di affrontare temi assai complessi da diversi punti di vista basandosi su un amplissimo patrimonio di esperienze e conoscenze.
Dall’altro lato proprio l’alternarsi di stili e di riferimenti metodologici, spesso non totalmente comuni, rendono la lettura non sempre agevole e a tratti frammentaria.
Perché la lettura sia utile e non dispersiva diviene, pertanto, necessario che il lettore abbia buone capacità di flessibilità e duttilità nonché una discreta nozione dell’argomento nel suo insieme per poter seguire, senza pregiudizi e preconcetti, i diversi (interessanti) spunti offerti da queste miscellanee.

Nello specifico dello scritto di cui qui si tratta, il lavoro dei curatori cerca di ovviare ad una eccessiva disomogeneità, che avrebbe potuto caratterizarlo vista la ricercata eterogeneità dei contesti a cui le esperienze fanno riferimento, rendendo il più coerente possibile l’insieme dei contributi che lo compongono nel tentativo di offrire un florilegio di saggi che approfondiscano il tema della riflessività del docente senza che i testi nel loro insieme siano mai scontati o banali.

Libro quindi che risulta essere utile e piacevole ma che mi pare sia soprattutto indicato per gli addetti ai lavori che possono meglio “gustarlo” traendone diverse ispirazioni su cui riflettere, magari riutilizzandole nella pratica quotidiana e un po’ meno per chi inizia a muovere i primi passi nel campo dell’insegnamento.

Per tutti i lettori comunque avrebbe, a mio parere, potuto essere interessante e utile aggiungere una appendice informatica.
Un luogo virtuale dove approfondire gli argomenti trovati più interesanti, dove scambiare, magari anche con gli autori, esperienze, critiche, riscontri di quanto scritto.
Un’occasione per creare una comunità virtuale e per dimostrare praticamente come essa sia luogo per imparare e soprattutto per imparare a riflettere.

Un’ultima doverosa annotazione.
Alla realizzazione del libro hanno contribuito, riportando interessanti esperienze maturate negli anni di insegnamento come docenti e supervisori Silsils, anche alcune socie AEEE quali: Doris Valente e Riccarda Dell’Oro, non nuove alle pubblicazioni di stimolanti e pregevoli contributi sulla didattica e non solo. Maurizio Canauz (Giugno 2009)

NOTE
(1) Maddalena Colombo non è nuova alla tematica della riflessività intesa come capacità del pensiero di trarre conseguenze dall’oggetto del suo pensare in ambito educativo.
Nel 2005 per i tipi di Vita e Pensiero ha curato una interessante volume dal titolo: Riflessività e creatività nelle professioni educative
Si tratta di una raccolta di saggi che in una prospettiva multidisciplinare (sociologica e pedagogica) analizza la figura del professionista riflessivo nell’ambito educativo (docenti, educatori per l’infanzia, educatori professionali, formatori aziendali, coordinatori di risorse umane, valutatori della formazione), alla luce dei cambiamenti attuali (globalizzazione, decentramento e riforma scolastica) in Italia e in tre paesi europei: Gran Bretagna, Belgio, Norvegia.
La Professoressa Colombo, a tale proposito, analizza nel suo contributo “La socializzazione degli insegnanti in Italia” (approfondibile tra l’altro leggendo un articolo apparso sulla rivista: Pragma Rivista dell’Istruzione Superiore, anno XI - N° 29 dicembre 2006 , e consultabile sul sito http://www.rivistapragma.it/pragma/ventinove/04.HTM) le difficoltà dei docenti che devono operare in una scuola attraversata da numerose e spesso ambivalenti correnti di mutamento che provocano attese e contemporaneamente frustrazioni negli attori istituzionali e nel pubblico (inteso sia come studenti sia come genitori).
Tuttavia l’autrice sostiene che, quali che siano le motivazioni che lo hanno spinto verso l’insegnamento il docente non deve lasciarsi sopraffare dalle difficoltà ma deve cercare un costante miglioramento delle proprie performance, magari iniziando a riflettere sul proprio agire come suggerisce il libro con i mezzi adeguati e ponendosi in modo diverso verso l’organizzazione in cui opera e che dovrebbe essere nel contempo oggetto di trasformazione.
Da quanto si può evincere dal libro il nuovo “attore sociale della formazione” sia esso legato alla scuola, sia esso legato ad altri ambiti formativi è, o meglio dovrebbe essere, un professionista riflessivo che adotta metodi, tecniche, approcci specifici per applicare la riflessività all’esperienza e al proprio pensare, trasformando il rapporto con il cliente/utente della formazione nel senso della reciprocità e dello scambio dinamico tra identità in costruzione.
Tutto ciò però non può (non potrebbe avvenire) all’interno di organizzazioni rigide e fortemente prescrittive.
L’insegnante/formatore riflessivo necessita, infatti, per poter operare al meglio di modificare il rapporto con le organizzazioni di cui fa parte, soprattutto con un ampliamento dei margini di creatività nella scelta dei linguaggi da usare, dei codici interpretativi e delle regole.

• (A cura di ) M. Colombo, Riflessività e creatività nelle professioni educative. Vita e pensiero, Milano 2005 - Pagine 240 - Euro 17,00.

(2) Andrea Varani si è occupato spesso nei suo scritti di formazione scolastica e di formazione dei docenti sempre facendo riferimento al quadro teorico costruttivista.
Al costruttivismo però Varani non aderisce in modo acritico o fideista, ma cerca sempre di considerarlo una teoria (o un insieme di teorie) che al momento, meglio di altre, permette di ripensare la didattica a fronte di una sempre maggiore complessità del “fare” scuola.
Continui sono i suoi approfondimenti in tal senso e continua è la verifica, anche sul campo, della bontà della teoria.
Di conseguenza spesso i suoi libri non si fermano solo all’aspetto teorico ma cercano sempre di coniugarlo con i dati e le verifiche che gli provengono da una esperienza pluridecennale nell’insegnamento nelle scuole secondarie superiori.
Tutto questo tenendo sempre presente che ogni singola classe è unica, essendo il risultato di situazioni, esperienze e caratteristiche diverse.
Proprio l’unicità delle situazioni, l’ampio spettro da analizzare lo hanno portato spesso a curare opere collettive che consentano di mostrare, in ambiti e contesti differenti e con differenti attori, l’applicazione pratica (con pregi e difetti) delle teorie da lui proposte.
Fra le ultime ricordo:
• Carletti A. e Varani A., Didattica costruttivista. Dalle teorie alla pratica in classe, Erickson; Trento, 2005.
• Carletti A. e Varani A., Ambienti di apprendimento e nuove tecnologie. Nuove applicazioni della didattica costruttivista nella scuola, Erickson, Trento 2007.

Per una più approfondita disamina di alcuni suoi scritti e per un approfondimento del suo pensiero si rimanda al sito IL COSTRUTTIVISMO E LA DIDATTICA nella sezione Pubblicazioni.
(http://www.costruttivismoedidattica.it/pubblicazioni/pubblicazioni.htm)
 


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Possibilità economiche per i nostri nipoti»
di John Maynard Keynes
Adelphi, euro 5,50, pp. 52

I SOGNI DI UN ECONOMISTA MOLTO CONCRETO

Nel 1928 Keynes lesse agli studenti del Winchester College e in seguito a Cambridge un breve saggio[i] pubblicato due anni dopo. Erano trascorsi solo pochi anni[ii] da quando aveva invano esortato i governanti europei affinché ripensassero alle dure condizioni di pace che gli stessi avevano imposto alla Germania dopo il primo conflitto mondiale (dando prova di una miopia politica tanto rara quanto foriera di nefande conseguenze).  Parzialmente abbandonati i panni da economista, sempre attento e preciso, Keynes veste panni più comodi ma non meno degni di rispetto: quelli del sognatore.

Un sognatore capace di sperare in un futuro migliore (orario di lavoro ridotto, disinteresse per il denaro[iii]) ma, al tempo stesso in grado di esaminare lucidamente, e serenamente la realtà sociale del suo tempo. Un aspetto colpisce sin dalle prime pagine: anche quando sogna resta un economista unico nel suo genere. Il suo stile, la sua vivacità appartengono molto più al mondo dell’arte, della poesia che all’universo economico mediamente poco incline a considerarli degni di nota.

A onor del vero l’avverbio “mediamente” certo contrasta con la personalità di Keynes!

Perché queste poche pagine dovrebbero essere lette in tutti i corsi di economia delle superiori?

La risposta è semplice: riassumono con chirurgica precisione il pensiero economico e politico dell’intero Novecento; e, per essere chiari, sono state scritte all’inizio del secolo appena trascorso.

Leggendo il saggio è continuamente possibile operare un raffronto con la realtà attuale, la comparazione ha  tratti sbalorditivi.

Cosa caratterizzava la realtà economica europea del primo Novecento?

Il primi decenni del secolo breve[iv] sono contrassegnati per Keynes da un “pessimismo economico” che l’autore definisce “particolarmente virulento”; già nell’introduzione si legge: “È opinione comune… che l’enorme progresso economico che ha segnato l’Ottocento sia finito per sempre; che il rapido miglioramento del tenore di vita abbia imboccato … una parabola discendente; e che per il prossimo decennio ci si debba aspettare non un incremento ma un declino della prosperità[v]”. Il confronto con la congiuntura economica attuale è immediato e drammaticamente evidente. Sorprendente l’abilità dell’economista di Cambridge di sdrammatizzare: dopo poche righe afferma, parlando della situazione economica del suo tempo: “Scambiamo per reumatismi quelli che in realtà sono disturbi della crescita, e in particolare di una crescita troppo veloce[vi]”.

La velocità è alla base di questo scritto.

Il progresso di fine Ottocento è stato così repentino, così inaspettatamente dirompente, così immediatamente applicabile al vivere quotidiano da lasciare sbalorditi; dalla fine del XIX secolo le immutabili conoscenze scientifiche in diversi campi del sapere sono state stravolte:

  • in medicina grazie alla scoperta dei “raggi X” si compiono passi da gigante nelle diagnosi;
  • in chimica  si assiste a una vera e propria rivoluzione grazie a uomini come Louis Pasteur;
  • in ingegneria si raggiungono ambiti di applicazione sino a qualche decennio prima impensabili, ne è un esempio la Tuor Eiffel;

Parigi è la sede nel 1900 dell’Esposizione Universale che accoglierà 50 milioni di visitatori ed offrirà loro servizi esclusivi: il cinematografo e la metropolitana.

Tutto questo ha indubbiamente modificato la vita umana.

Del resto anche noi abitanti del XXI secolo possiamo affermare lo stesso; quante scoperte, quante invenzioni hanno in pochi anni stravolto il nostro modus vivendi (pensiamo al cellulare, al lettore mp3, alle tecniche di diagnostica sempre più evolute e ultima, ma non ultima, all’e-mail).

Quell’incredibile progresso portò l’uomo dell’inizio del Novecento ad un pessimismo quasi leopardiano. Perché?

Keynes sostiene che la velocità con la quale il sistema economico progredì non permise un contestuale riassorbimento della forza lavoro, e la disoccupazione produsse una sorta di scoramento collettivo. La decisione delle autorità bancarie di abbassare i tassi di interesse, in misura inferiore a quella auspicata, provocò una drastica caduta degli investimenti e questo si ripercosse negativamente sul mercato.

In queste pagine Keynes affronta un tema a lui caro: la conseguenza che una scelta è in grado di provocare sugli operatori economici. Solo tre anni dopo, a Chicago, durante le “tre celebri conferenze” volte a spiegare il perché del crollo di Wall Street egli affermerà, tra  molte importanti argute osservazioni, che, ad un certo punto,  nella primavera del 1929 in America si verificò una brusca caduta degli investimenti. La causa di questa tendenza negativa è per l’economista dovuta al fatto che in quel momento il saggio di profitto atteso (quanto gli imprenditori sperano di ricavare da una somma di denaro presa a prestito) degli imprenditori risultò inferiore al tasso di interesse (quanto effettivamente costa agli imprenditori prelevare dalle banche tale somma a prestito). La ragione di questa diversità è imputabile all’ottimismo. L’ottimismo, come criterio o termine di paragone, non è misurabile, non appartiene al campo delle scienze esatte, esula o meglio esulava dall’economica; esso trovava sicuramente ospitalità nella psicologia.

Qui sta la grande intuizione di Keynes: introdurre la psicologia nella scienza economica, l’homo economicus tanto caro ai classici non solo non esiste ma è forviante, o meglio dannoso per l’economia.

Come mai questa digressione sul pensiero di keynesiano?

Perché quanto appena detto è già in nuce contenuto nel breve saggio oggetto del presente lavoro; in ogni pagina  è presente un’ analisi psico-sociale degli avvenimenti economici dell’epoca, una dettagliata rendicontazione del comportamento umano.

L’uomo per essere felice dovrà abiurare il credo che per molti anni la ha reso più o meno inconsciamente schiavo: “la determinazione”.

È lo stesso Keynes a definire tale religione: “La determinazione è ciò che ci spinge a considerare il risultato delle nostre azioni in un futuro più o meno lontano, e a trascurare la loro qualità o i loro effetti immediati sull’ambiente che ci circonda[vii]”. Per dirla con una metafora moderna noi abbiamo esasperato la favola della cicala e della formica, in sintesi: fa bene patire un poco per gioire in futuro ma è folle per gioire in un futuro così lontano da non essere raggiungibile continuare a patire per tutta la vita!

Egli affermerà che la “Teoria dell’interesse composto” ha influenzato (forse funestamente) l’uomo in ogni suo ambito esistenziale (pensiamo solamente a quello religioso: mi astengo dai piaceri terreni per godere, post mortem di quelli ultraterreni) condizionandone la vita. Trovo sconvolgente l’affermazione:”il male è bene perché il male è utile e il bene no[viii]!” ma, se penso alla nostra realtà non posso che ammettere quanto Keynes sia stato profetico.

Alla fine dello scritto Keynes sostiene che per raggiungere lo “Stato di Beatitudine” (la società del domani …… che avrebbe dovuto essere la nostra … sic!) l’uomo dovrà soddisfare alcune condizioni:

  1. controllare l’aumento della popolazione;
  2. evitare guerre e tensioni sociali;
  3. affidare alla scienza il governo di ciò che propriamente le compete (affermazione quanto mai attuale!).

Ĕ ovvio che i tre punti non siano stati realizzati e, a tal proposito, è facile affermare che il vaticinio keynesiano non sia andato a buon fine. Se si pensa che tutto questo è stato decretato nel 1928 è lecito provare inquietudine, smarrimento: il tempo passa, il mondo cambia ma l’uomo resta tragicamente ancorato alle sue paure e ai suoi errori e questo insegnamento è sin troppo attuale. (a cura di Claudio Luigi Buttinoni)


[i] John Maynard Keynes, Essays in Persuasion, New York: W.W. Norton & Co., 1963, pp. 358-373, Traduzione Italiana in: John Maynard Keynes “Possibilità economiche per i nostri nipoti seguito da Guido Rossi “Possibilità economiche per i nostri nipoti?” Milano: Adelphi, 2009, pp. 11-30.

[ii] Si veda: “Le conseguenze economiche della Pace” ed. Adelphi, 2007

[iii] Keynes dirà a proposito del capitalismo: “Il decadente capitalismo internazionale nelle cui mani siamo caduti non è un successo. Non è intelligente, non è bello, non è giusto, non è virtuoso e non fornisce nessun bene”. Affermazione apparsa sulla rivista economica britannica “The New Statesman and the Nation” dell’8-15 luglio del 1933.

[iv] La citazione è tratta dal libro: “Il secolo breve” di Eric Hobsbawm.

[v] Si veda: “Le conseguenze economiche per i nostri nipoti” ed. Adelphi, 2009, pp. 11

[vi] Se veda nota 4.

[vii] Si veda nota 4

[viii] Si veda nota 4

 

 


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L’ECONOMIA SOCIALE DI MERCATO
di FLAVIO FELICE,
RUBBETTINO Editore,
Soveria Mannelli, 2008

Nei momenti più tormentati si è soliti riflettere più attentamente e in modo più critico sulla realtà per cercare nuove o vecchie soluzioni (precedentemente accantonate) che possano permettere di risolvere le questioni (o almeno alcune di esse) che ci impediscono una vita sociale se non totalmente soddisfacente almeno tranquilla.
Sicuramente l’economia ha, per molti, una importanza strategica nella risoluzione dei problemi e quindi è logico che si cerchi in essa risposte, non solo teoriche ma anche pratiche, su come si deve agire e come deve essere modificato il contesto in cui operiamo.
Non è strano, pertanto, che di fronte alla crisi finanziaria globale che sta investendo anche l'Italia e ai piani di intervento pubblico per immettere liquidità sul mercato, ci si interroghi sempre più sul rapporto tra politica ed economia e sull'attualità e la validità dell’economia sociale di mercato per uscire dall'impasse venutasi a creare.
Torna così attuale il problema di quale deve essere il sistema economico da privilegiare e di conseguenza quale deve essere il rapporto tra cittadino e Stato e il ruolo dello Stato in economia.
Flavio Felice, professore straordinario di “Dottrine Economiche e Politiche” alla Pontificia Università Lateranense, di “Filosofia dell’impresa” alla LUISS Guido Carli di Roma nonché visiting professor all’Università Cattolica di Argentina di Buenos Aires, all’Università Sedes Sapientiae di Lima (Perù) e alla Catholic University of America di Washington D.C. (USA), cerca di ricostruire, in questo agile saggio, il pensiero di chi nella Germania degli anni quaranta provò ad elaborare una via che coniugasse la libertà di mercato con la giustizia sociale cercando una possibile armonizzazione tra questi principi apparentemente in contrasto tra loro.
Questo gruppo di pensatori ed economisti assunse il nome di Scuola di Friburgo e la filosofia che la ispirava venne chiamata "ordoliberalismo", dal titolo della rivista "Ordo", fondata da Eucken nel 1940.
Gli ordoliberilisti sostennero da subito posizioni decisamente più critiche di Adam Smith rispetto alla fede in una spontanea armonia che sarebbe dovuta scaturire dall'opera della "mano invisibile".
Il mercato non era perfetto e difficilmente era pensabile che lo sarebbe mai diventato.
Troppo forti erano le ingerenze di gruppi di pressioni e potentati economici che avrebbero facilmente distorto in senso oligopolistico e monopolistico il mercato con tutte le inefficienze allocative e distributive conseguenti.
Proprio per questo gli ordoliberali, cercarono di rafforzare il ruolo della politica come arbitro della lotta economica.
Come ricorda Felice, infatti, essi hanno sostenuto l'idea che il sistema economico per esprimere al meglio le proprie funzioni produttive-allocative dovrebbe operare in conformità con una “costituzione economica” che lo Stato stesso pone in essere.
In realtà si tratta di una visione politico-economica che non ha nulla a che vedere con la pianificazione economica centralizzata o con una politica statale interventista.
Centrale, infatti, per la teoria ordoliberale rimane sempre e soltanto il libero il mercato.
Il mercato come sistema di relazioni che necessita però di essere organizzato giuridicamente dallo stato.
Organizzazione giuridica che non deve però, beninteso, modificare i risultati che provengono dai processi di mercato.
Lo Stato come arbitro forte che sa e può imporre il rispetto delle regole ma che non assurge mai al ruolo di giocatore o tanto meno di allenatore che detta i comportamenti degli attori in campo.
In questa prospettiva, gli ordoliberali, nell'ambito delle politiche economiche internazionali, si espressero a favore delle liberalizzazioni degli scambi e, di conseguenza, avversarono tutte quelle politiche creditizie e fiscali che a loro avviso avrebbero potuto incentivare le concentrazioni di capitale.
Per quanto riguardava la politica economica interna, invece, si mostrarono estremamente scettici nei confronti dell'interventismo di stato nel campo sociale ed evidenziarono gli effetti deresponsabilizzanti sulla condotta individuale di un atteggiamento paternalistico da parte dello stato.
In altre parole se lo Stato pensa a tutti gli interventi umanitari e di sostegno per i più sfortunati, i singoli smettono di occuparsene e perdono quella tensione etica che dovrebbe sempre ispirare le loro azioni (posizione questa se vogliamo non dissimile a quella di altri sostenitori dello Stato minimo in un mondo dominato dal mercato e dai rapporti tra i singoli come ad esempio Robert Nozick nel suo celebre: Anarchia, Stato ed Utopia.)
Felice, una volta tratteggiati gli aspetti comuni della scuola di Friburgo, passa quindi ad approfondire il pensiero di alcuni dei principali esponenti di questa scuola quali: Luydwig Eucken e Wilhelm Röpke.
Fino a questo punto il libro sembrerebbe avere una connotazione prevalentemente storico – teorica, legata ad un preciso periodo temporale e un luogo specifico: la Germania.
Ma così non è.
Nel suo percorso Felice, infatti, mostra come questa teoria abbia influenzato anche gli altri Paesi.
L’autore mostra in particolare come esso sia stato recepito in Italia.
Secondo l’autore, infatti, l’ordoliberismo non ha avuto solo rilevanza per la Germania ma nel tempo ha influenzato profondamente anche ampi settori della cultura economica e politica italiana, fino almeno alla seconda metà degli anni Settanta.
Tale influenza non si nota però nella nostra Costituzione.
L’Assemblea Costituente, infatti si ispirò ad altri principi e ad altri valori.
A testimoniarlo, spiega l'autore del libro, è la Costituzione economica che ne derivò, oscillante tra “una sorta di neocorporativismo” ed “un larvato dirigismo” e profondamente diffidente nei confronti del mercato.
«Erano anni in cui nessuno avrebbe messo in discussione il modello delle Partecipazioni Sociali, e in tempo di smisurato ottimismo, dovuto alla speranza di crescita del secondo dopoguerra, le cautele e i timori 'ordoliberali' di burocratizzazione, di monopolizzazione dei servizi sociali e le ricette antistataliste a favore del principio di libera concorrenza apparivano come un’inutile zavorra che avrebbe inevitabilmente rallentato il ciclo economico positivo innestato dalla ricostruzione».
Dallo scontro interno alla Democrazia Cristiana tra la visione economica sostenuta da Dossetti, La Pira e Fanfani più legata all’intervento dello Stato e quella più liberale sostenuta da Alcide De Gasperi e don Luigi Sturzo, secondo cui «nessun principio guida per la politica è migliore di quello liberale», prevalse decisamente la prima e questo ebbe una decisa influenza sul testo della Costituzione.
Fedele alla sua concezione liberale dell’economia, Felice se ne rammarica considerando le scelte fatte dai costituenti non corrette per il benessere della nazione e contrarie alle scelte economiche europee come la storia avrebbe (a suo parere) dimostrato.
Una storia in cui l’Europa si farà portatrice di divieti e di vincoli in direzione contraria a quella presa dai costituenti italiani.
All’interno della ricezione del pensiero ordoliberale in Italia, Felice dedica infine alcune pagine alle riflessioni di don Luigi Sturzo.
Per Sturzo, ricorda l'autore citando un articolo del sacerdote apparso il 29 dicembre del 1957 su “Il Giornale d'Italia”, nessuna forma di “solidarismo” appare “praticabile, dove emerge la coesistenza di “statalismo” ed “economia di mercato”, mentre una politica orientata alla solidarietà sarebbe possibile solo lì dove il “mercato libero” convive con una politica statale di “cooperazione”' e di “occasionale” e “più o meno concordato intervento”.
Fiducia quindi, per il sacerdote, nel mercato come luogo dello sviluppo e della crescita (nonché della solidarietà) e non degli egoismi personali.
Il lettore si potrà chiedere quanto questa filosofia e la sua conseguente teoria economica possano essere ancora attuali.
Quanto il libro possa essere utile per interpretare la realtà e quanto sia solo la riproposizione attenta e puntuale di un pensiero economico e filosofico importante ma minoritario.
Per quanto riguarda il primo aspetto credo che il testo possa aiutare a far luce sulle difficoltà dei politici cattolici di trovare una posizione unitaria in economia.
Le posizioni dossettiane e fanfaniane, come quelle sturziane e degasperiane rivivono ancor oggi in chi sostiene la necessità di un intervento statale in questo periodo di crisi e chi al contrario crede che il mercato debba essere aiutato e disciplinato ma non soffocato dall’intervento pubblico.
Tra questi ultimi va annoverato il Ministro Tremonti che proprio all’economia di mercato ha dedicato la Prolusione tenuta all’Università Cattolica del Sacro Cuore in occasione dell’inaugurazione dell’A.A. 2008-2009.
(Per il testo del discorso si rimanda a http://www.cattolici-liberali.com/idee/EconomiaSocialeDiMercatoTremonti.aspx) .
Di fatto quindi una lettura che, partendo da un lontano passato attraverso una precisa ricostruzione storica, arriva al presente nel quale le idee ordoliberali sembrano avere ancora un importante riflesso sulla cultura politica attuale (anche se non sempre convenientemente conosciute).
Una lettura dunque interessante per conoscere (meglio) una ulteriore concezione economica (non sempre adeguatamente propagandata) che cerca di posizionarsi tra il dirigismo e il mercato tout court.
Una via possibile e realizzabile?
Al lettore la risposta (a cura di Maurizio Canauz)

 


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GLOBALIZZAZIONE DELLA POVERTA’ E NUOVO ORDINE MONDIALE
di Michel Chossudovsky
EGA
Torino 2003

Ci sono dei libri che tranquillizzano il lettore, altri che lo incuriosiscono altri che tendono a preoccuparlo.

Infine vi sono libri che definirei”apocalittici”, che dipingono il mondo in cui viviamo a tinte estremamente fosche.

Basta leggere alcune frasi di questo libro per comprendere a quale categoria può essere ascritto.

"Dalla pubblicazione della prima edizione (1) - scrive l’autore, Michel Chossudovsky(2) - il mondo è cambiato drammaticamente;la “globalizzazione della povertà” ha allungato le mani su tutte le principali regioni del mondo, incluse l'Europa occidentale e il Nord America. Un Nuovo ordine mondiale è stato instaurato, in deroga alla sovranità nazionale e ai diritti dei cittadini". Esso "si alimenta della povertà umana e della distruzione dell'ambiente naturale" e "genera l'apartheid sociale, incoraggia razzismo e conflitti etnici, lede i diritti delle donne e spesso fa precipitare le nazioni in distruttivi conflitti etnici".

Realismo o pessimismo?
Chossudovsky cerca di sostenere le sue premesse con un’analisi a trecentosessanta gradi della situazione economica del mondo.  

"Le nuove regole – scrive Chossudovsky - dell'Organizzazione mondiale del commercio (OMC o WTO), nata nel 1995, garantiscono “diritti ben radicati” alle banche più grandi del mondo e alle multinazionali. I debiti pubblici sono saliti a spirale, le istituzioni statali sono crollate e l'accumulazione di ricchezze private è aumentata incessantemente". 

I governi di tutto il mondo hanno abbracciato inequivocabilmente l'agenda politica del neoliberalismo. Le stesse cure economiche sono applicate in tutti i paesi. Sotto la giurisdizione del FMI, della Banca Mondiale e dell'OMC, le riforme creano un “ambiente favorevole” per le banche globali e le società multinazionali. Questo, tuttavia, non è un sistema di mercato “libero”: sostenuto dalla retorica neoliberista, il cosiddetto “programma di aggiustamento strutturale” sponsorizzato dalle istituzioni di Bretton Woods costituisce un nuovo modello di interventismo.
Il debito per Chossudovsky diviene di fatto uno strumento di dominio da parte dei Paesi creditori e soprattutto delle istituzioni finanziarie internazionali, attraverso il quale esse sono in grado di imporre linee di politica economica di stampo neoliberista. I paesi debitori, nei primi anni Ottanta, furono di fatto, secondo l’autore, obbligati ad attuare le riforme economiche decise dal Fondo e dalla Banca per poter accedere a nuovi finanziamenti e agli accordi di riscadenziamento.
In sintesi le riforme consistevano ( consistono) nella liberalizzazione completa del mercato interno, attraverso l’eliminazione di tutte le eventuali forme di protezione; nella svalutazione della moneta locale e nella riduzione ai minimi termini della spesa pubblic
a

Gli esempi non mancano e vanno dall’Africa subsahariana, al Sud Est asiatico, dall’America Latina (con particolare attenzione al Brasile) all’ex Unione Sovietica e ai Balcani.

Chossudovsky racconta, spesso con dovizia di particolari, per ogni Paese la situazione iniziale, l’intervento degli organismi internazionali e il risultato degli interventi.

Se, come è logico, il punto di partenza e l’evoluzione differiscono di caso in caso a seconda del contesto in cui gli interventi operano e hanno operato di fatto la situazione finale è simile per tutti i Paesi e per i loro abitanti.

Disoccupazione, fame, crisi sociale e politica (spesso legata a casi di corruzione). Chossudovsky non si fa scrupoli di indicare il colpevole di questa situazione.

Come spesso avviene nei libri di spionaggio e di complotti internazionali il colpevole sta in stanze lontane, in uffici arredati con gusto, tra quadri e soprammobili preziosi.

Il colpevole o meglio i colpevoli, di questa situazione sono i banchieri di Wall Street e i capi dei maggiori conglomerati multinazionali.

 

Essi si incontrano continuamente con i funzionari del FMI, della Banca Mondiale e dell'OMC in riunioni riservate e in numerosi convegni pubblici; a queste consultazioni sono presenti anche rappresentanti di potenti lobby d'affari globali, tra cui la Camera di commercio internazionale (ICC), il Dialogo transatlantico economico (TABD, che ogni anno raduna nei suoi convegni i dirigenti dei più grandi centri d'affari occidentali con politici e funzionari dell'OMC), il Consiglio degli Stati Uniti per gli affari internazionali (USCIB), il Forum economico mondiale di Davos, l'Istituto finanziario internazionale (IFI) con sede a Washington, che rappresenta le più grandi banche e istituti finanziari del mondo, ecc.”

 Solo  uno spot o una invettiva contro alcune elites?

Pura demagogia?

Chossudovsky non tergiversa e coerente con la sua tesi sottolinea, con nomi e cognomi, gli  intrecci tra pubblico e privato, tra economia e politica a cui  quasi tutti gli Stati (qualsiasi sia il loro orientamento politico ed economico ) non riescono sottrarsi.

Intrecci che allontanano radicalmente il sistema economico da quel mercato perfetto postulato dai teorici classici del liberalismo.

Nel dettaglio l’autore sottolinea come certi principi economici, come quello del vantaggio comparato, alla prova dei fatti (e per ammissione degli stessi organicismi mondiali), falliscono portando carestia e morte.

Tuttavia nessuno (soprattutto tra gli economisti e i finanzieri che reggono in questo momento le redini del potere) sembra intenzionato a modificare la “rotta” anche se l’iceberg si avvicina pericolosamente al bastimento di cui tutti noi, volenti o nolenti, siamo passeggeri,

Non si modifica la rotta sostenendo che le scelte fatte sono le migliori possibili e ben peggiore sarebbe la situazione se ne fossero state fatte di diverse.

Tuttavia, se si da credito alle parole e ai dati riportati da Chossudovsky pensare a situazioni peggiori di quelle  in cui versano gli Stati dove si sono avuti gli interventi del FMI comporta un vero impegno di fantasia.

Il libro di Chossudovsky è ben congegnato e segue una logica, apparentemente, di buon senso.
Ciò che tuttavia rimane sempre sullo sfondo è il motivo dell’indebitamento da parte degli Stati e la sua crescita esponenziale.

Nulla si dice, ad esempio delle origini dell’indebitamento estero dei Paesi in via di sviluppo.
Origine che come si sa è individuabile alla fine degli anni Sessanta, quando iniziarono a manifestarsi le prime difficoltà di bilancia dei pagamenti.
Se l’autore, infatti, avesse collegato l’attuale situazione agli anni sessanta, alla fine della fase coloniale e alla progressiva conquista dell’indipendenza da parte di molti Paesi africani, sarebbe più facile per il lettore collocare e comprendere i comportamenti dei vari attori nel sistema globale attuale.
E’ difficile, infatti, comprendere appieno le attuali congiunture se non si considera come lo sviluppo fu fortemente condizionato anche da avvenimenti imprevedibili e comunque esterni ai piani di sviluppo quale l’andamento del costo del petrolio negli anni ’70.
L’assenza di una ricostruzione storica agevola la presa di una posizione critica rispetto agli organismi mondiali per la situazione odierna ma non è rispettosa di fatti che hanno condizionato scelte e portato a risultati peggiori di quelli prevedibili ed auspicabili.
Il modificarsi delle condizioni impedisce di fatto un giudizio sulle teorie applicate a meno che si voglia ritenere che chi opera a livello mondiale lo faccia sempre per il suo interesse con dolo, senza curarsi degli altri e dei danni procurati. 
Inoltre da un professore di economia ci si sarebbe potuto aspettare una maggiore attenzione alle valutazioni economiche e alle spiegazioni (e confutazioni) dalle teorie e dei principi applicati o almeno ispiratori di certe scelte macroeconomiche.

Ad esempio si sarebbe potuto affrontare più attentamente il rapporto tra debito e crescita che pure è stato recentemente oggetto di molti studi specialistici (3).
Tuttavia una scelta di questo tipo avrebbe però reso il testo più specialistico e quindi meno “alla portata di tutti” o almeno più diffide da comprendere ed apprezzare.
Si sarebbe così rischiato di perdere (o si sarebbe almeno fortemente indebolito) il grido di allarme che l’autore voleva lanciare per la situazione mondiale e per il suo evolversi verso la povertà e non verso la ricchezza. 

"Le economie nazionali stanno crollando, la disoccupazione dilaga. Carestie locali sono scoppiate nell'Africa subsahariana, nell'Asia meridionale e in America Latina". La crisi economica che attanaglia il pianeta "è più devastante della Grande Depressione degli anni Trenta. Ha implicazioni geopolitiche di più vasta portata; lo sconvolgimento economico è stato accompagnato anche dallo scoppio di guerre regionali, dalla frantumazione di società nazionali e, in alcuni casi, dalla distruzione di interi paesi. E' di gran lunga la più grave crisi della storia moderna".

 Un grido che, a parere di chi scrive, stante la situazione attuale è difficile non ascoltare con un certo interesse.

NOTE 

(1) Quella qui recensita è, infatti, la seconda edizione del saggio "La globalizzazione della povertà", che ha avuto un notevole successo commerciale e di critica e che viene (ri)presentata dall’autore in una nuova versione, completamente rivista, aggiornata e notevolmente ampliata, quasi che il passaggio di soli pochi anni avesse stravolto il quadro originario che faceva dia sfondo al primo libro.
 Michel Chossudovsky è attualmente ordinario di economia politica nell’Università di Ottawa, in Canada, dopo aver insegnato in diverse parti del mondo tra cui Cile e Argentina. Nella prefazione del libro racconta come la sua attenzione per certi problemi economici legati alla globalizzazione, al commercio estero, alla disoccupazione e alla povertà sia strettamente intrecciata con le sue esperienze di vita. Ad esempio alla drammatica situazione del Cile nel 1973 dove insegnava e dove vide applicare le teorie dei monetaristi (i cosiddetti “Chicago boys”) ad un Paese soggetto a un brusco cambiamento politico con risultati drammatici (si pensi all’incremento del 264% del costo del pane in pochi giorni) per la qualità della vita degli abitanti.  

(2) Michel Chossudovsky è attualmente ordinario di economia politica nell’Università di Ottawa, in Canada, dopo aver insegnato in diverse parti del mondo tra cui Cile e Argentina. Nella prefazione del libro racconta come la sua attenzione per certi problemi economici legati alla globalizzazione, al commercio estero, alla disoccupazione e alla povertà sia strettamente intrecciata con le sue esperienze di vita. Ad esempio alla drammatica situazione del Cile nel 1973 dove insegnava e dove vide applicare le teorie dei monetaristi (i cosiddetti “Chicago boys”) ad un Paese soggetto a un brusco cambiamento politico con risultati drammatici (si pensi all’incremento del 264% del costo del pane in pochi giorni) per la qualità della vita degli abitanti. 

(3) Nulla ad esempio si dice sulle interpretazioni fatte dalla scuola neoclassica e da quella keynesiana sul rapporto fra debito e crescita.

Nulla degli studi più recenti della seconda metà degli anni Ottanta, quando la crisi del debito era già scoppiata. Lavori di stampo neoclassico quali quelli di Krugman e Sachs che sostennero, per la prima volta, una relazione non lineare tra debito e crescita, introducendo, nella letteratura della finanza internazionale, il concetto di “strangolamento del debito” (debt overhang).
Ogni analisi teorica di approfondimento sembra assorbita nel nulla così come ogni riferimento ai lavori empirici che hanno approfondito i singoli casi. Quasi non fossero utili a comprendere e sostenere le tesi del libro. (a cura di
Maurizio Canauz)


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IL MERCATO D'AZZARDO
Guido Rossi Adelphi Edizioni, 2008
pagg. 110, € 13'50


Il mercato d'azzardo si identifica oggi con il mercato finanziario; il titolo è lo stesso di un saggio di Keynes, di cui viene citato il passo, tratto da The General Theory of Employment, Interest and Money, London-New York, 1936, p.159:”Quando l'accumulazione di capitale di un paese diventa il sottoprodotto delle attività di un casinò, è probabile che le cose vadano male. Per questo si ritiene che i casinò dovrebbero essere, nel pubblico interesse, inaccessibili e costosi.E lo stesso vale, forse per le borse”.
L'autore considera i diversi e complessi aspetti della società per azioni, così come si evoluta nel tempo, il potere delle grosse corporation, il ruolo della corporate governance, i mercati ed il futuro del capitalismo finanziario.Il quadro, che ne risulta, evidenzia i nodi cruciali che hanno portato il mercato finanziario ad essere il mercato della liquidità piuttosto che quello degli investimenti.
E questo sulla base di pregiudizi che ne hanno influenzato l'andamento in una direzione perversa ed autodistruttiva..
Da un lato, si tratta della convinzione radicata che un mercato completamente deregolato sia, ad un tempo, fonte del benessere e del diritto.Per l'altro verso, vi è la rimozione del dato che, nella storia del capitalismo, la libera concorrenza ha potuto dispiegare pienamente i suoi effetti positivi solo in presenza di leggi anti-trust.
La storia della società per azioni si articola attraverso oscillazioni tra norme imperative e libertà contrattuale per disciplinare di volta in volta, a seconda del contesto, i conflitti di interesse.In questa dinamica tra i vincoli della legge e la libertà contrattuale come fonte di diritto vengono a mutare i tratti caratteristici della società per azioni.
Nelle società, specie in quelle di grandi dimensioni, si determina il fenomeno della dissociazione tra proprietà e controllo.Mentre nell'impresa individuale vi è un rapporto diretto tra imprenditore e proprietario, questo rapporto non è più applicabile nella società per azioni, in quanto, quando l'oggetto sociale riguarda conoscenze tecnologiche, l'elettronica, le comunicazioni satellitari ecc,prevale una rilevanza pubblica incompatibile con la proprietà privata.
Anche il principio “un'azione, un voto” che competerebbe all'azionista/proprietario in molti casi risulta vanificato. Infatti secondo un rapporto redatto da International Shareholder Services dall'European Corporate Governance e da Sherman & Sterling, il 44% delle 464 società europee quotate dichiara di aver adottato almeno uno dei più rilevanti mezzi di controllo, quali piramidi,scatole cinesi, azioni di voto plurimo o diversificate per categorie, patti di sindacato, partecipazioni incrociate ed altre.In questo modo viene a prevalere il principio minoritario e tutti gli shareholders della società sono tagliati fuori dai processi decisionali e dal controllo.
Nel controllo delle minoranze specie quelle formate da catene di controllo si determina il fenomeno del tunnelling, ossia la possibilità di far transitare flussi finanziari dalla società ad azionariato diffuso verso quelle che costituiscono la catena; è ciò permette di distribuire dividendi o compensi elevatissimi ai managers e ai consulenti o di stipulare contratti fuori mercato.
La mancanza di trasparenza che ne deriva provoca la difficoltà e, in alcuni casi, l'impossibilità di controllo anche da parte della società controllante su le società controllate e quindi di esercitare le azioni di responsabilità.
Si forma in questo modo un potere senza responsabilità
La XIII Direttiva Europea, stabilisce limitazioni a queste pratiche nel caso di offerte pubbliche d'acquisto, accolte nell'art.104 bis del TUF (sett.2007).
Le azioni quotate, che secondo Kelsen ed Ascarelli erano considerate beni di secondo grado degli azionisti, hanno mutato il loro contenuto e ad un tempo la struttura e la natura delle società che ricorrono al pubblico risparmio.Il caso Blackstone evidenzia molto bene il fenomeno.La Blackstone
“è un fondo di private equity fra i più redditizi del mondo e ha realizzato i suoi (cospicui) guadagni con un escamotage semplicissimo: ha fatto uscire dalla borsa società molto importanti, liberandole così dalle pressioni dei mercati e dalle regolamentazioni, spesso troppo gravose, delle autorità di vigilanza. Ma adesso il fondo, attraverso una sofisticata ristrutturazione, ha deciso di quotarsi, cioè di sottoporsi alla disciplina dei mercati regolamentati, disperdendo la proprietà, ammesso che si possa chiamare ancora così, fra il pubblico degli investitori..................Il pubblico sottoscriverà quindi units, cioè quote di partecipazione, di una limited partnership(appunto la Blackstone Group L.P.)la quale controllerà tutte le società che possiedono e operanosui fondi(di private equity,immobiliari, hedge funds, fondi di fondi,fondi chiusi e così via)La società quotata sarà gestita, con pieni poteri, da un general partner, posseduto esclusivament dagli attuali amministratori del fondo. I nuovi sottoscrittori, contrariamente agli azionisti, non avranno alcun diritto amministrativo o di iniziativa sulla gestione dei fondi, e neppure alcun diritto di voto, specie per quel che concerne la nomina o la revoca dei gestori-amministratori, gli unici a decidere.”
In questo modo la creazione di valore per gli azionisti e l'interesse sociale non sono più l'elemento caratterizzante delle società per azioni, che assumerebbe la natura non più della persona giuridica, ma quella di un nexus of contracts, ossiadi una rete di rapporti contrattuali tra azionisti e amministratori, fra azionisti e creditori, con la limitazione della responsabilità patrimoniale.
Per Coase, il massimo teorico del contrattualismo,il vero limite del mercato è la libertà, libertà nella definizione degli statuti con la costituzione della corporate governace e di creare strumenti finanziari, quali i junk bonds o mutui sub-prime, la cui libertà di circolazione ha provocato la caduta delle quotazioni su tutti i mercati.Queste crisi sono state risolte dalle banche centrali e non dal meccanismo spontaneo del mercato.
L'elemento in comune nei vari mercati regolamentati è l'introduzione della corporate governance il cui obiettivo avrebbe dovuto essere la trasparenza e la creazione di valore per gli azionisti., Infatti la nomina di amministratori indipendenti avrebbe garantitoun miglior collegamento tra l'impresa e il mercato. In realtà l'attenzione si è rivolta sui prezzi di borsa piuttosto che sui risultati dell'impresa, sul breve termine anziché sul medio e lungo, perchè i loro compensi si basano sulle stock option legate all'andamento delle borse.
Il futuro del capitalismo finanziario richiede diversi aggiustamenti per trovare un punto di equilibrio nel rapporto tra norme imperative e libertà contrattuale e nel definire gli interessi che il diritto societario dovrà tutelare. Si tratta inoltre di riorientare strategie per l'impresa verso investimenti sul medio e lungo termine, verso i settori della ricerca e sviluppo.Nel testo “La globalizzazione che funziona”Stiglitz ipotizza una legislazione ed una corte internazionale ,poichè manca un apparato coercitivo per dare esecuzione alle sentenze in caso di conflitti nell'esecuzione dei contratti.
Allo scopo occorre tener conto di alcuni principi tra i quali.
a) il contratto non può sostituire il diritto ed è necessaria una maggiore attenzione alle asimmetrie informative.
b)il principio della trasparenza dei mercati, l'uniformità dei principi contabili, la responsabilità del controllo, nonostante alcuni margini di incertezza, soprattutto in merito ai conflitti di interesse, fanno già parte di alcuni ordinamenti.
Le nuove norme dovranno prevedere sanzioni adeguate sotto il profilo civile e penale.
In conclusione le società che ricorrono al pubblico risparmio, in particolare i fondi, hanno assunto le caratteristiche della partnership,delle società di persone.I possibili vantaggi, che ne derivano riguarderebbero: “la possibilità di recesso incondizionata da parte dgli investitori, fuori dal blocco del capitale sociale solo trasferibile in borsa, la conseguente scomparsa del mercato del controllo, l'identità tra manager e proprietari(dunque meno possibiltà di frodare per i primi, più possibilità di decidere in proprio per i secondi) e un regime fiscale meno oppressivo.”
In questo contesto la società per azioni, istituto centrale dello sviluppo capitalista, coesisterà con queste forme societarie che alle origini ne avevano preceduto la creazione. (a cura di Elide Sorrenti)
 


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Guido Rossi
PERCHE' FILOSOFIA
Editrice San Raffaele, Milano Maggio 2008
pagg.122, €14

Questo aureo libretto, aureo perchè la levità della scrittura si coniuga perfettamente con la profondità delle tematiche, raccoglie i resoconti di una serie di lezioni e conversazioni con gli studenti, tenute alla Facoltà di Filosofia dell'Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, dove l'autore insegna Filosofia del Diritto.

Egli è anche docente di Diritto Commerciale presso l'Università L.Bocconi di Milano ed esercita la professione di avvocato.Alla stesura del testo hanno contribuito due laureandi, Alessandro Aresu e Matteo Scurati.

Come da lui stesso dichiarato, ha sempre coltivato la filosofia non a latere ma con costante e profondo interesse. Fin dagli anni universitari alternava le lezioni di diritto con quelle di filosofia ascoltando professori di chiara fama che, a quei tempi, animavano la cultura italiana quali Giulio Preti, Ludivico Geymonat, Enzo Paci, Remo Cantoni e negli USA le lezioni di un giovane e brillante Noam Chomsky.

Il tema è anticipato da una citazione di Adam Smith:

”La professione dei filosofi non è quella di fare qualche cosa, ma di osservare ogni cosa.

Essi,per questa ragione, sono spesso capaci di combinare insieme le proprietà degli oggetti più distanti e disparati.”

La filosofia viene qui percepita come necessità di apprendere oltre la “propria” disciplina per avere uno sguardo più ampio rispetto ai problemi inerenti il nostro conoscere e il nostro fare e

questa necessità viene proposta ai lettori.

La filosofia consente di cogliere quei nessi, quelle relazioni tra i dati dell'esperienza che altrimenti verrebbero trascurati se si rimane nella cerchia ristretta del proprio sapere o delle proprie attività. Tale limitatezza impedisce una visione maggiormente significativa di quello che si fa e di quello che sta attorno a noi.

Con uno” sguardo filosofico” si può studiare, imparare e lavorare meglio.

In questo senso la filosofia ci offre delle modalità con cui interpretare i modelli e gli schemi per mezzo dei quali diamo significato all'esperienza.e ne classifichiamo i dati. Tali modelli e schemi rimangono latenti senza una nostra meta-riflessione. 

L'asse portante della trattazione esprime la necessità di instaurare la democrazia della discussione che, per essere tale, deve avere alla base una simmetria informativa per garantire la partecipazione di cittadini liberi e consapevoli.

Una fortissima critica al Supercapitalismo, in cui viviamo, evidenzia come si sia accentuato il fenomeno delle asimmetrie informative con il conseguente dominio dei contratti di adesione nella vita pratica e come la non completezza delle informazioni porti poi alla crisi della giustizia  

In questo quadro, secondo Robert Reich, la persona umana si divide schizzofrenicamente in: consumatore/investitore e in cittadino.

Il consumatore/investitore appartiene all'area del capitalismo, il cittadino, a quella della democrazia.  Il Supercapitalismo ha sbilanciato questa relazione enfatizzando il ruolo del consumatore/investitore e impoverendo quello del cittadino. Vi è quindi uno scadimento della dignità umana e dei processi democratici.

Si pensi all'esempio di Wall Mart che, dagli anni Sessanta ad oggi, ha portato il prezzo di un televisore da 450 a 60 dollari. Questo risparmio, per la felicità del consumatore, è possibile grazie alla pratica dei bassi salari ed alla libertà di licenziare.

Inoltre si è verificata una enorme differenziazione dei compensi all'interno della stessa azienda. Ad esempio, sempre negli anni Sessanta un lavoratore della General Motors percepiva un salario sessanta volte inferiore a quello del CEO, oggi la forbice delle retribuzioni si è enormemente allargata in quanto il compenso dell'amministratore della Wall Mart supera di novecento volte il salario medio di un lavoratore.

Nel Supercapitalismo non vi è posto per la piena occupazione così come concepita da Keynes.

L'investitore, dal canto suo, per avere maggiori ritorni, è disposto(o aggirato dalle banche) ad acquistare titoli anche non perfettamente trasparenti, come futures, derivati, titoli strutturati,ecc, senza una corretta valutazione dei rischi. I casi Enron, Cirio e Parmalat ed altri simili hanno evidenziato in tutta la loro gravità come l'investitore non sia tutelato dalla legge nel proprio paese ed ancor meno se gli investimenti, come nei casi citati, coinvolgono anche paesi terzi,pratica ormai di routine nell'era della globalizzazione finanziaria.

Nel Supercapitalismo vi è anche un' enorme squilibrio tra i servizi e la produzione. .

Bisogna ripensare l'organizzazione del lavoro e delle relazioni industriali; la parcellizzazione dei ruoli genera forme di lavoro acritico dovuto alla struttura prevalentemente autocratica delle imprese ad ogni livello. Nonostante l'informatizzazione favorisca il lavoro di gruppo e la circolazione delle conoscenze, nella sostanza poi si riproduce l'isolamento del lavoratore.

Tali situazioni possono essere corrette se si supera una considerazione limitata al proprio compito collocandolo in una visione dell'insieme.

Il ripensamento del ruolo dell'impresa capitalistica attuale ha imposto una serie di interventi legislativi sul diritto societario.Anche la sicurezza nei luoghi di lavoro richiede che la gestione dei rischi non sia lasciata ai privati ma che le regole tecniche procedurali siano tradotte in norme vincolanti.

L'asimmetria informativa pone pure il delicato problema della capitalizzazione, del diritto di appropriazione e del conflitto di interesse. Un tempo era il capitale fisico, costituito da immobili, impianti, scorte, denaro e titoli, a determinare il valore di una impresa, anche ai fini della garanzia patrimoniale dei creditori; oggi prevale invece la considerazione per i beni immateriali, quali l'accesso alla conoscenza e alla rete, che ne determinano l'importanza e il peso, anche se vi sono delle difficoltà ad effettuarne valutazioni contabili attendibili. 

Viviamo nell'epoca dell'informazione, che spesso non è veritiera, e della comunicazione che dovrebbero assicurare la discussione ed il confronto in un processo democratico, la scarsità di informazioni e l'asimmetria informativa producono invece la democrazia dell'ignoranza. 

Un approccio filosofico è in grado di rompere questo circolo vizioso affermando che l'uomo deve essere anche cittadino non solo consumatore/investitore.

La filosofia deve essere concepita come domanda di democrazia; i cittadini essere consapevoli dei problemi cruciali del mondo moderno(terrorismo, pena di morte, crisi della democrazia) anche con la mediazione delle società intermedie e della cooperazione. L'esercizio del diritto di voto da solo non è sufficiente. E' necessaria una educazione al giudizio che solo la filosofia può dare.

E siccome il campo esplorativo della filosofia comprende anche la politica, il diritto e la scienza sorge l'esigenza di considerare, soprattutto nell'ambito del lavoro,anche i diritti degli altri.

In una vera democrazia nessuno deve poter predisporre degli obblighi a carico di un altro, senza che questi ne sia consapevole, come avviene con i contratti di adesione, e il venir meno del conflitto di interessi dev'essere assunto come principio di diritto. 

La via d'uscita sta nella possibilità di attuare il principio di differenza di JohnRawls, in virtù del quale i maggiori vantaggi devono sempre andare a favore di chi sta meno bene.

I processi di globalizzazione così come si dispiegano oggi attraverso una concorrenza sfrenata avvantaggiano poche elites danneggiando i paesi in via di sviluppo e gli interessi dei lavoratori e delle classi medie nei paesi ricchi.  

L'Europa ha unificato la moneta,ma non le istituzioni finanziarie e non affronta con determinazione quello che invece altri stanno facendo, in primo luogo la regolamentazione dei mercati finanziari, e  una legislazione comune per tutti i lavoratori europei.

E' un'Europa in crisi di identità in cui si sta imponendo il tema dei diritti umani, sia a livello teorico sia nella prassi politica..

Come sostiene l'autore:“E' un'Europa che non può che essere laica e ispirata alle sue origini illuministiche e alla difesa dei diritti umani. Secondo Spinoza la vera democrazia deve essere a-religiosa. Non è per nulla dunque necessario né indipensabile essere atei, ma l'ateismo come la fede religiosa appartengono alla sfera individuale, cioè per usare la distinzione di Hannah Arendt, appartengono all'individuo e non al cittadino inserito nel discorso politico-pubblico. Nella sfera sociale, nel contratto sociale che ci unisce le regole devono essere dettate, secondo John Rawls dal “velo di ignoranza”sulle proprie condizioni e credenze, sicchè non possono obbedire a istanze o fedi religiose specifiche, di una religione piuttosto che di un'altra, ma devono ammetterle tutte nella sfera delle libertà personali.” (a cura di Elide Sorrenti)

Milano, agosto 2008

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Umberto Galimberti
L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani
Feltrinelli (collana  Serie bianca) € 10,20

La tesi di fondo che anima il nuovo saggio di Umberto Galimberti, filosofo, psicologo e saggista di successo, è che il mondo di oggi, in particolare quello dei giovani di oggi, sia pervaso dal nichilismo e dall’assenza di valori e di senso. Il nichilismo infatti è quell’ospite inquietante, ben descritto da Nietzsche a fine Ottocento, che oggi torna ad aggirarsi nella vita dei ragazzi e delle ragazze italiane, cancellando prospettive e orizzonti, intristendone le passioni e fiaccandone l’anima. In un mondo che funziona esclusivamente secondo le leggi della tecnica e del mercato, scrive il filosofo, i giovani si sentono disincantati e sfiduciati, si scoprono disinteressati alla scuola, emotivamente analfabeti, inariditi dentro. Solo il mercato sembra interessarsi di loro per condurli sulle vie del divertimento e del consumo, dove però – avverte Galimberti – “ciò che si consuma è la loro stessa vita, che più non riesce a proiettarsi in un futuro capace di far intravedere una qualche promessa”.
Questo stato di disagio fa sì che le famiglie si allarmino mentre risultano inefficaci i rimedi elaborati dalla nostra cultura sia nella versione religiosa, perché “Dio è davvero morto”, sia nella versione laica e illuminista, perché non sembra che la Ragione sia oggi il regolatore dei rapporti tra gli uomini. Nel deserto emotivo, creato dal nichilismo, attecchiscono secondo Galimberti i fenomeni di devianza giovanile noti alle cronache: il bullismo nelle scuole, le violenze degli ultrà negli stadi, l’ecstasy e le altre droghe nelle discoteche, i sassi gettati dal cavalcavia delle autostrade, sino ai gesti più estremi di terrorismo politico, di omicidio e di suicidio.
Ma come uscire da questo cupo scenario, che è per Galimberti innanzi tutto un problema culturale, e non psicologico e sociale? Come andare oltre il nichilismo? La soluzione c’è, scrive il docente di Venezia. E passa, manco a dirlo, ancora per Nietsche, quando ne La gaia scienza il grande filosofo tedesco scriveva: “La vita non mi ha disilluso. Di anno in anno la trovo sempre più ricca, più desiderabile e più misteriosa (…) La vita come mezzo di conoscenza. Con questo principio nel cuore si può non soltanto valorosamente, ma anche gioiosamente vivere e gioiosamente ridere”. La proposta di Galimberti è dunque quella di risvegliare e consentire ai giovani di dischiudere il loro segreto, spesso a loro stessi ignoto. Se gli adulti sapranno insegnare ai ragazzi l’”arte del vivere”, come dicevano i Greci antichi, che consiste nel riconoscere le proprie capacità, nell’esplicitarle e vederle fiorire secondo misura, allora con questo primo passo i giovani potrebbero innamorarsi di sé. E quell’”ospite inquietante”, messo finalmente alla porta, non sarebbe passato invano dalle loro esistenze. (Annamaria Simonelli)

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Glauco Maggi, Maria Teresa Cometto, Figli & soldi
Sperling & Kupfer
2008
pp. 216 € 16,50
Dai telefonini alle carte prepagate, dalla paghetta ai primi lavori, all'uso responsabile del denaro: l'educazione finanziaria dei figli spiegata con risvolti etici, pratici e tecnici.
La recensione del libro ed il Blog degli autori

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Rinaldi E., (2007), Giovani e denaro: percorsi di socializzazione economica

Milano: Unicopli

MONOGRAFIA (ISBN-978-88-400-1226-1)

La capacità di utilizzare il denaro non rientra tra i comportamenti istintivi del bambino, tuttavia è una risorsa essenziale per garantire la sua integrazione nella società contemporanea. Attraverso quali processi egli apprende ad utilizzare il denaro e relazionarsi con l’economia? Che ruolo giocano la famiglia, la scuola e il gruppo dei pari in questi processi? E come cambia il suo rapporto con il denaro nel corso della transizione all’età adulta? Il volume intende rispondere a queste domande illustrando le caratteristiche principali dei processi di socializzazione economica in tre fasi dell’età dell’individuo: l’infanzia, l’adolescenza e la giovinezza. Attraverso uno sguardo prettamente sociologico, la prima parte del volume riassume le indicazioni più significative emerse dalla letteratura in relazione all’influenza di alcuni fattori sociali (il genere, la classe socio-economica, il contesto macro-culturale) e al ruolo degli agenti socializzativi. La seconda parte approfondisce invece, attraverso una ricerca qualitativa condotta su un campione di giovani-adulti e dei loro genitori, il ruolo del denaro come mediatore nei rapporti familiari e l’importanza delle risorse economiche nel processo di conquista dell’autonomia dalla famiglia di origine. (Enrico Castrovilli)

Per ulteriori informazioni: emanuela.rinaldi@unicatt.it

 

L'autrice, una giovane studiosa docente presso la facoltà di Scienze della formazione dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, analizza i processi di socializzazione economica dei giovani.
Il rigore metodologico che caratterizza il lavoro e la ricchezza di riferimenti teorici offrono uno strumento prezioso per la lettura dei comportamenti e degli atteggiamenti dei giovani d'oggi,ed anche di quegli adulti con i quali interagiscono con maggiore continuità, come i membri della propria famiglia.
Ne risulta un quadro molto articolato con diversi spessori sui versanti psicologico e sociologico, dove si evidenzia come il bambino prima, il giovane e il giovane/adulto poi acquisiscono conoscenze e competenze su quella realtà sociale che è il mondo degli scambi e della produzione.
L'autrice definisce i processi di socializzazione economica come ” quei processi specifici di formazione della personalità e del carattere sociale di rilevanza diretta nella sfera economica. Attraverso la socializzazione economica gli individui acquisiscono, sin dall'infanzia, informazioni, valori e competenze che permettono loro di interagire nel sistema economico della società in cui vivono; grazie ad essa, in particolare, le persone apprendono varie modalità di gestione del denaro, sviluppano atteggiamenti relativi all'economia, maturano forme differenti di propensione al risparmio,al rischio o al debito, fino a comportamenti più patologici legati ad esempio, all'avarizia o al gioco d'azzardo”
Si tratta di processi di apprendimento, che avvengono attraverso esperienze quotidiane in cui il denaro inteso principalmente, almeno in una prima fase, come mezzo di scambio,piuttosto che come riserva di valore, assume, di volta in volta, significati qualificanti modalità diverse di relazione con impliciti condizionamenti di tipo culturale ed ambientale.
La prima parte della trattazione considera in una prospettiva sociologica il mondo economico dei bambini, la socializzazione economica degli adolescenti, il denaro nella transizione all'età adulta dei giovani.Una ricca letteratura nazionale ed internazionale, in particolare del mondo anglosassone, fornisce dati molto significativi di questa evoluzione. 

Il mondo economico dei bambini

Durante l'infanzia le rappresentazioni economiche dei bambini si formano in modo spontaneo e via via si strutturano dando significati ingenui, dapprima, e più esplicativi, successivamente, degli atti di scambio,delle operazioni di dare/avere in cui il denaro viene ceduto per ottenere un dato oggetto.   La prima difficoltà per il bambino è quella di capire la questione dei resti di moneta che il commerciante consegna insieme alla merce acquistata, poi con l'acquisizione di conoscenze aritmetiche nella scuola elementare il problema si chiarisce.
In questa fase inizia anche un processo di alfabetizzazione economica in cui il vocabolario si arricchisce di termini quali risparmio,lavoro, salario, prezzi, denaro/moneta, rispamio, banca, ecc. anche se a questi termini non corrispondono ancora concettualizzazioni formali vere e proprie. 

La socializzazione economica degli adolescenti

Per gli adolescenti, l'esigenza di maggiore autonomia e di orientamento per il proprio futuro ne amplia l'orizzonte ma anche lo complica. L'autrice evidenzia con dati molto significativi,ricavati da numerose inchieste sul tema, come la socializzazione economica avvenga principalmente nella famiglia, al cui interno si effettuano erogazioni monetarie a titolo gratuito come regali e paghette o a titolo oneroso come corrispettivo di lavoretti effettuati dall'adolescente in modo saltuario o periodico.
In questa fase, alla famiglia si affiancano altri agenti di socializzazione, non meno importanti, quali il gruppo dei pari,la scuola,i mass media, le banche e le imprese, che influiscono sulle conoscenze dei vari ambiti economici, sugli atteggiamenti e sulle motivazioni in rapporto ai consumi, al risparmio e alle fonti da cui proviene il denaro, tra le quali è riconosciuto in via principale il lavoro.
A queste conoscenze maggiormente articolate si assumono anche giudizi di valore. Con sfumature diverse a seconda delle differenze di sesso, di provenienza e di ceto sociale, il denaro viene percepito come un elemento che produce felicità e potere e che va gestito in modo piuttosto oculato. 

La transizione all'età adulta.

L'analisi dei processi di socializzazione che avvengono in questo periodo comporta invece alcune difficoltà. Si tratta di individuare quando finisce la giovinezza e comincia l'età adulta.I riferimenti biologici, e gli eventi che contrassegnavano questo passaggio, come il compimento degli studi, l'indipendenza economica per mezzo del lavoro, il cambiamento di status con il matrimonio o la convivenza e la genitorialità potevano essere indicatori certi dell'autonomia e della maturità acquisite dalle persone.
Ora invece i cambiamenti radicali negli stili di vita e nei modi di produzione, determinati dalle  nuove tecnologie, hanno introdotto elementi di rischio e di incertezza nel contesto sociale con scenari di grande precarietà.

Si è determinato così un rallentamento nel processo di socializzazione economica per i giovani/adulti, che continuano a rimanere nella famiglia di origine, la cosìddetta ”famiglia lunga”.La rinuncia ad una autentica autonomia di vita viene giustificata.con diverse motivazioni, a volte determinate dal lavoro precario e dalla mancanza di politiche di sostegno per i giovani, a volte per inerzia e per non rinunciare ai servizi che la famiglia continua a produrre. 

Una ricerca empirica nell'area milanese.

Nella seconda parte del testo si analizzano i dati emersi da una ricerca empirica di grande interesse ed originalità effettuata nell'area milanese dall'autrice.

Sono stati intervistati 26 giovani/adulti di entrambi i sessi e 20 dei loro genitori, questi ultimi separatamente gli uni dagli altri, dato il loro diverso ruolo all'interno della famiglia.Il campione è stato selezionato in base ad alcuni criteri che potevano assicurare la massima eterogeneità.L'autrice ha utilizzato il metodo della intervista non-standard con riferimento al modello del colloquio motivazionale in profondità non direttivo, che consente una maggiore libertà di espressione agli intervistati.Il campo di indagine è stato limitato da due condizioni:

l        i giovani dovevano avere completato il ciclo degli studi e lavoravano da almeno due anni

l        al momento dell'intervista non si trovavano in situazioni di convivenza con un partner, ma vivevano da soli o in famiglia

Si tratta di un indagine di tipo qualitatitivo atta a mettere in evidenza le differenze dei vissuti personali. nel quadro della tendenza comune di un legame permanente con la famiglia.
Quale è il ruolo del denaro e con quali modalità si distribuiscono le risorse, i compiti e gli spazi di libertà ed autonomia all'interno del nucleo famigliare?
Gli orientamenti che si possono ricavare dal punto di vista della socializzazione economica presentano modalità di scambi intergenerazionali diversificate con situazioni, a volte, ambigue e contradditorie.
Ad esempio compare la figura del figlio adulto a metà. L'aver acquisito l'indipendenza economica fa sì che il figlio si comporti in modo competente e responsabile nel suo ambito lavorativo, in altri termini da adulto. Permanendo invece inalterati, salvo eccezioni, i rapporti ed i ruoli all'interno della famiglia, il suo atteggiamento resta sempre quello del minore.In questo caso il lavoro ed il denaro posseduto in proprio non hanno contribuito ad affermare la piena autonomia del carattere.
Anche gli atteggiamenti dei genitori presentano delle ambiguità. Prevalgono il senso di solidarietà e il desiderio di rendere la vita più facile e bella per i propri figli; anche se, a volte, si percepisce una volontà latentedi continuare ad esercitare un ruolo di difesa e di controllo dei figli attraverso le risorse economiche. E, in certi casi, vi si accompagna anche l'aspettativa di ricevere in cambio sicurezza ed assistenza quando il processo di invecchiamento lo richiederà. 

Conclusione 

Famiglia, scuola, mondo del lavoro, mercati e stato costituiscono un sistema di organizzazioni in cui si svolgono scambi, azionati dai flussi monetari, con diversi gradi di libertà e di vincoli.
Nei processi di socializzazione economica, esaminati in questo testo, il denaro assume significati più aderenti ai vissuti personali e ai relativi sistemi di valori, rispetto ad una visione strettamente economica, che lo considera unicamente mezzo di scambio, riserva e misuratore di valori.
Da un lato, il denaro, può esprimere molti significati simbolici quali quelli del potere, dell'autonomia e della felicità personali, da un altro lato, viene a svolgere funzioni operative e, quindi, implica l'assunzione di determinati comportamenti. Attraverso l'allocazione delle risorse risulta mediatore e propulsore di relazioni, spesso asimmetriche tra le parti, sia in seno alla famiglia sia in altri ambiti sociali.
In questo quadro concettuale lo sviluppo cognitivo e morale di ogni persona, ossia la sua educazione, è fortemente legato, anche se non in via esclusiva, al suo rapporto con il denaro.
Le rappresentazioni che ne derivano, l'assumere criteri di prudenza e correttezza nell'azione, il modo di considerare sé stesso rispetto agli altri, i sentimenti di benevolenza o meno divengono elementi del carattere e retroagiscono poi sui processi di sviluppo sociale ed economico in modo virtuoso o perverso, a seconda della qualità dell'approccio.
Da questo punto di vista la lettura del libro “Giovani e Denaro” è molto stimolante. ed utilissima agli educatori, ai famigliari, e alle autorità che si occupano dei problemi giovanili. (Elide Sorrenti)

Breve nota sull’autore

Emanuela Rinaldi è Dottore di Ricerca in Sociologia e Metodologia della Ricerca Sociale. Svolge attività di didattica e di ricerca presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell'Università Cattolica del Sacro Cuore, collabora al corso di Sociologia generale e del cambiamento sociale dell’Università IULM ed è consulente presso la Fondazione ISMU. Ha svolto e pubblicato studi sulla socializzazione, i processi migratori, il rapporto dei giovani con il denaro e la telefonia mobile, l’educazione ai consumi in Italia e in Europa.

 

 

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CLIL Economia

Business Studies in English

Ghisetti e Corvi Editori,
Milano 2005, Prezzo € 4,50

L’Apprendimento Linguistico Integrato (ALI) con la metodologia CLIL (Content and Language Integrated Learning) si sta affermando come una prospettiva ricca di implicazioni stimolanti per allievi e docenti. Lo stimolo proviene dal fatto di utilizzare l’apprendimento della lingue straniere come veicolo per imparare al tempo stesso i contenuti disciplinari di qualsivoglia materia e viceversa. Insegnare/apprendere una materia utilizzando una lingua straniera presenta infatti un duplice vantaggio. Da un lato la lingua straniera è fatta propria in modo naturale perché il suo studio non è fine a se stesso, ma diviene veicolo per arricchire le conoscenze che fanno parte del bagaglio personale di saperi. Dall’altro lato studiare materie letterarie, scientifiche, economiche o sociali non in lingua italiana rende più vivi i contenuti in diverse aree disciplinari, con le suggestioni e le contaminazioni che possono derivare da altre culture straniere. Pensiamo solo per fare qualche esempio ai filosofi tedeschi, ai romanzi francesi, alla pittura spagnola, agli economisti britannici, ai giuristi americani.
A partire da queste considerazioni l’USR per la Lombardia ed il Progetto Lingue Lombardia ALI-CLIL hanno messo a punto una numerosa serie di materiali e di iniziative. Tra di questi si segnala l’agile volumetto CLIL Economia, Business Studies in English, realizzato con il contributo di un gruppo di lavoro di docenti di materie giuridiche, economiche, aziendali e di lingua straniera.. Esso contiene tre unità intitolate rispettivamente:
1.      I soggetti dell’economia globalizzata
2.      L’impresa
3.      L’evoluzione del mondo del lavoro negli ultimi due secoli
Le unità sono presentate in modo strutturato. Vengono infatti specificate le discipline coinvolte, le classi destinatarie, la durata dell’attività, gli obiettivi disciplinari, quelli linguistici, tra di loro naturalmente integrati, modalità di lavoro e di valutazione. Le unità sono a loro volta divise in fasi di lavoro successive, ricche di contenuti, fogli di lavoro, letture in lingua inglese o italiana, mappe, grafici e riferimenti bibliografici e sitografici.
Le tre unità offrono uno spaccato completo dei contenuti disciplinari coinvolti. La prima unità sviluppa gli aspetti del sistema economico, dei bisogni e dei beni, dei diversi operatori economici ed è destinata alla classi terze dei corsi ove sono insegnate le materie economiche e giuridiche. La seconda unità costruisce il contesto di realizzazione di un’idea imprenditoriale dal punto di vista dell’ottica aziendale e giuridica ed è adatta alle classi quarte nell’insegnamento delle materie economico-aziendali e del diritto. La terza unità infine sviscera la questione del lavoro e del suo mercato anche dal punto di vista storico e statistico, ed è rivolta alle classi quarte dove vengono insegnate discipline giuridiche ed economiche.
Il metodo CLIL ha quindi uno strumento in più per essere progettato e realizzato. Per il suo successo resta naturalmente la difficoltà, consistente nella disponibilità di disciplinaristi dotati di una buona padronanza di lingue straniere. Sebbene queste figure non siano numerose, vi sono sicuramente docenti per i quali l’esistenza di buoni materiali didattici può costituire la tentazione giusta per cimentarsi in questa attività. Vale infine la pena ricordare che la legge di riforma n.53/2003 e il relativo decreto legislativo n.226/2005 prevedono nelle classi quinte l’insegnamento in lingua inglese di una disciplina non linguistica compresa nell’orario obbligatorio. (Enrico Castrovilli)

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Jeremy Rifkin

Il sogno europeo

Mondadori 2004

pagg. 444 euro 18,50

Rifkin è presidente della Foundation on Economic Trends di Washington e insegna alla Wharton School of Finance and Commerce, dove tiene corsi sul rapporto fra l’evoluzione della scienza e della tecnologia e lo sviluppo economico, l’ambiente e la cultura. In Italia è stato più volte tradotto (da Entropia del 1980 a La fine del lavoro del 1995 a L’era dell’accesso del 2000) e invitato a discutere degli scenari dell’economia e della società mondiale. In questo suo nuovo lavoro affronta il tema molto attuale del confronto fra i principi che stanno alla base dell’economia e della società americana e quelli che alimentano l’Europa. Rifkin afferma senza mezzi termini che è l’Europa ad aver creato una nuova visione del futuro, che sta lentamente eclissando il sogno americano. Questo, nato nello spirito della “frontiera”, si basava sulla opportunità senza limiti per ogni individuo di ricercare il successo, che si è sempre più identificato con il successo economico. Ma questo Sogno sarebbe “troppo centrato sul progresso materiale personale e troppo poco preoccupato del benessere generale dell’umanità per continuare ad avere fascino e importanza in un mondo caratterizzato dal rischio, dalla diversità e dall’interdipendenza.” E quindi lascia spazio ad un Sogno europeo, di 25 Stati, oltre 450 milioni di abitanti e un  PIL di 10.500 miliardi di dollari, che hanno superato gli Stati Uniti d’America e sono diventati la più importante economia della terra. Inoltre, ricorda Rifkin, gran parte dei cittadini europei gode di maggiori protezioni sociali, di una più lunga aspettativa di vita, di migliore istruzione e più tempo libero e fenomeni negativi come povertà, criminalità e degrado vi sono mediamente meno diffusi. Alla base di questo successo vi sarebbe una diversa concezione dell’economia e della società, un diverso Sogno, che “pone l’accento sulle relazioni comunitarie più che sull’autonomia individuale, sulla diversità culturale più che sull’assimilazione, sulla qualità della vita più che sull’accumulazione di ricchezza, sullo sviluppo sostenibile più che sull’illimitata crescita, sui diritti umani universali e su quelli della natura più che sui diritti di proprietà.” Aver individuato queste diversità di fondo non significa immaginare che facilmente gli americani accetteranno di mutare radicalmente la loro visione del mondo, anche perché non sembra che abbiano abbandonato l’idea di essere i primi, a costo di difendere il primato con ogni mezzo. E poi vi sono nuovi attori , che avanzano sulla scena, Cina e India, non avranno anche loro un Sogno da proporre? (Sergio Zangitolami)

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Federico Rampini

Il secolo cinese

Mondadori 2005

pagg. 350, euro

Dopo aver dedicati due libri, nel 2000 e nel 2002, alla Nuova Economia (New Economy), prima mettendo in evidenza la vera e propria rivoluzione, trainata dalle nuove tecnologie dell’informazione, e poi constatando la debolezza del sistema economico americano di mercato, ora Rampini, gia corrispondente della Repubblica da Pechino e vice direttore del Sole 24 ore, affronta la realtà e le prospettive della Cina. Con uno stile giornalistico, ma assai bene informato per incontri e soggiorni diretti, in tredici capitoli percorre la storia recente di questo grande paese, che sta marciando economicamente a ritmi impressionanti e che ha raggiunto i primi posti tra le economie più sviluppate del mondo. Naturalmente, il rapido sviluppo pilotato, anche se si accetta il mercato e le sue logiche, dal potere del partito unico, porta con sé e anzi accentua altrettanto enormi squilibri sociali, a cominciare dalle grandi differenze di reddito, di tenore di vita e di prospettive, fra le varie parti del paese (alle regioni costiere orientali sempre più dinamiche e caoticamente in sviluppo  si contrappongo le regioni  occidentali, a determinate industrie e ai commerci si contrappone la situazione delle campagne e, quindi, dei molti milioni di contadini). L’autore ne conclude Chi vive in mezzo ai cinesi impara ad ammirare la meravigliosa vitalità della loro società civile, la loro cultura sofisticata, la loro fantasia e saggezza, la loro curiosità per l’estero. Trova perciò anormale che debbano tenersi dei dirigenti che pretendono di nominarsi da soli. Il secolo cinese non sarà completo senza la nascita della democrazia nel cuore della Città Proibita: senza dubbio uno dei più grandi eventi nella storia dell’umanità. Certo, la recente storia della Russia pone al riguardo molti interrogativi. (Sergio Zangitolami)

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Giorgio Trentin (a cura di)

La CINA che ARRIVA. Il sistema del dragone

Avagliano editore 2005

Pagg. 262, euro 14,00

Si infittisce la pila di libri dedicata in questi ultimi anni al fenomeno Cina, allo scopo di far conoscere aspetti economici, sociali, politici, di questo enorme Paese, a dimensione continentale, che –soprattutto per i suoi risultati economici- si sta imponendo nel mondo.

Anche la raccolta di saggi a cura di Giorgio Trentin, che insegna lingua e storia della Cina presso l’Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente e Lingua cinese presso l’Università “L’Orientale” di Napoli, vuole essere “solo un piccolo –ma abbastanza approfondito- strumento di studio, offerto a tutte le persone divenute consce del fatto che un rapporto costruttivo con la Cina è un aspetto imprescindibile del nostro futuro e che per rapportarsi ad essa è necessario imparare a conoscerla, non pensare di conoscerla.” Una consapevolezza che solo recentemente sta penetrando anche in Italia, dopo che abbiamo accumulato un ritardo di circa quindici anni rispetto a tutti i maggiori paesi del mondo. Il libro si divide in due parti: La Cina in Cina e La Cina in Italia.

Nella prima si ripercorrono le vicende più significative della storia recente, dalla presa del potere di Mao alle riforme di Deng Xiaoping, per poi approfondire il segno delle riforme, considerando le conseguenze della crescita sulla società. Segue un manualetto pratico per chi vuole investire in Cina, con informazioni sulla legislazione vigente, sugli uffici di rappresentanza e sulle varie forme di investimento. A dimostrare che non si vuol limitare l’analisi e la documentazione ai soli aspetti economici e commerciali, un articolo espone  “la febbre culturale cinese”, comprendendovi le sperimentazioni letterarie, musica cinema e televisione, arti visive.

Nella seconda parte, dopo un breve riferimento all’Italia in Cina, si considerano gli scambi culturali fra Italia e Cina e molto spazio viene dedicato al fenomeno dell’immigrazione cinese, con i suoi adeguamenti, crisi e successi, senza sottacere anche i fenomeni di criminalità che talvolta vi sono connessi. Solo l’elenco dei temi trattati, in forma documentata e chiara, dimostra largamente l’utilità di leggere e consultare questo libro.(Sergio Zangitolami)

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Marco Arnone     Eleni Iliopulos

LA CORRUZIONE COSTA

Effetti economici, istituzionali e sociali

Economia/Ricerche V&P -2005

Dobbiamo essere grati ai due autori di questo libro, Marco Arnone ed Eleni Iliopulos, che affrontano, dal punto di vista della teoria economica, la complessa tematica della corruzione e dei suoi effetti sull’economia, sulle istituzioni e sulla società.

Si tratta di una indagine innovativa in Italia, poiché, nonostante Tangentopoli, finora non ci sono state analisi sistematiche dei fenomeni corruttivi, a differenza di quanto è avvenuto in altri paesi dove esiste una ampia letteratura sull’argomento. Inoltre il taglio interdisciplinare che caratterizza tutta la trattazione rende il testo quanto mai significativo sia in ordine alle conseguenze degli illeciti sulla qualità della vita di tutti, sia in ordine alle condizioni possibili per instaurare pratiche virtuose di contrasto.

L’epigrafe all’inizio del libro riporta un brano tratto da “Dei delitti e delle pene” di Cesare Beccaria(1764) da cui emerge l’allarmata preoccupazione per il legame esistente tra l’uso iniquo della ricchezza e la possibilità di instaurare una tirannide nell’ambito di uno stato. Tutto lo svolgimento della tematica è pervaso da questo sentimento ispiratore e, con un’espressione oggi molto in uso, si potrebbe dire che è una bellissimo libro di educazione alla legalità. E’ un’esperienza scaturita dal bisogno di chiarezza ottenuta attraverso la conoscenza, la misurazione e l’evidenza empirica.

L’economia qui non è più la scienza “ triste “ di vecchia memoria, ma dispiega tutte possibilità cognitive, offerte dai suoi strumenti analitici ed econometrici più avanzati, di indagare, di “illuminare” settori della vita associata, interna e internazionale, normalmente difficili da cogliere nelle loro dimensioni rispetto alla corruzione. I due autori forti dei loro apparati teorici e di numerose esperienze di ricerca presso Istituzioni, come il Fondo Monetario Internazionale, Agenzie internazioni varie e prestigiose Università estere, utilizzano indicatori, semplici e fantasiosi ad un tempo, e, per mezzo di misurazioni testate e ripetute nel tempo, sono in grado di isolare le costanti che legano la corruzione ai diversi ambiti sociali e di evidenziarne in modo diretto ed indiretto cause ed effetti.

Anche se quanto detto sopra può far pensare che si tratti di un libro di economia rivolto a specialisti, in realtà, ha un taglio fortemente interdisciplinare e le numerose tabelle e i grafici, sempre giustificati nelle premesse e commentati con grande chiarezza espositiva, ci fanno risalire dai dati quantitativi ai fenomeni qualitativi sottostanti, e a giudizi di valore. In altri termini la misurazione quantitativa dei dati diviene via via valutazione qualitativa e quindi giudizio politico Si realizza così la comprensione di tutti quei legami intricati e nascosti nelle zone oscure del vivere civile in cui possono prosperare scambi illegali.

E’ una lettura da raccomandare a tutti, ma in modo particolare agli insegnanti, che potranno ampliare la loro conoscenza della realtà sociale e quindi la consapevolezza di un impegno didattico verso i valori e la tutela dei “beni intangibili”della società, ossia gli interessi primari delle persone,la credibilità, la legittimità e l’immagine delle istituzioni presso l’opinione pubblica, valore aggiunto di ogni tipo di insegnamento, specie quando rivolto ai giovani.

La grande ricchezza di dati, offerta ai lettori e agli studiosi, evidenzia le dimensioni del fenomeno nel tempo e nello spazio e consente comparazioni significative tra i paesi presi in considerazione, tra aree diverse all’interno di uno stato, e prefigurazioni di trend verso la crescita o di freno allo sviluppo e/o in genere della qualità della vita.

In particolare i docenti di discipline giuridico - economiche e di scienze sociali possono riconsiderare la propria materia di insegnamento in una chiave più concreta e più aderente alla complessità della vita reale attuale. Di conseguenza la didattica della disciplina sia arricchisce di acquisizioni nuove. Per esempio, i numerosi indicatori usati in questa ricerca e soprattutto la logica che li sostiene consentono, in modo tanto rigoroso quanto flessibile, di rendere espressivi i fatti presi in considerazione. Così i teoremi economici e gli assiomi giuridici, di solito trattati in modo asettico nell’insegnamento e nei libri di testo, assumono significati più nuovi e funzionali alla vita reale contribuendo ad un maggior coinvolgimento degli studenti a questo tipo di studi. 

L’obiettivo degli autori è quello di individuare gli aspetti che caratterizzano la corruzione, i contesti che ne favoriscono le dinamiche e di analizzarne gli effetti sulla società civile.

Il testo mette in evidenza le peculiarità della corruzione nelle sue molteplici dimensioni con una documentazione accuratissima e sistematica, che considera gli ambiti micro e macroeconomici, a livello istituzionale e privato, a livello nazionale e internazionale fino a “isolare”le condizioni ed i contesti che favoriscono l’insorgere, il prosperare ed il diffondersi del fenomeno per avvolgere in una trama perversa tutta la vita sociale. 

La difficoltà di questa ricerca sta soprattutto nella natura stessa della corruzione, i cui aspetti sono difficili da isolare e da misurare. Osservano gli autori: “Una delle caratteristiche principali del fenomeno della corruzione consiste nella difficoltà di stabilire la direzione causale delle dinamiche che ne stanno alla base: Cause ed effetti sono interconnessi da continui meccanismi di feedback difficilmente isolabili singolarmente; le cause vengono influenzate dalla loro stessa azione, innescando meccanismi di retroazione in cui gli “effetti” hanno un’influenza negativa sulle “cause” Il tentativo di isolare cause ed effetti deve quindi essere letto alla luce delle forti limitazioni che derivano dalla presenza di catene causali multidirezionali.Cause ed effetti sono quindi definiti tali in base alla prevalenza della direzione causale che nella letteratura empirica viene generalmente individuata dalle analisi econometriche”.(pag.5)

La definizione di corruzione adottata ed il relativo indicatore provengono da Transparency International(TI), un’organizzazione non governativa che ha come obiettivo l’analisi dei fenomeni corruttivi e fornisce dati empirici sulle variabili che li riguardano. Tali dati devono avere la caratteristica di essere statisticamente affidabili e confrontabili a livello internazionale. Secondo Transparency International la corruzione può definirsi come ”l’insieme di comportamenti di pubblici ufficiali o di impiegati pubblici finalizzati all’arricchimento personale (o di persone vicine), e che si realizzano attraverso l’abuso dei poteri preposti al loro ufficio; tale abuso comporta necessariamente una violazione dell’insieme dei doveri d’ufficio”.

L’indicatore utilizzato è l’Indice di Corruzione Percepita (CPT);si tratta di una variabile periodicamente predisposta da TI, che misura le percezioni relative al livello di corruzione interna, ed è il risultato di componenti provenienti da diverse fonti , che vengono opportunamente pesate per rappresentare numericamente la definizione di corruzione interna, ed è l’unico disponibile per un campione di paesi che copre quasi tutto il mondo.

Come dicevamo sopra gli autori utilizzano indicatori differenziati accanto all’indice di corruzione percepita. Par l’analisi economica si usano si usano quelli classici, quali il PIL e relative variabili, per l’analisi istituzionale gli indicatori di governance accettati a livello internazionale come pure gli indicatori sociali.

Dato il progressivo aumento degli scambi internazionali a seguito della globalizzazione, grande importanza ha assunto l’esigenza di regolamentare questi mercati attraverso accordi internazionali e di valutarne e monitorarne l’attività. In questo ambito specifico gli autori hanno proposto dei loro nuovi indicatori relativi al funzionamento delle istituzioni, che hanno il compito di supervisionare i mercati finanziari, evidenziando come buoni livelli di qualità e di trasparenza della supervisione si associno a bassi livelli di corruzione della stessa. 

Per quanto riguarda la qualità della governance di un paese si utilizzano i sei indicatori della Banca Mondiale composti da un centinaio di sottoindicatori. Tra questi:

·        l’indicatore di accountability che tiene conto dell’esistenza di diritti politici e di libertà civili ed è relativo alla possibilità dei cittadini di selezionare sostituire i membri delle istituzioni dello Stato;

·        l’indicatore della stabilità politica(political stability and absence of violence) che riflette la percezione dei cittadini sulla possibilità di destabilizzazione del governo

·        l’indicatore di legalità(rule of law) riflette il grado di fiducia degli agenti nel sistema di leggi che regolano la vita dello Stato;

·        l’indicatore di controllo della corruzione(control of corruption)rappresenta le percezioni di corruzione interna;

·        l’indicatore riferito alla variabile di efficacia del governo(government effectivness) che riguarda la qualità dei servizi pubblici,la competenza degli impiegati pubblici,l’indipendenza dell’apparato burocratico da pressioni politiche 

L’indicatore principale, come abbiamo detto sopra, è il CPT che viene affiancato agli altri sopraindicati a seconda degli ambiti da esplorare, che sono i seguenti:. 

·        la relazione tra corruzione,mercati ed imprese evidenziandone la perdita di efficienza e l’aggravio dei costi per le seconde.

·        l’influenza della corruzione sulle scelte macroeconomiche anche a livello internazionale, dove il fenomeno è monitorato da organizzazioni internazionali

·        la qualità della “governance”, la responsabilità(accontabilty) delle istituzioni e la qualità della regolamentazione, che si riflettono sui sistemi di controllo in grado di impedire il nascere di pratiche di malfunzionamento degli organi dello stato

·        i costi sociali della corruzione come perdita di sviluppo umano, di una società aperta e di una società giusta

·        immigrazione, mezzi di informazione, equità nella giustizia

·        la corruzione in Italia

·        istituzioni internazionali e iniziative anti-corruzione  

Dopo aver letto il testo e meditato sulle sollecitazioni che suscita si possono fare molte considerazioni.

Una prima fondamentale riguarda il rapporto, sempre presente in ogni contesto esaminato, tra le norme giuridiche e le istituzioni così come risultano nei loro funzionamenti reali. Ne risulta con grande evidenza come i fenomeni corruttivi si inseriscano nelle aree di discrezionalità dei pubblici ufficiali dando vita a comportamenti perversi derivanti dalla violazione delle regole e dal conseguente formarsi di pratiche e culture illegali. Stesso discorso per i mercati percepiti più come luoghi dove vige la legge del più forte che come un insieme di regole da rispettare dagli operatori per ottenere risultati di ottimazione.

La conoscenza dei complessi caratteri della corruzione, presente in tutti gli stati con incidenze diverse a seconda delle variabili presenti, quali il reddito, il grado di istruzione ,ecc. porta a considerare la conoscenza come l’antidoto principale al sorgere ed al propagarsi del fenomeno nel cuore della società. E quindi l’enfasi viene posta sull’adozione di politiche di istruzione rivolte ad elevare la cultura civica e sociale dei cittadini e le competenze professionali degli operatori pubblici in modo da generare un circolo virtuoso: cittadini consapevoli ed attenti eleggono rappresentati capaci ed onesti, la cui condotta rivolta al perseguimento dell’interesse di tutti risulti a tutti trasparente.

Come afferma il Prof. Gabrio Forti nella sua bella prefazione “ tutto ciò, avrebbe detto il Beccaria, che forma “le libere anime e vigorose e le menti rischiaratici”, che “rende gli uomini virtuosi, ma di quella virtù che sa resistere al timore, e non di quella pieghevole prudenza, degna solo di chi può soffrire un’esistenza precaria ed incerta”.(Pag. XXIII) ed inoltre ” Il libro è eloquente illustrazione di come la mala pianta corruttiva si annidi nelle teste , prima ancora che nel portafogli delle persone, e si nutra di quelli che il Beccaria chiamava “lo spirito di famiglia”(che “è uno spirito di dettaglio e limitato a’piccoli fatti”) opposto allo spirito regolatore delle repubbliche che è “padrone dei principi generali , vede i fatti e gli condensa nelle classi principali ed importanti al bene della maggior parte”.(Pag.XXII).(Elide Sorrenti - Milano, Maggio 2006

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Anna Carletti e Andrea Varani

Didattica costruttivista
Dalle teorie alla pratica in classe

Con  i contributi di 
tutta l'Equipe IAD di OPPI–Milano 
e del Prof.J.Novak, Cornell University

Erickson 2005

L’apprendimento scolastico è un processo complesso, multiforme, il cui esito è una risultante, non completamente prevedibile, di molti fattori interagenti. Entrano in gioco, infatti, non solo elementi cognitivi ma anche affettivi, socio-culturali, esperienziali, didattici, organizzativi, che possono influenzarsi reciprocamente in modo sinergico o frenante.
Il limite di molte delle metodologie didattiche che in questi ultimi decenni hanno attraversato la scuola è, invece, la settorialità, l’eccessiva focalizzazione e centratura su un solo fattore, che di volta in volta è stato visto come elemento fondamentale e risolutivo, unica leva su cui agire. L’apprendimento per scoperta, la didattica attiva, la didattica breve, il problem solving, la didattica metacognitiva, l’apprendimento collaborativo, l’uso delle tecnologie informatiche e altri ancora sono tutti approcci didattici estremamente interessanti e validi ma, presi singolarmente e usati come unica metodologia, rischiano di ridursi a semplici tecniche che non solo non  riescono a scalfire l’insieme del clima scolastico, ma ne vengono velocemente fagocitate e ricollocate dentro una logica  complessiva che, di fatto, ne annulla il potenziale innovativo.
Con questo volume, vogliamo sostenere che l’approccio didattico costruttivista ha le potenzialità per superare questo limite, mettendo nelle condizioni di agire consapevolmente e contemporaneamente su molti dei fattori che interessano il processo di apprendimento, assumendone e gestendone la complessità, non solo introducendo nuove forme didattiche ma, soprattutto, ponendosi come elemento aggregatore e integratore di metodologie preesistenti, ricollocandole e riqualificandole all’interno di una visione epistemica che ne valorizza ulteriormente l’uso e ne costituisce la legittimazione e il fondamento.
Questo libro nasce dalla volontà di raccogliere e sistematizzare i risultati di un lungo percorso di studio e sperimentazione su questi temi, di analisi e riflessione sulle esperienze condotte a scuola e nella formazione dei docenti, di confronto sui testi degli autori di riferimento, che ha condotto la nostra Equipe (www.oppi.mi.it/equipe/iad) ad approfondire gradualmente e ricorsivamente i molteplici aspetti e la complessità di un approccio didattico costruttivista.
La nostra azione vuole trarre il massimo vantaggio dall’essere allo stesso tempo insegnanti, in costante contatto con i problemi della scuola, e formatori, capaci di uno sguardo più distaccato e globale, per collocarsi in uno spazio intermedio tra la ricerca accademica e la pura applicazione di repertori metodologici derivati dalle scienze dell’educazione. Uno spazio di riflessione che connetta i paradigmi epistemici e pedagogici con la specifica azione didattica, attraverso la consapevolezza degli elementi teorici che entrano in gioco nel processo, la capacità di controllo degli stessi, la loro traduzione in precise modalità di intervento.
Ciascun capitolo affronta uno degli elementi costitutivi della didattica costruttivista ed è diviso in tre sezioni: una prima parte di ricognizione teorica, una seconda parte che raccoglie le esperienze svolte nei diversi ordini di scuola ed infine una terza parte che propone alcuni esempi di schede, griglie e strumenti di lavoro che possono essere fotocopiati ed utilizzati per il lavoro in classe.
Ogni capitolo costituisce un “mattone” indispensabile per la costruzione di un ambiente di apprendimento; la disaggregazione della complessità didattica in singole tematiche e la linearizzazione del discorso rispondono alla necessità di focalizzare meglio teorie e pratiche, ma, evidentemente, nell’azione quotidiana tutti i piani devono essere compresenti ed interconnessi. Nella loro modulazione consiste appunto la professionalità del docente che non si affida a “ricette” ma, all’interno di un quadro di riferimento, quale abbiamo cercato di fornire, consapevolmente sceglie, ristruttura, assembla ed adatta gli elementi all’unicità della propria situazione.
Il primo capitolo presenta una breve introduzione di inquadramento storico al costruttivismo, che ha lo scopo di ricordare i principali autori attraverso i quali si è giunti al cambiamento di paradigma che è alla radice delle più recenti metodologie didattiche. Vedremo come l’introduzione del costruttivismo nella scuola sia passata fondamentalmente attraverso la sua corrente socio-culturale, a nostro avviso lasciando in secondo piano l’attenzione che alcune correnti costruttiviste pongono alle attività mentali del soggetto che apprende. Questo secondo aspetto, fortemente presente in Piaget, Vygotskji e Von Glasersfeld, costituisce le premesse per una didattica capace di monitorare i processi di costruzione cognitiva.
Proprio in questa direzione, nel secondo capitolo si presentano alcune strategie per la rappresentazione delle conoscenze (frames, script e mappe concettuali) che, lungamente utilizzate dal nostro gruppo con una modalità metacognitiva e cooperativa, si pongono come strumenti per analizzare e governare i processi cognitivi.
Il terzo capitolo riguarda il gruppo come ambiente per la costruzione di conoscenza, le sue caratteristiche, l’organizzazione dei compiti e del setting, i problemi connessi alla valutazione ed il delicato lavoro dell’insegnante come osservatore e facilitatore. Nel presentare le più note correnti di Cooperative Learning abbiamo cercato di privilegiare gli approcci da noi sperimentati e che riteniamo applicabili alla realtà italiana, a volte rielaborandone ed adattandone alcuni aspetti specifici; l’apprendimento cooperativo nasce infatti prevalentemente nel contesto delle scuole statunitensi  e soffre a volte di un’eccessiva rigidità di modelli operativi e metodologici.
Il volume si conclude con il capitolo sulla metacognizione, atteggiamento che dovrebbe pervadere tutto l’agire scolastico e che risulta strettamente intrecciato con l’educazione alle emozioni, all’interazione con gli altri ed all’utilizzo delle strategie cognitive.
Nel testo sono contenuti due contributi di membri dell’AEEE:
La scrittura e l’emozione: la metodologia autobiografica, Anna Maria Simonelli, da pg.386 a 392
La rilevazione delle rappresentazioni – Conoscere per una valutazione diagnostica, Doris Valente, da pg.369 a 385

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Enzo Rullani

Creatività e valore nel capitalismo delle reti

Carocci editore, pgg.438, €34,00

L’autore, docente di Economia della Conoscenza e Strategie di impresa presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, analizza in modo approfondito ed esteso la complessità dei rapporti tra l’economia e la conoscenza a seguito del ruolo crescente che il sapere ha assunto all’interno dei fattori produttivi classici, terra, lavoro e capitale.
L’economia reale è divenuta economia della conoscenza già con la rivoluzione industriale, a partire dalla quale lo sviluppo economico successivo è stato determinato da una serie di innovazioni tecnologiche, frutto di applicazioni di scoperte scientifiche. Nella teoria economica però la variabile tecnologica è stata considerata un coefficiente fisso, esprimente il livello dello stato dell’ “arte” in un dato momento storico, una variabile esogena e quindi neutra per l’analisi scientifica.
In questo contesto teorico la conoscenza è stata identificata con il capitale umano ossia l’insieme delle conoscenze possedute da coloro che operano nell’impresa e di cui l’impresa ha un accesso esclusivo.
A seguito delle più recenti trasformazioni, la cosiddetta knowledge company ha assunto invece una organizzazione, per quanto riguarda le competenze, non più di tipo gerarchico ma “un coordinamento che utilizzi competenze esterne accessibili liberamente o contrattualmente mettendo in moto catene di fornitori e alleati strategici, per” svuotarsi” delle attività non intellettuali(manifatturiere e di servizio banali), diventando sempre più una virtual enterprise, una rete di relazioni e connessioni. Lo sviluppo cessa di essere endogeno(autoprodotto nella singola organizzazione) e si dipana così per reti esterne, variamente intrecciate e gerarchizzate tra di loro”. 
In questa ottica, il capitale intellettuale di un’impresa potrebbe essere distinto, con tutte le difficoltà poi di riconoscimento come asset di valori da parte del mondo finanziario, in:

a)    capitale umano, costituito dall’insieme delle professionalità( competenze, attitudini, flessibilità, elasticità intellettuale) possedute e rese disponibili dai managers e dai dipendenti dell’azienda;

b)    il capitale strutturale, che a sua volta distingue:

- il capitale relazionale, come sistema stabilizzato di relazioni con i clienti, i  
  fornitori, le banche, gli azionisti ecc.

          - il capitale organizzativo, che comprende le competenze e le capabilities
            esclusive sedimentate nell’organizzazione interna  e difficilmente imitabili
            da altri.

Nel testo si sostiene la tesi che il capitale trasformato in conoscenza, diversamente dagli altri fattori produttivi, genera valore attraverso la moltiplicazione(capacità di moltiplicare gli usi), l’interpretazione(capacità di dare un significato endogeno soggettivo alle esperienze), e l’autoregolazione( capacità di autoregolare i rapporti sociali tra gli attori, che così siano messi in grado di condividere la conoscenza e le sue conseguenze economiche).
L’idea centrale è che la conoscenza ha delle sue specifiche peculiarità e che, a differenza degli altri fattori produttivi, non è riducibile a merce. Si tratta, pertanto, di ricercare, in positivo, quali sono le proprietà che consentono alla conoscenza di generare valore e di trovare le soluzioni atte a potenziarla senza alterarne le esigenze cognitive.
Dopo una lunga serie di osservazioni sui cambiamenti determinatisi non solo sulle modalità di organizzazione delle imprese, sulle competenze e conseguenti stratificazioni nell’ambito del lavoro, sulla società in generale, ma anche sulla natura della scienza o della “produzione” scientifica, l’autore individua queste proprietà, in positivo, della conoscenza: 

·        deve essere moltiplicabile, invece di essere (soltanto) non scarsa;

·        deve essere condivisibile in modo socialmente regolato; invece di essere (soltanto) non appropriabile;

·        riflessiva invece di essere(soltanto) non strumentale.

Moltiplicabilità, condivisione e riflessività sono quelle proprietà che possono accrescere il valore prodotto dalla conoscenza e, nel contempo, essere suscettibili di teorizzazione. Tutte richiedono determinate operazioni per costruire la filiera produttiva, ossia la serie di passaggi che rendano utilizzabile la conoscenza.

I fattori ( drivers) che consentono questa trasformazione sono:

a) l’efficacia (v) nel singolo uso

b) la numerosità degli usi (n)

c) il grado di appropriazione (privata) dei frutti del lavoro cognitivo (p).

La combinazione dei (v,n,p) utilizza quanto si apprende dalle nuove esperienze, ma anche da quanto si sapeva già. Gli strumenti più importanti nel trasformare la conoscenza in valore sono i cosiddetti mediatori cognitivi; si tratta di strutture concettuali e/o materiali, teorie, istituzioni, significati, capacità naturali e culturali, che possono, di volta in volta, congiuntamente o disgiuntamente  operare quei cambiamenti nelle conoscenze atti a influenzare il livello dei tre drivers, V(v,n,p,) e a rendere conveniente l’innovazione. 
Viene analizzata la ricaduta di questa tesi sul ciclo produttivo, sul moltiplicatore, sui costi, sulla natura autopoietica dell’impresa e sulla governance dei processi, e su come le differenti competenze possedute stiano operando nuove gerarchizzazioni all’interno del mondo del lavoro.
Tutta la trattazione offre una grande varietà di stimoli a ripensare i paradigmi economici, le modalità dell’indagine scientifica, la natura della conoscenza, le sue ricadute sociali.
Costituisce un’ottima occasione per riorganizzare la propria visione del mondo con concetti e linguaggi nuovi che, valorizzando il vissuto personale, ci rendano più curiosi nel ricercare i significati, non sempre palesi, che la realtà ci presenta continuamente, e quindi ad essere più creativi, come suggerisce implicitamente il nostro autore. (Elide Sorrenti)

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Richard Florida

L’ascesa della nuova classe creativa
Saggi Mondadori, Milano 2003, pagg.483, 17 €

La creatività è un valore personale, che ha il suo massimo risalto nelle attività artistiche, ludiche o sportive. Ma oggi la creatività sta producendo effetti ancora più pervasivi nelle attività umane.
Secondo Richard Florida, economista americano della Carnegie Mellon University di Pittsburgh, la creatività oggi è divenuta un motore generale del cambiamento non solo negli stili di vita o nella gestione del tempo libero, ma anche nelle attività produttive e nel lavoro. Mentre molti studiosi sostengono che le economie più avanzate siano caratterizzabili come economie dell’informazione o della conoscenza, Florida ritiene che sia invece la creatività la forza dotata di maggiore effetti nel determinare la crescita economica nei diversi paesi.
Per arrivare a questa impegnativa conclusione, Florida ha analizzato i dati sociali e produttivi dei maggiori distretti americani. In particolare egli ha elaborato il Creativity Index quale indicatore complessivo della creatività, composto dal mix di quattro fattori: 1) rapporto tra classe creativa e totale della forza lavoro 2) innovazione, calcolato come numero dei brevetti pro-capite 3) presenza dell’industria high tech 4) diversità. Per la misurazione della diversità Florida ha utilizzato il Gay Index di Gary Gates della Carnegie Mellon, basato sulla concentrazione della popolazione gay. L’indice usato da Gates è risultato corrispondere in modo impressionante ai dati sulla crescita dei settori produttivi maggiormente innovativi, riscontrati nell’analisi di Florida.
Ciò che contraddistingue i creativi è la compresenza dei tre fattori T: Tecnologia, Talento e Tolleranza. L persone che presentano queste doti tendono a insediarsi nelle aree dove vive un maggior numero di persone con doti simili, dove gli stili di vita sono più aperti, mutevoli, dove i comportamenti innovativi si mischiano con le capacità intellettuali e con la possibilità di stringere fili di relazioni aperte, seppur deboli, con numerosi individui dotati di analoghe caratteristiche. La creatività riesce a questo punto a diffondersi nelle organizzazioni produttive tradizionali, ad incentivare all’impegno personale, a portare più in alto in un circolo virtuoso le frontiere produttive.
Chi sono allora i creativi? Per Florida esiste un nucleo supercreativo composto da scienziati e ingegneri, poeti e romanzieri, docenti universitari, artisti, attori, stilisti ed architetti, oltre a figure del mondo culturale, opinionisti, programmatori di software, architetti e registi cinematografici. I supercreativi sono pagate regolarmente per compiere attività creative. Oltre a questo nucleo centrale fanno parte della classe creativa i dirigenti nelle imprese high tech,, nei servizi finanziari, nelle professioni legali, sanitarie, aziendali. Agli inizi degli anni 2000 la classe creativa negli Stati Uniti comprenda ormai circa il 30% dell’intera forza lavoro del paese. Le retribuzioni della classe  creativa sono mediamente più alte di circa il doppio di quelle degli appartenenti alla classe dei servizi, operaia e dell’agricoltura.
Dall’analisi Florida non fa discendere rigide prescrizioni. Quello che è importante è rendersi conto di questa nuova realtà, capirla e non ostacolarla, sia da parte di pubblici poteri che delle direzioni nelle attività produttive. Anzi, secondo Florida, la scommessa risiede nel come facilitare la ascesa dei creativi non per renderli dominanti nella società. Al contrario la classe creativa può ben concorrere a creare una nuova coesione sociale senza rifuggire alle risposte che la classe creativa può dare su quali sono le finalità generali delle proprie azioni.
Nell’edizione italiana un breve ed interessante capitolo fa il punto sul ruolo della creatività nel nostro paese.
(Enrico Castrovilli)

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A cura di Giorgio Vittadini

Capitale umano La ricchezza dell’Europa
Edizioni Angelo Guerrini e Associati, Milano 2004, 302 pp, 15 €

I due terzi dello sviluppo delle attività economiche dipendono dalle abilità dei lavoratori. A partire da questa considerazione introduttiva al volume curato da Giorgio Vittadini, si sviluppano una serie di capitoli, realizzati da studiosi di vari settori, che indagano gli aspetti teorici, economici, culturali, statistici e sociali che possono dare all’Europa un nuovo slancio nella preparazione del proprio capitale umano. Sì, proprio l’Europa ne ha bisogno. Un dato statistico impressionante ampiamente indagato nell’intervento di Giovanni Desco segnala che il capitale umano pro-capite negli USA (510.000 euro) è più del doppio di quello europeo (249.000 euro).
Cosa fare allora? L’approccio di partenza non può che essere quello teorico di Onorato Grassi, di chiarire bene il significato di termini chiave di educazione, istruzione, formazione ed addestramento e le loro relazioni con l’economia, che non vanno tanto individuate su di un piano economicistico, bensì nel tentativo di ricercare dei “giacimenti di senso” alle cose che si fanno.
Giorgio Vittadini e Piergiorgio Lovaglio ricostruiscono le teorie economiche sul capitale umano che si sono succedute da Adam Smith ad oggi, offrendo criteri statistici per il calcolo del capitale umano e della sua distribuzione. Ma la teoria economica non basta. Questi autori, coerentemente ai propri principi etici e religiosi, sostengono che il capitale umano ha una natura immateriale non quantificabile, residente nella forza e nello slancio che il desiderio di verità, di giustizia, di bellezza, di amore dei singoli uomini può far emergere. Solo in questo modo è possibile sviluppare le strutture dell’individuo nella loro connessione con la realtà.
Enrico Gori analizza gli effetti dell’istruzione come fattore di investimenti in capitale umano. Da numerosi studi citati emerge che l’aspetto decisivo degli apprendimenti è costituito dalla qualità degli insegnanti che gli allievi incontrano nella scuola.
La seconda parte del volume analizza da diverse angolature l’impatto dell’investimento in capitale umano. Paolo Cappelletti, Nicola Sabatini, Mario Salerno e Carlo Sozzi analizzano i rapporti tra capitale umano e tecnologie a partire dall’affermazione dell’enciclica Laborem Exercens: “mediante il lavoro l’uomo partecipa all’opera della creazione”. L’uomo può non essere subalterno alle tecnologie.
Gianluca Femminis e Gianmaria Martini affermano che il maggiore impatto dell’imprenditore nello crescita del sistema è quello di rendere dinamico il sistema economico.
Piergiorgio Lovaglio passa in analisi i modelli di Mincer e Becker che individuano nel capitale umano il fattore chiave per spiegare le diseguaglianze sociali.
Molti i dati su cui riflettere nel capitolo di Giovanni Desco sui sistemi di istruzioni negli Usa, UE ed Italia. Vediamone alcuni. La spesa statale in istruzione negli USA è simile a quella europea, ma la spesa totale in istruzione diviene ben superiore perché si aggiungono consistenti spese dei privati. La decentralizzazione educazionale intesa come possibilità di adattare a livello decentrato curricoli, metodi e gestione delle scuole favorisce secondo la Commissione UE migliori risultati educativi. Le risposte di accordo alla domanda “La mia scuola è un luogo dove non ho voglia di andare” vedono con il 38% l’Italia seconda solo al Belgio tra tutti i paesi OCSE. L’Italia con circa il 35% è uno dei paesi con il minor numero di studenti nel programma generale (liceale), mentre nella gran parte degli altri paesi gli allievi si dividono a metà tra scuole con programmi generali (liceali) e programmi professionali. La attuale diversificazione su tre programmi (licei, istituti tecnici e istituti professionali) non ha evidentemente impedito il nostro altissimo tasso di abbandono scolastico.
Gli ultimi interventi del volume affrontano le politiche di investimenti in capitale umano, nel capitolo di Paolo Cappelleti, Nicola Sabatini, Mario Salerno e Carlo Sozzi.
Mario Mauro e il Commissario UE Viviane Reding affrontano infine le politiche europee. Alzare il livello del capitale umano è una sfida urgente per le nostre società. (Enrico Castrovilli)

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Luciano Gallino

La scomparsa dell’Italia industriale
Einaudi, Torino 2003, 106 pp, 7 €

Gli interventi sul cosiddetto declino dell’economia italiana si susseguono. Le analisi convergono nella descrizione di uno stato di difficoltà strutturale. Ma non appena gli autori risalgono all’individuazione di quali possono essere le cause delle nostre difficoltà, i ragionamenti si differenziano in modo sensibile.
Il sociologo torinese Luciano Gallino legge in questo agile volumetto la nostra crisi a partire da un punto ben preciso: quello del progressivo venire meno nel nostro apparato produttivo delle grandi produzioni industriali, che invece caratterizzano la crescita economica di tutte le moderne società. Il punto di vista di Gallino è piuttosto trascurato dalle analisi correnti, mentre non è inutile ricordare che negli anni ’60 le grandi imprese industriali italiane furono un tutt’uno con il cosiddetto miracolo economico italiano. Gallino non dà per scontato che il processo di terziarizzazione sia ineluttabile e comunque positivo. Al contrario rivendica alla grande industria, con la sua capacità di innovazione tecnologica, di guida dell’insieme dei processi produttivi, di competitore nella concorrenza mondiale, di generatore di sempre nuovi servizi alla imprese, un ruolo trainante ed indispensabile.
L’analisi di Gallino si sviluppa in diversi settori industriali, con una sequenza di studi di casi. In una serie di produzioni industriali di punta, il nostro paese per predisposizione all’innovazione ed alla ricerca scientifica aveva prodotto negli scorsi decenni ottime performance sul piano interno e si era segnalata sullo scenario internazionale grazie ad alcune grandi imprese che costituirono il paradigma del successo italiano. Nell’informatica sono emblematiche le vicende dell’Olivetti, da impresa leader a livello internazionale fino alla sua recente sparizione. Nell’aeronautica civile tra le due guerre mondiali l’Italia aveva una posizione di grande prestigio, ma nel secondo dopoguerra quest’industria fu progressivamente abbandonata, tanto che il nostro paese si rifiutò di aderire al consorzio europeo Airbus. La chimica dalla Montecatini, alla Montedison, alla Enimont ha assistito ad un dipanarsi di vicende, non sempre nitide, che hanno progressivamente depotenziato un settore di grande forza e prospettiva. Nell’elettronica di consumo (telefoni cellulari, tv color, radio) si è assistito alla scomparsa di produzioni significative proprio nel paese di Guglielmo Marconi. Nelle imprese high tech diverse grandi imprese delle partecipazioni statali sono state progressivamente smantellate; i pezzi di maggiore pregio come Nuovo Pignone ed Elsag sono stati venduti mentre un significativo gruppo industriale come l’Ansaldo è stato irrimediabilmente smembrato. L’automobile ha visto la Fiat divenire l’unico produttore italiano, che al tempo stesso attraversa una crisi per il momento irrisolta sulle scelte strategiche di fondo.
Le prospettive che cerca di individuare Gallino per una ripresa di ruolo della grande industria non sono forse tutte convincenti. Il ritorno a modelli come la legge 675 del 1977 è troppo datato e non fu solo la cattiva volontà politica a rendere questa legge uno strumento inutilizzabile. Ma l’analisi di Gallino è di grande interesse, come pure lo è l’individuare come motori della ripresa l’alta intensità di lavoro e la conoscenza. (Enrico Castrovilli)

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Luca Ferrucci - Daniele Porcheddu
La new economy nel Mezzogiorno. Istituzioni e imprese tra progettualità
e contingencies in Sardegna

Il Mulino editore, 2004, pagg.280

In Sardegna, in particolare nell'area cagliaritana, negli ultimi anni, si è formato un cluster di imprese della new economy (qualcuno già parla di una «Silicon Valley del Mediterraneo»). L'impresa più importante dell'area,
ossia Tiscali, occupa attualmente, da sola, circa 800 addetti ed ha una presenza consolidata su tutti i principali mercati europei. Ma come è potuto accadere che, in una regione del Mezzogiorno, lontana dall'integrazione
territoriale con il resto del Paese, con i suoi noti problemi di industrializzazione, si sia potuto attivare questo sentiero di sviluppo economico innovativo? E come è potuto accadere in un settore high tech, molto distante dalla vocazione
storica e economica di questi territori? In questo volume si descrivono e si interpretano le vicende e si esplorano
le cause e i meccanismi che, a partire dai primi anni Novanta, hanno contribuito ad attivare e ad alimentare quest'originale e innovativa traiettoria di sviluppo locale all'interno della new economy.
In questo modo, il volume fornisce anche nuovi spunti di riflessione sulle potenzialità innovative presenti in alcune aree del Mezzogiorno e sui meccanismi e le logiche per una loro valorizzazione ai fini di uno sviluppo economico
locale. (Prospero Malavasi)

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Sergio Zangirolami - Teresa Dal Maschio
Il sottosviluppo e la povertà. Natura e cause

Teti editore 2004, pagg 272, 18,50

Sottosviluppo e povertà, da un lato, sviluppo e ricchezza dall’altro, sono i due poli di questo nostro mondo estremamente ingiusto, nel quale le affermazioni sull’uguaglianza di tutti gli uomini, contenute in tante Costituzioni, appaiono ipocrite.
Di fronte ai dati della denutrizione di milioni di bambini e di fronte all’obesità contrapposta alla morte per fame, ci sentiamo indignati e ci poniamo la domanda perché è potuto succedere e, perché mai possa continuare. Per individuare le cause dobbiamo ammettere che molta responsabilità del sottosviluppo sta nei paesi sviluppati e ci coinvolge tutti.
Molti sono convinti che sarebbe bastato che avessero studiato la nostra storia e seguito i nostri consigli, per raggiungere una condizione di vita non lontana dalla nostra. Tanto più, che molti di questi paesi sottosviluppati erano dotati di grandi ricchezze naturali. Volutamente non viene detto che i rapporti commerciali sono sempre stati sfavorevoli a questi paesi.
Inoltre, e questo è un elemento decisivo, si sorvola sulla semplice constatazione che il nostro sviluppo, con i consumi che ha comportato e ancora comporta (gli Stati Uniti, con meno di un ventesimo della popolazione mondiale, consumano più di un quarto dell’intera energia prodotta nel mondo) non è generalizzabile.
Su questi temi sempre drammaticamente attuali, i due autori forniscono ai lettori elementi di conoscenza che permettano di farsi un’opinione il più possibile corretta, senza pregiudizi ma anche senza cadere in analisi facili e lacrimose, di cui sono pieni tanti mezzi di comunicazione. (Sergio Zangitolami)

http://members.xoom.it/setedaza

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Paolo Sylos Labini  Sottosviluppo

Laterza 2000 pagg. 206  € 13,43  

Non è la prima volta che Sylos Labini (1920), già insegnante di Istituzioni di economia politica nella facoltà di Scienze statistiche, demografiche e attuariali dell’Università di Roma La Sapienza, affronta nei suoi libri il tema del sottosviluppo, da “I problemi dello sviluppo economico” del 1970 a “Il sottosviluppo e l’economia contemporanea” del 1983. Sempre ha cercato di analizzare, con dati e argomentazioni fondate sull’applicazione delle teorie economiche, le cause del sottosviluppo, ma soprattutto ha cercato di proporre delle soluzioni, delle misure correttive, degli interventi di politica economica. La scelta dichiarata su cui si basano le proposte è sempre quella delle riforme, poiché sempre si è dichiarato un riformista. Anche in quest’ultimo lavoro viene seguita questa strada, tanto che il sottotitolo recita “Una strategia di riforme” Non si tratta di riforme puramente economiche, secondo un approccio che l’autore dichiara di aver derivato dallo Smith della Ricchezza delle nazioni, dato che attraverso Smith possiamo comprendere non solo l’importanza concettuale di unificare diverse categorie di problemi appartenenti a diversi campi di ricerche - storia economica, teoria economica, demografia, politologia - per superare le conseguenze dannose, a volte perfino schizofreniche, dell’estrema divisione del lavoro nell’analisi delle società. Possiamo anche apprendere che, per cercare d’interpretare l’evoluzione economica delle diverse società, dobbiamo considerare, insieme, tre aspetti fondamentali: la cultura, le istituzioni e le risorse naturali. Sulla base di quest’ottica si svolge tutto il ragionamento, che tocca le Relazioni economiche fra paesi sviluppati e sottosviluppati, la Pressione demografica, Le innovazioni organizzative e istituzionali. Due capitoli vengono dedicati, con un linguaggio talvolta non semplice per chi non è abituato agli strumenti, anche matematici, dell’analisi economica, all’inadeguatezza della teoria economica dominante per spiegare i processi di sviluppo, nello specifico dei rendimenti e prezzi, e della distribuzione e crescita. Nelle Conclusioni vengono avanzate proposte operative che coinvolgono i paesi sviluppati: 
- un programma d’infrastrutture fondamentali, organizzate e finanziate dall’ONU e dall’UE, d’accordo con i governi dei paesi sottosviluppati; - un Centro per il coordinamento delle attività sanitarie; 
- un Centro europeo per un ampio programma di istruzione elementare, specialmente per le donne in Africa; 
- un Centro, sempre per l’Africa, per la formazione di esperti di distretti rurali e industriali; - un programma per l’educazione superiore e la ricerca. (Sergio Zangitolami)

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Tommaso Padoa-Schioppa Europa, forza gentile

il Mulino 2001 pagg. 186  € 10,33  

Padoa-Schioppa ha alternato incarichi prestigiosi in Italia, in Banca d’Italia all’Ufficio studi e alla Direzione generale nonché alla presidenza della Consob, e presso le istituzioni comunitarie, prima come Direttore generale degli affari economici e finanziari della Commissione europea ed ora come membro del Comitato esecutivo della Banca centrale europea.Questa esperienza gli ha consentito di conoscere a fondo i meccanismi della politica monetaria e finanziaria e il funzionamento degli istituti della Comunità europea. 
Nel libro in esame, scritto in modo chiaro anche se presuppone una certa conoscenza della materia, vengono raccolti i testi di alcune conferenze tenute in Italia e all’estero dal 1998 al 2000 sul tema della costruzione europea, culminata fino ad ora nell’adozione della moneta unica. Appare evidente non solo la ragione dello sforzo per l’unificazione economica, allo scopo iniziale di togliere una base importante ai conflitti che hanno colpito l’Europa nel XX° secolo, ma anche la necessità che si vada oltre, limitando progressivamente il potere sovrano dei vari Stati. Percorso molto accidentato, come appare nelle discussioni attuali, ma “ Perché la pace europea si fondi su basi più solide del precario equilibrio delle forze e dei trattati internazionali è necessario instaurare tra gli Stati l’imperio della legge, creando un potere ad essi superiore e affidandogli alcuni dei compiti che, nella storia dell’Europa moderna, sono stati prerogativa dello Stato nazionale: la sicurezza interna ed esterna, la tutela delle libertà fondamentali, la politica internazionale, la moneta.” Questa visione realistica viene analizzata avvalendosi di esempi concreti, riferiti anche al comportamento dell’Italia, che manifesta nell’opinione pubblica un notevole grado di adesione all’Europa, ma nel contempo rimane spesso indietro nell’applicazione delle norme europee. La lettura è utile anche per i riferimenti storici alla nascita delle istituzioni, su cui l’Unione deve inserirsi, come la nazione, lo stato, la federazione. (Sergio Zangitolami)

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La povertà in Italia

La povertà non è una caratteristica dei soli paesi sottosviluppati, ma si estende largamente anche nei paesi industrializzati e sviluppati, creando sacche di disagio sociale che devono indurre a riflessioni non occasionali, per piani mirati a ridurne l’incidenza (si ricordi il forte richiamo, oltre a quelli delle chiese e delle associazioni di volontariato, anche di economisti come John K.Galbraith, in “La cultura dell’appagamento” Rizzoli 1993). E’ necessario, a cominciare dal proprio paese, farsi anche un’idea quantitativa di questo grave fenomeno, e questo ci consentono alcuni documenti ufficiali. Intanto, la Banca d’Italia pubblica annualmente, come Supplemento al suo Bollettino Statistico, una ricerca sui Bilanci delle famiglie italiane, di cui si parla in una successiva recensione in questa newsletter. Ma è l’Istat che quantifica il numero delle famiglie povere, sia in senso relativo (cioè rispetto alla spesa media mensile pro capite per consumi) che in senso assoluto (basandosi sul valore monetario di un paniere di beni e servizi essenziali, che tiene conto dell’andamento dei prezzi). Il primo criterio definisce povera una famiglia di due persone che abbia un consumo pari al consumo medio pro capite del paese (il che significa, che ogni suo componente avrà un consumo pari o inferiore alla metà di quello medio nazionale). Per le famiglie di più componenti, si tiene conto di un fattore correttivo rapportato alle economie di scala (dato che le spese non aumentato proporzionalmente, perché certi beni, come l’automobile e il televisore, servono a più persone.) Secondo questo criterio: nel 2001, circa 2 milioni 663 mila famiglie (pari al 12,0% del totale delle famiglie residenti) vivevano in condizione di povertà relativa, per un totale di 7 milioni 828 mila individui (il 13,6% dell’intera popolazione). Posto pari a 100 il totale delle famiglie in condizione di povertà, 66 risiedevano nel Mezzogiorno. In termini assoluti la povertà, come si è detto, viene definita come una condizione economica di incapacità all’acquisto di determinati beni e servizi, indipendentemente dallo standard di vita medio della popolazione di riferimento. Questo criterio individua come povere, nel 2001, il 4,2% delle famiglie italiane (940 mila) per un totale di 3 milioni e 28 mila individui. E’ sempre nelle regioni del Mezzogiorno che si osserva una maggiore concentrazione del fenomeno, vi risiede infatti il 75,1% delle famiglie assolutamente povere. Non occorre insistere sul valore didattico di ricerche che si basino su informazioni di questo genere, anche tenendo conto del fatto che una delle cause documentate di povertà è la mancanza di istruzione, per le conseguenze negative sul lavoro e sul reddito che se ne ottiene. 
(i testi integrali del Supplemento al Bollettino Statistico della Banca d’Italia, Numero 6 - 18 Gennaio 2002 e della ricerca “La povertà in Italia nel 2001” dell’Istat si possono scaricare dai siti Internet di questi due enti: http://www.bancaditalia.it   
http://istat.it  (Sergio Zangitolami )

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Hernando de Soto Il mistero del capitale

Garzanti 2001, pagg.277 € 18,08  

Hernando de Soto è un economista peruviano che ha acquistato notevole popolarità anche all’estero, dopo aver assunto ruoli di rilievo all’interno del suo paese, prima come consigliere e poi come avversario del presidente peruviano Fujimori.La sua analisi ha come tema centrale quello di individuare le cause della povertà e della ricchezza nei diversi stati. Ma se con il muro di Berlino è crollata l’illusione sulle virtù del sistema comunista, dall’altro lato il capitalismo non appare in grado di essere una ricetta valida per tutte le economie. Come individuare allora le condizioni per la crescita della ricchezza, in particolare nei paesi più poveri e nelle economie in transizione? Risalendo alle concezioni di grandi economisti classici Smith, Say e Marx, de Soto ritiene che “il capitale è dapprima un concetto astratto e deve ricevere una forma fissa, tangibile per essere utile”. La condizione decisiva proposta da de Soto è allora quella di costruire le forme necessarie per la rappresentazione legale di tutte quelle attività patrimoniali e imprenditoriali, che esistono cospicuamente sotto forma di economia informale anche nei paesi più poveri ed arretrati. Le ricerche svolte in molti paesi poveri relativamente a quella che l’autore chiama “apartheid legale” dall’ILD (Institute of Liberty and Democracy, fondato da de Soto negli anni ’80) in molti paesi poveri e poverissimi mostrano risultati sconvolgenti. Per aprire una piccola attività produttiva in Perù occorrono 289 giorni di lavoro ad una squadra di sei persone impegnate per sei ore al giorno. In Egitto la persona che desidera acquistare legalmente un lotto di terreno deserto di proprietà pubblica deve svolgere 77 pratiche burocratiche presso 31 agenzie, con un tempo medio di attesa da 5 a 14 anni. Le bancarelle degli ambulanti irregolari di Città del Messico se messe in fila coprirebbero una lunghezza di oltre 210 chilometri. La dimensione enorme di questa economia informale, o capitale morto come preferisce chiamarlo de Soto, fa capire che se esso fosse riconosciuto con forme legali agili ed efficienti potrebbe costituire una spinta enorme alla valorizzazione di una ricchezza, creatività e fantasia produttiva che già esiste e che attende solo registri e leggi per dare maggiori frutti ai paesi poveri. Così come è accaduto circa due secoli fa nei paesi che oggi sono più ricchi. 
Questo processo viene auspicato da de Soto assumendo il punto di vista dei poveri. In definitiva l’economista peruviano ritiene che “la cassetta degli attrezzi marxista”, in questa versione rivisitata se non addirittura rovesciata, sia la più adeguata per eliminare “l’apartheid legale” che rischia di escludere troppa parte dell’umanità dal processo di globalizzazione.

Altre informazioni sul sito: www.ild.org.pe  (Enrico Castrovilli.)

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Umanizzare lo sviluppo

Rosenberg & Sellier 2001, pagg.222 € 13

I problemi della crescita economica, dello sviluppo economico ed umano, il problema delle disuguaglianze e della povertà, la questione della misurazione dello sviluppo umano, la definizione di politiche favorevoli allo sviluppo umano sono come noto temi di grande attualità.
Ben venga quindi un’analisi teorica e allo stesso tempo ricca di riferimenti a situazioni concrete come è quella contenuta nel documentato volume di Enrica Chiappero Martinetti ed Andrea Semplici, sulla base di un progetto della organizzazione non governativa Ucodep di Arezzo. I primi capitoli si diffondono sulle differenze che intercorrono tra i concetti di crescita e di sviluppo economico. Ma poiché il reddito non cresce distribuendosi in modo uniforme, gli autori si pongono il problema di affrontare il problema della povertà e della sua misurazione. 
La seconda parte del volume presenta la nuova concezione dello sviluppo umano, introdotto dall’UNDP (Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo) a partire dagli anni ’80. Ne vengono presentate la definizione, le diverse modalità di misurazione, la statistiche internazionali che mostrano i diversi livelli negli indici dell’ISU (Indice di Sviluppo Umano) nei diversi paesi. Il libro si conclude con una rassegna delle politiche per lo sviluppo umano che mostrano una crescente attenzione da parte delle opinioni pubbliche e degli organismi internazionali ad una concezione dello sviluppo attenta alle condizioni effettive della vita umana e dell’insieme dell’ambiente in cui noi oggi viviamo e vivremo. Il volume è completato dalle interviste a numerosi studiosi e protagonisti delle attività di cooperazione internazionale e da utili approfondimenti di specifiche tematiche. (Enrico Castrovilli

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Banca d’Italia

I Bilanci delle famiglie italiane nell’anno 2000
Supplemento al Bollettino Statistico
N.16 – Gennaio 2002

Segnaliamo questa interessante pubblicazione della Banca d’Italia, che costituisce una ricca miniera di dati relativamente alle questioni della ricchezza e della sua distribuzione tra le famiglie italiane.I dati sono sempre presentati a livello dell’aggregato famiglia. Sono state indagate circa 8000 famiglie italiane nella prima metà dell’anno 2001. L’indagine prende in considerazione la struttura della famiglia, i dati sul reddito e il lavoro, i consumi, la distribuzione del reddito e della ricchezza netta (comprensiva della rappresentazione con le curve di concentrazione di Lorenz e degli indici di Gini), la diffusione delle attività finanziarie, l’utilizzo degli strumenti di pagamento, le abitazioni di residenza. Il volume comprende nota metodologica, tavole statistiche e questionario utilizzato. 
Il fascicolo è disponibile gratuitamente, inviandone richiesta via fax a: 
Biblioteca della Banca d’Italia, Servizio studi Fax: 06/47922059 (Enrico Castrovilli)

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Invitiamo tutti coloro che volessero inviarci recensioni a farlo all'indirizzo

inviomateriali@aeeeitalia.it

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